Entropia sovrana, o di degustazioni oggettive e bottiglie identiche ma diverse.

Alert: questo non è il vero articolo. E’ una anteprima, uno spot, un trailer, una sinossi, o, come dicono quelli  fighi, un teaser, infatti su questa storia delle degustazioni oggettive, delle sfide all’ultimo descrittore psichedelico, dei punteggi centesimali spaccati con il cesello e delle guide con relativi premi, frizzi, lazzi e cotillon ho in previsione di scrivere da tempo, ma ogni volta che mi approccio alla materia mi ritraggo sconfortato.

Peraltro mi preme lasciar traccia di quanto accaduto la settimana scorsa e che, incidentalmente, rafforza le mie convinzioni.
Primo episodio: consueta bella degustazione presso la Cantina du Pusu di Rapallo; stavolta il tema sono i famigerati Supertuscans, una sparata di otto referenze che hanno visto la luce nel periodo dal 95 al 99.

Tra gli assaggi, due Merlot: Sant’Adele ’99 Villa Pillo e Merlot ’97 La Braccesca.
Più o meno tutti concordi: La Braccesca è più fresco, più vivo, più ricco. Verso fine serata si stappa una seconda bottiglia del Sant’Adele, e, più o meno tutti concordi, è un altro vino, più ricco, espressivo, pieno ed elegante, infinitamente migliore del precedente omonimo e del suo “concorrente”.
Ovviamente stessa annata, stessa conservazione, stessa partita e, credo, persino stesso cartone originale.

Secondo episodio: casa mia, apro una bottiglia (ne parleremo in un prossimo articolo) davvero poco convincente, sia al naso che al palato. Ne lascio tre quarti, aperta, e aspetto un giorno, e poi un secondo. Senza arrivare all’eccellenza, il prodotto da quasi sgradevole si è trasformato in discreto.

Alla luce di questo banale esempio, la domanda è scontata: di cosa parliamo quando facciamo le nostre affilate recensioni basate su 10cc di un vino elemosinato al banchetto di una manifestazione nel corso della quale il produttore avrà stappato dieci diverse bottiglie dello stesso prodotto?
Di cosa parlano i vari recensori delle blasonate guide, che si scofanano fino ad oltre cento (100!) vini in una stessa giornata, investendo in ciascuno un sorso, un gargarismo, uno sputo e 20 secondi?

Dai, siamo seri: sono indicazioni di massima, stop!
Poi, possiamo parlarne, ci divertiamo e nessuno lo nega, ma credo sarebbe bene ricordare che stiamo facendo al più una mappa in scala uno a diecimila della realtà di un vino, altro che “questo 84 punti, quello 85”, altro che dotte dissertazioni sul sentore di tabacco del Kentuky piuttosto che della Virginia…

A latere: parlavamo di Supertuscan, bene, io non c’ero ma mi pare di capire (e mi sono documentato, ho le prove scritte del reato e le conservo con cura, in vista di un auspicabile Norimberga enoica), che vitigno internazionale, barrique, enologo di grido e similari, sono stati per anni il grido di battaglia di tanti fenomeni degustatori e dei loro relativi premi, e ovviamente hanno formato una stirpe di consumatori schiavi del trend del momento, incapaci di decidere con la loro testa e che si sono a lungo beati di “sentori vanigliati”, “grande frutto maturo” e altra paccottiglia varia.
Ora il vento degli “esperti” è cambiato e ne consegue che se avessi in tasca un euro per ogni invasato che, roteando un bicchiere, straparla solo di “mineralità” e “acidità” e declama icastico “Si sente il legno piccolo!”, potrei quasi bere Romanée-Conti una volta la settimana. Sono passati dieci anni, non diecimila.

Mondo curioso, quello del vino: “frutto” e “minerale” saranno mica come i “vita alta” e “vita bassa” del fashion? Nel caso, mettete via una cassa di syrah siciliano bello concentrato e rotomacerato: sia mai che il prossimo autunno-inverno tornino in voga i borselli per uomo e l’osmosi inversa?

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Le loro maestà: impressioni varie

Buon ultimo tra i vari blog, propongo il mio commento su “Le loro maestà“, importante manifestazione giunta alla seconda edizione (per parlare come i tizi che redigono i comunicati stampa).

Le loro maestàIl succo della faccenda: presentare una panoramica di produttori langhetti e borgognoni, cercando di fornire una prospettiva quanto più completa possibile sulla “nobiltà” dei vitigni Pinot nero e Nebbiolo: in pratica 50 cantine, equamente divise tra Italia e Francia, hanno presentato per l’assaggio uno o due vini ciascuno, simbolo della loro produzione.

Manifestazione magniloquente (non vorrei definirla “sborona”, ma insomma…) sia dal nome “maestoso”, che per ubicazione (l’Agenzia di Pollenzo, dove risiedono anche l’università di Slow Food e la Banca del Vino), la teutonica macchina organizzativa (hostess precisissime e cortesi, guardardaroba all’ingresso, abbondanza di bottiglie d’acqua gassata e naturale e ottimi grissini nella sala di degustazione) e, ovviamente, per il prezzo allineato o forse persino superiore alle aspettative (80 euro!).

Le loro MaestàSolite sensazioni per il tipo di manifestazione che ormai, come da consuetudine, io definisco “drink-porn”: come altro puoi chiamarla, quando paghi per abbuffarti per una giornata intera di una messe infinita di vini, che ovviamente assaggerai e sputerai invece di approfondirli, gustarli, abbinarli ad una pietanza? E’ pornografia enoica: ti perdi in mille abbracci che ricambi solo per un istante, goloso di tuffarti tra altre braccia sempre nuove solo perché puoi e non perché hai qualcosa di ricambiare.
Ma tant’è, consapevole dei limiti della formula, ogni tanto mi piace indulgere in queste perversioni…

La cronaca: sveglia al mattino presto per essere a Pollenzo fin dall’apertura, in modo da dedicare la mattina alla Francia, fare una pausa per il pranzo, poi rientrare per gli italiani e riuscire ad avere un adeguato tempo di decompressione prima del ritorno a casa in auto.
Programma rispettato a dispetto delle temperature polari (-7.5 sulla Torino-Savona alle 9.30 del mattino!).

Mentirei se dicessi che conoscevo più del 10% dei francesi e più del 40% degli italiani, se non per averne letto le ragioni sociali in siti, libri, opuscoli eccetera, e altrettanto sarei presuntuoso se affermassi di essere essere stato capace di capire la filosofia e la qualità di 50 aziende nello spazio di poche ore.
Le loro Maestà 2Per questo, come sempre in queste occasioni, mi limito a qualche cenno su quello che ho trovato più gradevole o interessante in quell’istante, senza volerne fare classifiche di merito e neppure tagliare dei giudizi centesimali che sono quanto mai distanti dal mio modo di frequentare il vino.

Ecco quindi qualche impressione veloce e minimale.
Per quanto riguarda i francesi segnalerei il Clos de la Roche Grand Cru 2002 di Remy: note terziare, tannino presente ma delicatissimo, lungo e cangiante in bocca; il Nuit-Saint-Georges 1er Cru Les Damodes 2007 di Olivier: molto personale, con accenno di medicinale e bella freschezza; il Pommard 1er Cru Grand Clos des Epenots 2009 di De Courcel: si distingue per corpo, potenza e tannino mantenendo equilibrio ed eleganza; il Volnay 1er Cru Santenonts du Milieu 2005 di Comtes Lafon: forse il naso più bello, intenso, ricco della manifestazione.
Segnalazione a parte per i vini di Guillon, che si scostavano dagli altri per concentrazione superiore, sia nel colore che in bocca, il produttore sostiene a causa delle lunghe vinificazioni.

Per gli italiani: bello intenso, vivo, vibrante il Barolo Fossati 2006 di Enzo Boglietti; tannino alle stelle per il Barolo Bricco Boschis Vigna San Giuseppe 2006 di Cavallotto; piacevolissimo e corredato da una bella spezia il Barbaresco Rabajà 2009 di Giuseppe Cortese; fine, delicato e complesso, con accenni interessanti di evoluzione il Barbaresco Camp Gros Martinenga 2004 Tenute Cisa Asinari dei Marchesi di Gresy; molto personale ed elegante il Lessona Omaggio a Quintino Sella 2006 di Tenute Sella.
Un punto interrogativo grosso per il Barolo Bricco Gattera 2005 di Cordero di Montezemolo: al naso si avvertiva netta la banana!

In generale, è stato molto più semplice gestire l’assaggio dei vini francesi, che grazie alla minor potenza e soprattutto al minor tannino, hanno consentito al mio palato di restare reattivo e concentrato più a lungo.

Alcune osservazioni.
Molti i grandi nomi presenti, ma altrettanti ne mancavano, e degli intervenuti ben pochi hanno portato millesimi più affinati degli ultimi disponibili: dato il prezzo di ingresso credo che si potesse fare uno sforzo per avere maggiore profondità di annate; la cosa ha penalizzato in particolare i vini piemontesi, che in molti casi ho trovato ancora estremamente duri.
Ancora, la manifestazione era a numero chiuso: ne sono certo perché al sabato i biglietti risultavano esauriti in prevendita; nonostante questo, in alcuni momenti della giornata la calca era non insostenibile ma certamente fastidiosa; sarebbe stata augurabile una sala più spaziosa.

Infine, vorrei spendere una parola di elogio per la trattoria Savoia: al momento del pranzo abbiamo deciso di fare qualche metro e siamo entrati questo bar / tabaccheria di Pollenzo, che nel retro propone un piccolo ristorante. Cucina semplice e tradizionale, con materie prime di buon livello, porzioni devastanti per quantità e prezzi da incredulità generale. A completare lo stupore, servizio tranquillo e gentilissimo. Davvero complimenti: il locale che vorrei avere sotto casa.

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La giungla dei solfiti

I solfiti sono spesso al centro di scambi di idee abbastanza contrastanti, mi è capitato da poco di leggere un articolo che trattava quest argomento, e che mi ha fatto pensare che effettivamente è facile fare un pò di confusione tra solfiti aggiunti e solfiti naturalmente presenti nel vino.

Cercherò di fare, per quello che mi è possibile, un quadro più chiaro della situazione sperando che vi sia utile.

Inizialmente l’ anidride solforosa veniva utilizzata unicamente per i processi di sanificazione dei tini, come prodotto della combustione di zolfo. Solo in seguito si è iniziato ad utilizzarla come adittivo chimico per le sue molteplici funzioni nel processo di vinificazione come: antisettico, estrattore di colore, miglioratore organolettico, antiossidante. Bisogna fare subito una precisazione: i solfiti sono presenti naturalmente nel vino spetta poi al produttore decidere se aggiungerne o meno ulteriori quantità.

All’ anidride solforosa vengono imputati diversi effetti collaterali come la sensazione di pesantezza e il famigerato cerchio alla testa, ricordiamoci però che é presente oltre che nel vino in moltissimi alimenti conservati (riscontrabile in etichetta tra gli ingredienti come antiossidante E220, E223, E224).

Anche nei vini biologici sono presenti solfiti e, secondo un disciplinare che ho  trovato sul sito del Fondo Europeo Agricolo, al produttore é data la possibilità di intervenire aggiungendone una quantità che dovrà comunque essere inferiore a quella consentita nei vini non biologici, e che varia in base alla tipologia di vino.

Limiti del contenuto di solforosa totale definiti dal regolamento europeo di vinificazione biologica: nei vini rossi (convenzionali) il limite é di 150 mg/l in quelli biologici é di 100mg/l questa proporzione si mantiene per tutte le diverse tipologie di vino prodotto.

Alla luce di questo credo sia importante seguire i propri gusti senza farsi influenzare da questa spasmodica ricerca del biologico e del naturale a tutti i costi, anche perchè come dice il mio amico Marco in una bottiglia di vino ci sono altre cose potenzialmente più “dannose”per la nostra salute come l’ alcool.

Detto questo il mio consiglio è quello di bere ciò che ci piace di più.

 

 

 

 

 

 

 

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Cheap Thrills n.1: Pinot Gris Réserve 2007, Trimbach

Cosa c’è di più surreale di iniziare una rubrica nata e pensata per ospitare pareri su vini dal prezzo “rigorosamente sotto ai 15 euro” con un prodotto che in enoteca viene via a 17 euro? Forse pensare che la bottiglia la ha scelta Francesca, che, solitamente precisa e rigorosa, in questo caso ha rivelato un sorprendente animo dadaista: al prossimo giro mi aspetto una boccia di Krug o una di gazzosa, così, tanto per fare casino…

Pinot-Gris-Reserve-Trimbach

Un accenno veloce alla azienda e al prodotto:Trimbach è un nome storico della viticultura alsaziana: da oltre quattrocento anni ben ventitré generazioni si succedono nella vinificazione di tutto lo spettro dei classici di questa regione.
La produzione è segmentata in Classic (i prodotti base), Reserve (da parcelle selezionate di vecchie vigne), “Reserve Personnelle” (dai terreni più vocati, prodotti solo in certe annate) e una piccola gamma di Vendanges Tardives e Sélection de Grains Nobles.

Il vino di cui parliamo oggi è il Pinot Gris Reserve 2007.

Ovviamente pinot grigio al 100%, viene vinificato in acciaio e non svolge la malolattica; buone premesse: il produttore lo dichiara adatto ad un invecchiamento di 5-10 anni e sostiene che il 2007 sia una ottima annata.
Andiamo a incominciare.

Denominazione: Alsace AOC
Vino: Pinot Gris Réserve
Azienda: Trimbach
Anno: – 2007
Prezzo: 17 euro

Marco

Francesca

Il primo impatto non è felicissimo: in realtà lo avevo  massacrato stappandolo in abbinamento criminale ad un piatto in cui era presente abbondanza di carciofi.. Rimesso il tappo e riprovato il giorno seguente in condizioni più civili, è stata tutta una altra musica.

Alla vista è paglierino-dorato e visibilmente consistente; appena lo porti al naso risulta netta la sensazione di affumicato e minerale, poi spunta un accenno di pera: direi non troppo intenso e compresso ma sicuramente elegante.

Entra in bocca con corpo molto pieno e caldo (i 13,5 gradi si sentono tutti). Mentre assaggiavo, in diretta ho scritto: “residuo zuccherino non percettibile o perlomeno minimo, cosa non scontata con gli alsaziani”, poi ho guardato la scheda tecnica e sono stato smentito alla grande: si dichiarano 7,1 g/l ma davvero non infastidiscono, probabilmente perché bilanciati da notevoli freschezza e sapidità. In effetti dopo il pasto, finendo la bottiglia senza cibo, a fine sorso resta in bocca un velo di dolcezza che comunque non scade nello stucchevole, e il vino è sicuramente da definirsi secco.

Il finale è abbastanza lungo, con un accenno amarognolo (mandorla, noce) che a mio parere lo penalizza lievemente.
Certamente è un vino da consumare pasteggiando (lo vedo bene con qualcosa di  grasso, ad esempio salmone o formaggi di media stagionatura o una quiche) ed è da servire non troppo freddo per non mortificare gli aromi delicati e non esaltare eccessivamente le durezze.

La conclusione è di un vino di buon livello, svolto ottimamente; Il lieve difetto è quello di una alcolicità davvero notevole, che lo rende adatto esclusivamente in abbinamento, e di una personalità non spiccata: onestamente alla cieca non credo avrei capito che si trattava di un alsaziano.
Sarei curioso di riprovarlo tra qualche anno per valutarne l’evoluzione. di sicuro ha ancora possibilità di percorrere molta strada.

Questo articolo è nato dall’idea di Marco di mettere a confronto due degustazioni dello stesso vino, non è una gara tra palati ma un modo di dare differenti punti di vista sullo stesso prodotto, parliamo appunto del Pinot Gris Trimbach di cui avete già potuto leggere qualche nota tecnica fornita da Marco. Si presenta nel bicchiere con un brillante giallo paglierino. I primi profumi che si percepiscono al naso  sono sicuramente una nota di frutta secca  e una nota di vaniglia poco accennata, predominante è il miele che per una questione di gusti personali non mette questo vino tra i miei preferiti, decido comunque di proseguire senza farmi influenzare dal mio gusto personale e cercando di mantenere l’obbiettività . Al primo assaggio il pinot grigio non delude, anzi si sentono in modo più marcato tutti i profumi, spicca un sentore di frutta essiccata e ritorna anche la mandorla. Sicuramente la spina dorsale di questo vino è una buona acidità, e un altrettanto buona mineralità che nel complesso danno un piacevole equilibrio. A lasciarmi un pò in dubbio è questa nota di miele che non mi convince pienamente, ma che non mette in discussione la qualità complessiva di questo vino.

 

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Cheap Thrills: recensioni di vini al tempo della crisi

cheap thrillsCheap Thrills in breve:
Francesca ed io abbiamo deciso una cosa che crediamo interessante: a cadenza più o meno regolare uno dei due sceglierà in enoteca un vino rigorosamente sotto i 15 euro; tutti e due lo assaggeremo e ne scriveremo da soli, in autonomia.
Obiettivo: scovare piacevolezze (o schifezze) da bere a buon mercato e sfatare il mito della degustazione oggettiva; inoltre crediamo che il casino pseudo-organizzato delle due recensioni alla cieca l’una dell’altra possa aggiungere un pizzico di divertimento.

A breve la prima puntata di Cheap Thrills.

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Vorberg 2010, Cantina Terlano

VorbergDenominazione: Alto Adige Terlano DOC
Vino: Vorberg
Azienda: Cantina Terlano
Anno: – 2009
Prezzo: 17 euro

Pochi accenni per un vino che teoricamente aveva tutte le carte in regola per entusiasmarmi (bianco del nord, ottiene sempre ottime recensioni e proviene da una cantina che lavora costantemente bene e mantiene prezzi civili), e che invece mi ha lasciato con qualche (piccolo) dubbio.

Poco da dire su Cantina Terlano, se non che è uno degli esempi virtuosi di cantina sociale: fondazione a fine 1800, numerosissimi soci che forniscono uva per oltre un milione di bottiglie di varia tipologie (tutte DOC, al 70% vini bianchi), e un ventaglio di proposte dalle più semplici fino alle rarità di proposte in occasione di annate particolari.

Questo Vorberg è vinificato al 100% con uve di pinot bianco provenienti dall’omonimo cru posizionato tra 350 e 900 metri di quota; fermentazione, malolattica e affinamento svolti in legno grande.
Si comincia: vino molto bello alla vista, giallo paglierino squillante. Olfattivo ricco, intenso e complesso, principalmente frutta (melone, agrume, ananas), poi i fiori di camomilla e un accenno di minerale.

In bocca è molto pieno, grasso, robusto; azzarderei persino burroso ed opulento, certamente non coerente con un naso decisamente più fresco ed elegante.
Caldo, molto più sapido che fresco; i 13,5 gradi dichiarati si sentono tutti. In sostanza: il varietale del vitigno c’è, ma ancora di più si avvertono potenza e lunghezza.

Ovviamente non posso dire che non mi piaccia, ma la bevuta non è irresistibile come avrei immaginato: è un vino fatto molto bene e che ambisce ad una certa importanza, ma gli trovo il limite (perlomeno in questo momento evolutivo) di essere parzialmente irrisoluto tra un anima fresca e una volontà di struttura.
Lo riproverei con qualche manciata di mesi in più di cantina, e non escludo di averlo “preso male” io, magari partendo da aspettative sbagliate, o anche di aver incontrato una bottiglia un poco carente in freschezza.

Per quanto sopra, consiglio di consumarlo in abbinamento a preparazioni un minimo elaborate: non è il classico pinot bianco profumato da aperitivo.

 

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Lahaye Cuvée Prestige Blanc de Noirs

Denominazione: Champagne
Vino: Cuvée Prestige Blanc de Noirs
Azienda: Benoit Lahaye
Anno: – (cuvée)
Prezzo: 47 euro

champagne lahayeBenoit Lahaye è uno dei vigneron di culto delle (ormai neppure troppo) nuove tendenze champagnistiche che rigettano le grandi maison e vogliono la produzione bio-qualcosa.
Ho poche notizie su questa Cuvée Prestige Blanc de Noirs: proviene appunto da coltivazioni biodinamiche, credo in gran parte da Bouzy e il resto da Ambonnay; leggo in giro di una buona percentuale di vini di riserva, di malolattica parziale e di affinamento in legno.

Colore paglierino; naso intensissimo, quasi inebriante nella sua potenza, comunque complessa e suadente; è forse la parte migliore del vino: c’è il lievito (alla grande), poi l’agrume e, molto interessante, un tocco di grande freschezza (pino, anice e mela acerba); ad ogni modo il quadro cambia costantemente col passare dei minuti e aspettando il giusto arriva a far capolino anche il miele.

Bolla finissima, avvolgente e per nulla aggressiva, e poi sapidità e freschezza, con acidità notevole senza essere tagliente, e calore praticamente assente: un vino di ottimo equilibrio.
Corpo non eccessivo, non è certo un vino “ciccione”: qui la potenza del pinot nero è decisamente mitigata e si gioca sulle sottigliezze, difatti in bocca quasi si nasconde per un attimo, per poi tornare prepotente nel finale che chiude senza sensazioni amare.

Retrolfattivo molto lungo e dosaggio quasi inavvertibile; sicuramente tutte le fasi sono estremamente armoniche e danno vita a un grande vino, dove niente è fuori posto e che si berrebbe a secchi anche da solo, pur se il miglior consumo consigliabile è quello a pasto.

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Voltalacarta: serata cappon magro

Mi pare sia la terza volta in un anno circa che ceno da Voltalacarta, sempre in occasione di serate con menu predefinito: il ristorante punta molto su queste occasioni, proposte frequentemente secondo me con ragione, visto che permettono di richiamare un buon numero di clienti offrendo al contempo un menu interessante ad un prezzo ragionevole.

Il locale gode di discreto passaparola, cerca di impegnarsi con proposte non scontate a costi umani e lo chef è molto presente in città anche come docente in corsi di cucina: tutto bene dunque?
Non proprio: ogni volta che ci sono stato, ne sono uscito con un mix di sensazioni contraddittorie che non mi permettono di essere del tutto convinto.
Cerco di spiegarmi.

Il sito internet è desolante: da che lo frequento risulta perennemente “in allestimento” e rimanda ad un blog (gratuito su Blogspot) che si limita ad elencare le varie serate. Non ci sono la carta, la lista dei vini, una parola sui titolari… Nulla di nulla.
Il locale stesso è bruttino: la posizione sarebbe favorevole, in pieno centro di Genova con anche qualche parcheggio nelle vicinanze (a pagamento, ovviamente, ché i posti pubblici in zona sono drammaticamente limitati), ma la mancanza di finestre è abbastanza claustrofobica. Pazienza, d’altronde in città lo spazio è davvero limitato e immagino che i costi per un affitto migliore nei dintorni siano proibitivi.
Visto però che “i muri” sono quello che sono, un arredamento più curato e una maggiore attenzione ai dettagli potrebbero giovare: la verniciatura bicolore in molti punti sbeccata ricorda vagamente un vecchio ospedale, sottopiatti e tazzine sono dimenticabili, il mio tavolino era lievemente traballante e, pur con pochi posti a sedere, il ristorante risulta abbastanza rumoroso.

Il servizio è molto cortese, magari non eccessivamente professionale ma direi migliorato dalla volta scorsa, quando avevo scelto una bollicina che mi era stata portata in tavola senza ghiaccio e, a causa del prolungarsi della attesa, ero stato costretto anche a chiedere un tappo stopper. Stavolta il vino è arrivato correttamente accompagnato dal ghiaccio, sebbene la glacette sia di dimensioni davvero eccessive…

La carta dei vini è forse l’aspetto più deludente: a fronte di un ricarico corretto ci sono davvero troppo poche referenze e quelle presenti neppure particolarmente originali; non sono amante degli “elenchi telefonici”, ma tre paginette in cui alcune voci sono oltretutto segnate come “in arrivo”, sono davvero scarse. Senza svenarsi per una cantina leggendaria, basterebbe una selezione un filo meno minuscola ma più personale e curata, mantenendo un prezzo corretto.

Ma basta note negative. La serata era incentrata sul Cappon Magro, copio e incollo il menu:
“Sgombro cotto a bassa temperatura con basilico e verdurine
Tortino di polpo con patate prezzemolate e patè di olive Taggiasche
Involtino di spada con pinoli e uvetta in agrodolce
Cubo di salmone confit con spinacini scottati e cipolle rosse di Tropea caramellate
Cappon Magro VOLTALACARTA
Spuma di limone allo zafferano
Caffè & Kokkole VOLTALACARTA
ACQUA MINERALE NATURALE O FRIZZANTE
PANE E FOCACCINE VARIEGATE VOLTALACARTA”

Il pane e le focaccine sono abbondanti, molto buoni, originali e di tantissime tipologie diverse, davvero un plus: occorre controllarsi per evitare di mangiarne in quantità eccessiva.

L’ordine di servizio ha visto arrivare prima il tortino di polpo (piacevole) e poi, serviti assieme, i tre assaggi di salmone, spada e sgombro.
Il piatto è gustoso e le tre preparazioni ben concepite, in particolare il salmone con con le cipolle caramellate (ma gli spinaci c’entrano poco). Il problema è che potrebbero essere tre antipasti o persino tre portate distinte, e volerli integrare in una unica portata ha poco senso e a mio parere li mortifica un poco. Qualche problemino con la temperatura di servizio dello spada, leggermente troppo freddo.

Poi arriva il pezzo forte della serata, il cappon magro. Porzione abbondante (e al termine ci sarà chiesto se desideriamo un “secondo giro”), piatto riuscito e ricco come da tradizione di salsa, uova, verdure, crostacei eccetera. Peccato che, immagino per motivi di gestione delle porzioni e di impiattamento, non si tratti della fetta di una “simil-torta” ma di una preparazione dalla forma meno strutturata (mancano ad esempio la gelatina e la galletta che sorreggono il tutto).

Spuma di limone e zafferano: boh. Nel senso che ero davvero sazio quindi potrei aver equivocato, ma ho avuto l’idea che lo zafferano fosse troppo predominante, impedendo al limone di svolgere il suo compito di “detergente” del palato a fine pasto.

Conclusioni, le stesse delle mie altre volte: il prezzo pagato è corretto e ho mangiato bene, ma c’è qualcosa di non del tutto armonico in un ristorante che avvicina cortesia, originalità delle preparazioni e accuratezza nella presentazione a sbavature poco comprensibili (il sito internet inesistente, il locale bruttino, la carta dei vini risibile, qualche assaggio meno efficace); credo basterebbe poco per spiccare in un panorama genovese di certo non entusiasmante.

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Catarratto 2010, Porta del Vento: bio in Sicilia

Denominazione: Sicilia bianco IGT
Vino: Catarratto
Azienda: Porta del Vento
Anno: – 2010
Prezzo: 12 euro

catarratto 2010Conosco poco Porta del Vento, ma sono istintivamente ben disposto nei loro confronti: i primi tempi in cui ho iniziato ad interessarmi al vino con più serietà ho partecipato ad una degustazione dei loro prodotti e ricordo i proprietari come persone di grande semplicità e cortesia.

In breve: l’azienda è giovane, situata a Camporeale in provincia di Palermo. Le vigne di 25/30 anni sono coltivate a regime biologico a 600 metri di altitudine su terreno sabbioso, in una zona ovviamente estremamente ventosa.
L’attitudine è quella “naturalista” attualmente tanto in voga: sentite come descrivono il processo produttivo sul loro sito: “Il terreno viene zappato a mano lungo i filari, nessun uso di  prodotti di sintesi,  cerchiamo di comprendere e mantenere  l’equilibrio delle erbe spontanee, accrescendo  la biodiversità. La resa  è molto bassa circa quaranta quintali per ettaro.  La vendemmia  viene fatta a mano”. Poco da aggiungere, se non che la vinificazione avviene in acciaio e con temperature controllate.

Questo Catarratto in purezza è un vino giallo paglierino estremamente vivo, con intensi profumi floreali (acacia?) ma soprattutto minerali e iodati. In bocca è vibrante, di corpo importante, più sapido che acido ma comunque fresco. C’è un accenno che non riesco ad identificare, forse un tocco lieve di evoluto affatto sgradevole.

Magari non è elegantissimo, ma ha personalità, ed è molto dritto, verticale, con discreta  persistenza, e facilità di bevuta, semplice quanto interessante, in particolare in relazione al prezzo.

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Friska Barley

Birra: Friska
Azienda: Barley
Stile di riferimento: Blanche
Prezzo: 10 euro

friska barleyBarley è sicuramente uno dei migliori birrifici usciti dalla seconda ondata italiana, quella per capirci arrivata dopo la stagione dei pionieri Baladin e Biificio Italiano.

Piace del Barley la costanza produttiva, la solidità della gamma di prodotti, la pressoché totale mancanza di “famolostranismi”, collaborazioni, birre one-shot e altre amenità del genere, questo nonostante il birraio Nicola Perra sia uno sperimentatore: la sua favolosa BB10 è uno dei primi esempi italiani (se non il primo, vado a memoria) di commistione birra-vino e legame con il territorio (nel caso specifico, l’uso del mosto cotto di cannonau).
Piace anche che sulla etichetta sia stampato chiaro e tondo che si tratta di birra “non pastorizzata e non filtrata”, cioè quello che importa veramente: dell’inutile vocabolo “artigianale” facciamo a meno volentieri.

Piacciono meno il prezzo costantemente alto di tutta la gamma e la reperibilità non semplice ed esclusivamente in formato da 75, ma è un difetto cronico di quasi tutta la scena italiana, quindi ce ne facciamo una ragione.

Stasera torno ad assaggiare la Friska, che non bevevo da una vita, interpretazione riuscita dello stile blanche belga: birre estive, leggere, caratterizzate dalla speziatura con scorza d’arancio amara e coriandolo e dall’uso del frumento non maltato.

Colore giallo nettamente opalescente (la non filtratura è evidente), con schiuma non particolarmente persistente; naso molto elegante e pulito, con spezie a tutta forza, ma anche fiori bianchi (camomilla?) e agrumi.
In bocca, carbonica lieve e una leggera acidità che contribuisce a pulire il palato e invoglia al sorso successivo e assieme ai soli soli 5 gradi alcolici regala una conseguente grande facilità di bevuta. Amaro appena percettibile
Il corpo, comunque leggero, è più presente di quanto si immaginerebbe vedendola e c’è anche una discreta lunghezza.

Un prodotto estremamente dissetante, semplice e ben fatto, adatto a tutti, non solo ai super-appassionati (provate a far digerire al vostro vicino di casa certe pigne iper-amare o qualche mappazza imperial tanto di moda oggi), sicuramente di collocazione più estiva, ma piacevole comunque a tavola come aperitivo o in accompagnamento a pesce, insalate o formaggi freschi. Eviterei l’abbinamento con la classica pizza mozzarella e pomodoro.

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