Genova Beer Festival: la prima edizione

Lo stupore che coglie anche chi, come me, vive tutto sommato nelle vicinanze è indicativo: prima di raggiungere villa Bombrini si taglia il centro di Genova con la Sopraelevata, e col buio è un po’ come trovarsi sul set di Blade Runner, visto che si vola a metà strada tra le luci del porto e quelle della città, per scendere poi a Sampierdarena e allungare verso Cornigliano, in un territorio che si è trasformato da immagine da cartolina in esempio di massimo degrado, con i palazzoni maltenuti, il muraglione del porto e il filo spinato, la sporcizia incipiente, auto e motorini abbandonati, la famiglia di rom che occupa abusivamente quello che un tempo forse era una autofficina e tutte le altre declinazioni del caso che possano venirvi in mente.
Ecco, a un passo da tutto questo scempio, imboccando una viuzzola, ti ritrovi in un ampio parcheggio che affianca un bellissimo villone settecentesco con relativo parco annesso: è villa Bombrini, la sede del primo Genova Beer Festival, e il primo pensiero non corre alle alte o basse fermentazioni, ma semmai a quanti eccellenti scorci come questo ci possano essere, dimenticati, in altre parti della città.

Che dire del Festival? Non me lo sono goduto, a causa di problemi in famiglia ho potuto presenziare solo un paio d’ore domenica sera prima della chiusura, ma la mia idea me la sono fatta.
Ok l’ingresso a sei euro, molto bene il bicchiere in vetro (anche se non proprio ideale la forma, ma son dettagli. A me non è stata consegnata la tasca portabicchiere, forse erano finite o magari è stato un disguido) ma per favore fate in modo che si possa riconsegnare il vetro all’uscita e avere indietro una cauzione, anche simbolica.

Molto bene il pieghevole all’ingresso, con il programma completo della manifestazione, un glossario minimo e l’elenco delle birre. Forse avrei diviso le birre non per stile ma per birrificio, ma ce ne fossero di depliant fatti così.

Benissimo gli spazi in relazione al numero degli espositori: i banchi sono ben distanziati e c’è molta “aria” che permette di non fare a spintoni con gli altri visitatori, e anche il giardino immagino sia stato una bella valvola di sfogo durante il giorno. Ho qualche riserva sulla disposizione dei banchi di assaggio su più piani: a quanto ho visto non ci sono sistemi di accessibilità per i disabili.

Gettone di degustazione a 1 euro per 10 cc di birra (in realtà ne veniva servita quasi sempre di più), e qui forse si poteva fare di meglio, prevedendo un carnet per chi vuole fare molti assaggi; in questi casi i 10cc (abbondanti) sono sempre troppi e il costo diventa importante: la mia formula ideale è il carnet da 10 assaggi da 5cc a 5 euro o qualcosa di simile.

L’appunto più negativo è quello relativo al cibo, in un momento di scarsa affluenza e praticamente senza code, occorreva attendere oltre 30 minuti per una semplice bruschetta: le due “postazioni food” cui mi sono approcciato (Ai Troeggi e Kowalski) mi sono sembrate palesemente inadeguate sia come gestione dei tempi che come qualità. Da rivedere anche il numero dei tavoli e delle panche a disposizione, troppo scarsi, perlomeno quelli all’interno della villa.

Sulle vere protagoniste, le birre, non ho troppo da dire, avendo fatto solo una quindicina di assaggi molto frettolosi, quindi mi limito a poche segnalazioni.
Pollice in alto per Canediguerra, birrificio giovane ma con tutta l’esperienza di Allo alle spalle e si sente da tutta l’ottima gamma, corretta, senza esagerazioni e strampalatezze.
Passaggio di rito da Maltus Faber che sfodera una per me irresistibile Blonde Hop (poco alcolica, leggera, di carattere ma mai invadente).
Chiaroscuri per uno dei nomi storici del panorama “artigianale” italiano, il Birrificio Italiano: la Tipopils, uno dei paradigmi del genere, non mi è sembrata al top, mentre era centrata la Nigredo, uno dei pochi esempi di Schwarzbier tricolore. Molto interessante anche la Sparrow Pit, un Barley Wine di bevibilità assassina.
Vellutata e piacevole la Nocturna di Kamun.

Nota stonata, non certo per colpa degli organizzatori: domenica sera chi serviva al banco di almeno un paio di espositori era evidentemente non in condizioni lucidissime… capisco che erano le ultime ore, che un festival di birre non è un ristorante stellato e che l’atmosfera è informale, ma non mi sembra un gran biglietto da visita per il produttore.

Le conclusioni? Un successo sicuramente, senza contare che si trattava di una prima volta.
Un grande “bravo”, quindi, ai ragazzi di Papille Clandestine per l’ottimo lavoro svolto, con la speranza di ritrovare il prossimo anno un GBF ancora più ricco di birrifici, di cibi e di eventi.

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Cheese 2015: e infatti ci siamo rivisti…

“Temo che ci rivedremo nel 2015”: così concludevo il mio piccolo sfogo di due anni fa a proposito di Cheese.
E’ lampante, già lo sapevo che nonostante tutte le mie riserve sulle orde di visitatori poco accorti, sui magheggi di marketing di Slow Food, sulla assurdità delle olive ascolane e della piadina romagnola accanto ai presidi africani, a Bra ci sarei tornato nel 2015.

cheese 2015E infatti eccomi qui, a raccontare le solite cose e a commentare le medesime immagini; certo, la minestra la si può condire con qualche nuovo aneddoto come quello del gruppo di romani: uno di loro fende la calca per inforcare finalmente una briciola di Stilton, la divora, ne agguanta un altro pezzetto e lo porge ad uno dei compari, urlando: “Aoh, senti che bono”. Risposta dal fondo: “No, no, io mica me fido a magnà stà robba”. E qui sarebbe più dignitoso chiudere, ma non posso non ricordare che, stavolta, c’erano anche i furgoni dello street food.
Ci si domanda che ci azzecchino con i formaggi, e pazienza, ma un minimo di controllo su cosa debba essere uno street food ci vorrebbe, ad esempio un cartoccio con alcune (poche) polpettine di carne appena dignitose, venduto a 7 euro di sicuro non lo è.

Chiudo con la mia piccola guida per la sopravvivenza a Cheese 2017:

  • se possibile, vai al venerdì (lo so, idea originale…)
  • se, come per me, il venerdì ti è impossibile, perlomeno arriva al mattino presto. I banchi aprono alle 10, entro le 9.30 si riesce a parcheggiare quasi in città, evitando l’autobus
  • prepara prima una lista di cose che vuoi assaggiare e che ti interessa approfondire e più o meno attieniti a quella, perlomeno per le prime due ore, le uniche nelle quali la folla non è ancora a livelli da prima fila nel prato durante il concerto di Jovanotti. Il cazzeggio indiscriminato ai banchi lascialo per dopo
  • evita di metterti in coda per qualsiasi cibo dopo le 12. Mangia prima o moooolto dopo
  • ricorda che puoi entrare in macelleria, comperare un metro di salsiccia di Bra, poi andare dal panettiere all’angolo e farti un panino gourmet ad un terzo del prezzo richiesto agli stand
  • porta uno zainetto per mettere gli acquisti; riempilo a casa con una bottiglia d’acqua (ho detto bottiglia, non bottiglietta)
  • in ogni caso, alle 15 sbaracca: hai mangiato e bevuto come un orso, hai camminato e sgomitato per ore, inutile proseguire

p.s. menzione doverosa per lo stand di Ales and Co: ho bevuto diverse birre, tutte di ottimo livello, ma in particolare una Mosaic di The Kernel strepitosa per quanto era fresca e fragrante.

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Oude Kriek, Hanssens

Proseguendo a casaccio nel nostro viaggio tra le rifermentazioni in bottiglia, stavolta arriviamo da Hanssens, in Belgio, attorno a Bruxelles: la patria di quello strano ibrido che è il Lambic.

Tralascio ogni spiegazione sullo stile, qualsiasi cosa io possa articolare sarebbe comunque più imprecisa e meno dettagliata di quanto riportato in questo vecchio scritto, vergato dal Principe del Pajottenland in persona: Lorenzo Dabove, AKA Kuaska.

Hanssens  kriek

Denominazione: Birra Kriek
Vino:  Oude Kriek
Azienda: Hanssens
Anno: –
Prezzo: 11 euro

Hanssens è uno storico blender di lambic: i blender tradizionalmente selezionano il lambic dai produttori per poi affinarlo e creare la miscela da imbottigliare e mettere sul mercato, una sorta di cuvèe, per capirci.
La birra di cui si parla oggi è una Kriek, cioè macerata con le amarene.

Colore rosso torbido, opalescente, poco penetrabile; la schiuma si forma appena accennata ed è evanescente, così come pure la carbonica, lievissima.

Olfattivo classico per la tipologia: la mitologica sella di cavallo qui si sente davvero(!), come il legno umido, l’armadio chiuso e, come dice Kuaska in uno dei suoi aneddoti ormai famosi, le carte da gioco vecchie. La ciliegia si avverte ben poco.

L’acidità in bocca è ovviamente immaginabile, fuori scala: è quella del lambic sommata a quella della frutta; sorprende anche la sapidità, impressionante.

Dopo il sorso è come se fosse passata una smerigliatrice su tutto il palato: sgrassa, brasiva, asciuga… e la lunghezza non è da meno.

Forse un po’ rustica, non troppo sfaccettata, sicuramente brutale, ma vivaddio è veritiera, senza compromessi, un prodotto realmente tradizionale.
Capisco possa non piacere, e di sicuro non è il prodotto adatto per avvicinarsi alla tipologia, ma è una esperienza gustativa notevole.

Il bello: la vera tradizionalità del gusto, senza compromessi
Il meno bello: acidità e sapidità fuori scala. non per tutti

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Dalle stelle alle stalle: Summer Beer Festival

Dalle stelle alle stalle: passare in pochi giorni e in pochi chilometri dalla teutonica perfezione organizzativa di Terroir Vino a Genova all’indefinibile Summer Beer Festival di Chiavari regala la straniante sensazione della realizzabilità dei viaggi spazio-temporali.

In poche parole, è un periodo in cui ho poco tempo, quindi decido di farci un salto sabato pomeriggio: alle 16 e 20 circa sono all’ingresso. Ci siamo io, la tensostruttura e la polvere, mentre elementi magari poco coreografici ma abbastanza essenziali come il tizio alla cassa e quelli che dovrebbero spillare risultano non pervenuti.
Temendo di aver capito male gli orari, mi guardo attorno: tutti i volantini e i cartelli sostengono (come le info su internet) che l’apertura avrebbe dovuto essere alle 16.

Faccio un giro e mi ripresento verso le 16 e 45.
E’ ancora tutto deserto, ma ci sono due ragazzi della Compagnia della Birra che iniziano a mettere a posto i banchi di servizio e un tizio che, mosso a compassione, prova ad aprire la cassa per me, senza successo.
Mi dicono che siccome il giorno precedente la gente è arrivata in massa verso le 20, hanno deciso di aprire dopo…

Sono senza parole, di solito mi incazzo per i canonici 15-30 minuti accademici di ritardo nelle serate e nelle cene di degustazione, ma addirittura veder posticipata l’apertura di una manifestazione di qualche ora è davvero una prima assoluta.

Voglio fare i complimenti ai responsabili della solerte organizzazione, che mi pare comprendesse anche i soliti bicchieri di plastica e il prezzo di 4 (quattro) euro per ogni birra.
I responsabili da elogiare risulterebbero essere tali “Storico, Modà Cafè, Vinoria e Crystal, in collaborazione con Arte Group e la Compagnia della Birra”.
A ciascuno il suo: da quel poco che mi è dato sapere la Compagnia c’entra poco, essendo stata contattata solo per fornire un paio di persone per i laboratori e per le spiegazioni.

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XX Bitter: l’amaro originale

XX Bitter per me non è un nome, è una dichiarazione di intenti… è l’amaro originale.

Cerco di spiegare: un sacco di anni fa mi aggiravo tra i banchetti di un Italian Beer Festival ad Alessandria, ero un neo bevitore di birra artigianale con idee poche e molto confuse su stili e sapori e mentre camminavo venni accalappiato da quello strano nome di cui avevo solo sentito parlare.
Il tizio che mi stava riempiendo il calice, con aria ammiccante mi disse: “Ti piace l’amaro, eh?”, rivolgendosi a me come avrebbe fatto Mazzini ad un iscritto carbonaro.
Io, che la birra più amara che avessi bevuta all’epoca temo fosse una Chimay (figurarsi…), finsi di mostrarmi degno di tanta confidenzialità, tracannai e la mia vita (birraria, s’intende) cambiò per sempre.
Ricordo perfettamente che, nonostante la birra fosse gelata, ebbi una delle epifanie gustative più intense che avessi mai provato fino ad allora: mi fu chiaro in un istante che l’amaro, questo amaro, era buono e che rendeva più facile, meno stucchevole la bevuta.

Sono passati gli anni, l’amaro è diventato una moda per molti versi anche censurabile (chi, in certe manifestazioni, non ha sentito frasi ridicole del tipo “Dammi la più amara che hai”) che ha prodotto capolavori come anche grandi quantità di squilibrati mostri mutanti da milioni di IBU, imbevibili se non con il contagocce, ma la XX Bitter è ancora oggi un campione di eleganza a differenza di tante “pigne amare” più moderne, un riferimento per chi desidera una birra saporita con un pizzico di estremo ma senza esagerare e spendendo poco.

Birra: XX Bitter
Azienda: De Ranke
Stile di riferimento: Belgian Ale
Prezzo: 2,90 euro (33cl)

XX BitterNote varie: il birrificio De Ranke è nato a metà anni novanta dalla voglia di brassare luppolato dei due amici Guido Devos e Nino Bacelle, e in particolare la ricetta della XX Bitter (alta fermentazione, malto Pilsner e gran quantità di luppolo Brewers Gold e Hallertau)  è stata creata all’epoca per essere “la più amara del Belgio”, nazione fino ad allora non particolarmente interessata a produzioni così amare.
Il birrificio afferma di non ricorrere a filtrazione e pastorizzazione.

E’ già una festa quando la versi: una montagna di schiuma candida, fine, compatta che sovrasta il giallo  opalescente.
Il naso è pulitissimo, con l’erbaceo verde e fresco del luppolo, poi la speziatura, la pesca e un lievissimo accenno di caramello. Olfattivo fine e variegato, da non mortificare con temperature glaciali.
In bocca c’è un lieve attacco caramellato e poi arriva la botta di amaro, netta e resinosa, pulita e secca, estremamente intensa senza essere fastidiosa o tagliente.
La carbonatazione non è per nulla aggressiva, il corpo è medio, la secchezza esemplare e il sorso scorre veloce e facile. Il finale amaro è lunghissimo.

La trovo sempre una birra di ottimo livello, con molti dei pregi che preferisco: bevibilissima ma di grande personalità, e, da non trascurare, economicamente del tutto abbordabile.

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Slowfish 2013: impressioni di sfuggita

Alla fine ci sono andato, a Slowfish 2013. Per una serie di casini personali pensavo di non farcela, ma visto che avevo prenotato un Master of Food (diobuono, ma un nome meno pomposo non riescono proprio a inventarselo? C’è quasi da vergognarsi a ddirlo: “Dove vai?”, “Eh, c’ho un Master of Food…”, “Mavaff…”), mi sono ritagliato una mattinata.

Nuova ubicazione (area del Porto Antico invece che la Fiera del Mare), e conseguenti ingresso libero (bene!) e mancato tetto sopra la testa in caso di maltempo (male, ma fortunatamente non ha piovuto).
Ho avuto l’impressione di un minor numero di espositori rispetto all’ultima volta, ma potrei essere stato ingannato dalla ampiezza dell’area; di sicuro la crisi si è fatta sentire: una vocina mi ha detto che il prezzo richiesto agli espositori per uno stand è diminuito, e anche la scelta di non far pagare il biglietto ai visitatori immagino sia dovuta a questo…

Ho fatto un giro veloce, quindi butto giù poche note e pure confuse.
Il famigerato Master of Food conferma le bieche impressioni di collusione Petrini-Farinetti, infatti viene tenuto in una delle aule corso di Eataly. Nulla di nuovo, per carità, è ben noto che Slow Food e Eataly collaborino su vari progetti, ma francamente mi pare che la liason stia andando troppo oltre e che gli obbiettivi prettamente commerciali di Eataly (seppure ammantati di etica) facciano fatica a quagliare dignitosamente con le linee guida di Slow Food.
Ad ogni modo, il Master of Food è organizzato con precisione teutonica: la lezione è ripresa con una telecamera in modo da mostrare i dettagli su due grandi schermi, permettendo una visuale chiara a tutti i corsisti, ogni partecipante ha la sua postazione dignitosamente spaziosa e con tutto il necessario e viene anche omaggiato (oltre che di taccuino e matita) di due bei libri sull’argomento. A fine lezione, si mangia quanto preparato e si esce felici.

Il rapido giro per l’area espositiva è un mix di sensazioni: ci sono gli stand educativi su vari argomenti, e c’è anche tanto mercato (che poi, diciamocelo, è quello che interessa la massa dei visitatori), talvolta anche poco in tema con l’argomento (un esempio? Il venditore di olive ascolane lo vedo sia a Cheese che qui… che ci azzecca?), ma alla fine è sempre bello cazzeggiare tra i cibi, assaggiando un sacco di cose buone e facendo qualche parola con i produttori.

Spendo una riga per gli amici di Maltus Faber, che non vedevo da tempo e che erano presenti, oltre che con le “solite” Blond Hop e Bianca (pulitissime e piacevolissime), con un nuovo prodotto, una Sweet Stout da neppure quattro gradi che gioca tutta sulle finezze (di tostatura, di luppolatura, di carbonatazione; anche il corpo, spesso robusto in questa tipologia, è ben bilanciato) e che mi è sembrata una ottima session beer. Sarà disponibile solo in fusto, e spero di riassaggiarla a breve con più calma, con un bicchiere di vetro al posto della orrida pinta in plastica imposta in queste manifestazioni.

Nota di demerito per l’Enoteca. A parte qualche bottiglia presente in elenco ma in realtà non pervenuta, il prezzo degli assaggi è davvero eccessivo (bicchieri da 3, 4 o 5 buoni, ciascun buono costa 1 euro, in più occorre aggiungere il solito costo del calice), in particolare tenendo conto che non c’è uno grissino disponibile, che non ho visto acqua per pulire la bocca tra un assaggio e l’altro e che non siamo in una vera enoteca (non c’è servizio al tavolo e i posti a sedere sono abbastanza pochi, perlomeno a certe ore del giorno).

Appuntamento a settembre per Cheese!

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Brewdog Punk IPA: luppolo in lattina

[Nota per i lettori più assidui: viviamo in un mondo curioso; a dicembre, istigato dal trovarne da mesi alcuni articoli al supermercato, decido di scrivere un pezzo introduttivo su Brewdog, pensando di completare il racconto nei giorni seguenti con le note di assaggio.
Ovviamente, dopo pochi giorni, la sezione di scaffale dedicata al birrificio scozzese è stata occupata da altri prodotti, costringendomi ad abbandonare il progetto e inficiando tutto il senso della premessa.
Ormai neppure mi ricordavo più della faccenda, ma ecco che al Carrefour vicino a casa ricompaiono le ben riconoscibili etichette degli imbalsamatori di scoiattoli, imponendomi di continuare quanto iniziato a suo tempo.]

Birra: Punk IPA
Azienda: Brewdog
Stile di riferimento: IPA
Prezzo: 2,47 euro

Punk IPATraviati da svariati corsi di degustazione, travolti da quintali di manuali, lobotomizzati da fiumi di trasmissioni gastro-televisive, siamo tutti diventati fini degustatori di vino, esperti esteti nell’impiattamento del cibo, severi fustigatori dei difetti di tutte le produzioni brassicole dell’orbe terracqueo, esegeti spaccatori del capello per l’abbinamento alcol-cibo.
Il tutto, ça va sans dire, con in mano il bicchiere (pardon, calice) da degustazione ISO; siamo quindi ormai tutti dei degusto-fenomeni con la puzza sotto il naso, e ci siamo dimenticati di quando tracannavamo le peggio birre, senza il taccuino sottomano per prendere nota dei descrittori, direttamente dalla latta o dalla bottiglia (e qualche volta ci piacevano pure).

Lo sbarco di Brewdog nell’arena della grande distribuzione si accompagna ad una innovazione non da poco per il mercato della birra “artigianale” o “di qualità”: il contenitore in alluminio.
Storicamente relegata a contenitore di prodotti scadenti, la lattina ha dalla sua una serie notevole di vantaggi: è leggera (quindi minori costi e inquinamento durante il trasporto), è riciclabile con più facilità rispetto al vetro, è più robusta, ha migliore tenuta alla luce, e, da quanto ho capito, ha da tempo annullato tutti i suoi problemi organolettici (grazie a rivestimenti della parete interna).

E’ quindi curiosamente “nuovo” annusare qualcosa di buono (anzi, annusare qualcosa: visto che di solito non si sente nulla) quando strappiamo la linguetta, e c’è una sottile perversione nel bere a canna direttamente dalla latta, gustando un prodotto decente, magari camminando per strada.

Il prodotto che Brewdog ha scelto per questo contenitore, facendone una via di mezzo fra un cavallo di Troia e un articolo portabandiera, è la Punk IPA, forse la birra che maggiormente ha contribuito a fare conoscere i nostri scozzesi nei primi anni di ribalta: colore giallo leggermente ambrato, schiuma di buona compattezza e di discreta durata, aroma abbastanza semplice ma intenso e gradevole, di vegetale e agrume. In bocca  carbonatazione non aggressiva, c’è freschezza con accenni resinosi e balsamici e un richiamo alla liquirizia.

Finisce con un buon amaro, lungo e persistente, ripulente; purtroppo, sarà l’impressione e non certo colpa della lattina, c’è qualche vago sentore metallico o di stantio, unico difetto rilevabile in una birra tutto sommato semplice ma gradevole. Una birra da 5,6%, fatta per il caldo e la sete, da tracannare a metà pomeriggio o anche con una bistecca, ma in generale da bere con semplicità, senza fare troppo i sofisti.

Certo, per garantire una shelf-life adeguata alla grande distribuzione di sicuro si ricorre alla microfiltrazione (e, qualcuno dice, anche alla pastorizzazione), che indubbiamente riduce fragranza e freschezza. Altrettanto sicuramente la ricetta è ben diversa da quella che caratterizzava le prime produzioni arrivate in Italia, che ricordo ben più violentemente amare… ma credo sia già un piccolo evento poter acquistare una birra del genere (come detto, saporita e molto gradevole) in un supermercato di provincia, a questo prezzo.

[Qui il post del 2011 sul blog di Brewdog: si parla delle lattine e c’è qualche immagine della linea di produzione]

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Pils Birra del Bracco

In questi tempi di grande fermento per quanto riguarda il fenomeno della cosiddetta “birra artigianale” italiana (metto le virgolette, visto che la definizione, a mio modo di vedere ha davvero poco senso), la Liguria non si è distinta per vitalità.

A parte una pletora di piccoli nomi che non è chiaro se siano effettivamente in attività (e che quando producono hanno spesso una qualità discutibile), sopravvivono gli storici Busalla, Scarampola e del Golfo, che non sono mai riusciti a (o non hanno mai avuto voglia di) fare il salto verso una produzione quantitativamente superiore e con una distribuzione più capillare. Oltre a questi, troviamo l’abbastanza recente Superba, il “tedesco” Leo e quel Maltus Faber, che per la combinata di visibilità , qualità, costanza e reperibilità, ritengo il portabandiera regionale.

Pils Birra del BraccoDa circa un anno e mezzo, molto in sordina, è spuntato un nuovo birrificio, davvero micro: Birra del Bracco. Il nome deriva evidentemente dalla ubicazione geografica della piccola azienda: il Passo del Bracco è un montagnoso tratto di via Aurelia ricco di tornanti che collega la provincia di Genova e quella di La Spezia, noto per essere da sempre meta di appassionati motociclisti.

Conosco poco o nulla del birrificio, mai avvistato nella varie manifestazioni a tema e per nulla chiacchierato nel giro degli appassionati. Vedo sul sito che è legato ad una azienda agricola condotta part-time, che ha un impianto che sembra davvero poco più di una postazione da homebrewer e che produce tre tipologie di ispirazione tedesca (dagli autoesplicativi e poco fantasiosi nomi Pils, Bock e Weiss); la particolarità che viene dichiarata è la coltivazione autonoma di orzo e di luppolo, anche se non è chiaro in quale quantità e comunque suppongo non tanto da rendere il birrificio autosufficiente.

Date le premesse mi sono sorpreso e incuriosito quando nel pub sotto casa ho trovato disponibilità della loro Pils, che ovviamente non mi sono fatto sfuggire.
Bottiglia ed etichetta rusticamente molto homebrewer, ma non è un problema, così come l’aspetto, giallo decisamente opalescente. Schiuma discreta, sia come quantità che come compattezza e durata.

Le riserve arrivano invece al naso: da una pils, per la quale oltretutto si dichiara il dry hopping, mi aspetto un bell’aroma luppolato, invece non c’è molto da annusare, sia quantitativamente (intensità davvero debole), sia qualitativamente (poco da segnalare, se non appunto un lieve erbaceo).
In bocca il corpo è leggerino e l’amaro è poco pervenuto; in aggiunta, appena accennato, un sentore di miele ben poco deciso e persistente. Poi, nulla di altro.

Certo, la tipologia è difficile: una buona pils non bastona con gli effetti speciali pirotecnici che vanno di moda oggi (amaro estremo, tostature micidiali o acidità taglienti), ma deve saper ricamare un equilibrio lieve ed elegante di mielato ed erbaceo, e questa Pils, pur lodevolmente pulita negli aromi (e non è poco), manca purtroppo di personalità, scivolando via senza infamia e senza lode.
In definitiva la birra sembra spenta, poco vivace (in senso metaforico, non certo per mancanza di carbonica): in questi casi si parla genericamente di “bottiglia sfortunata”…

Non incoraggia neppure la parte economica: non ho idea del costo nel beershop (anche perché non so se sia in vendita al dettaglio), ma al pub la bottiglia da 0,5 è stata pagata 7 euro.

Sarebbe interessante una visita al birrificio per poter testare la produzione “fresca” e capire la filosofia dei titolari, purtroppo l’ubicazione non facilita. Chissà, magari in primavera…

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Friska Barley

Birra: Friska
Azienda: Barley
Stile di riferimento: Blanche
Prezzo: 10 euro

friska barleyBarley è sicuramente uno dei migliori birrifici usciti dalla seconda ondata italiana, quella per capirci arrivata dopo la stagione dei pionieri Baladin e Biificio Italiano.

Piace del Barley la costanza produttiva, la solidità della gamma di prodotti, la pressoché totale mancanza di “famolostranismi”, collaborazioni, birre one-shot e altre amenità del genere, questo nonostante il birraio Nicola Perra sia uno sperimentatore: la sua favolosa BB10 è uno dei primi esempi italiani (se non il primo, vado a memoria) di commistione birra-vino e legame con il territorio (nel caso specifico, l’uso del mosto cotto di cannonau).
Piace anche che sulla etichetta sia stampato chiaro e tondo che si tratta di birra “non pastorizzata e non filtrata”, cioè quello che importa veramente: dell’inutile vocabolo “artigianale” facciamo a meno volentieri.

Piacciono meno il prezzo costantemente alto di tutta la gamma e la reperibilità non semplice ed esclusivamente in formato da 75, ma è un difetto cronico di quasi tutta la scena italiana, quindi ce ne facciamo una ragione.

Stasera torno ad assaggiare la Friska, che non bevevo da una vita, interpretazione riuscita dello stile blanche belga: birre estive, leggere, caratterizzate dalla speziatura con scorza d’arancio amara e coriandolo e dall’uso del frumento non maltato.

Colore giallo nettamente opalescente (la non filtratura è evidente), con schiuma non particolarmente persistente; naso molto elegante e pulito, con spezie a tutta forza, ma anche fiori bianchi (camomilla?) e agrumi.
In bocca, carbonica lieve e una leggera acidità che contribuisce a pulire il palato e invoglia al sorso successivo e assieme ai soli soli 5 gradi alcolici regala una conseguente grande facilità di bevuta. Amaro appena percettibile
Il corpo, comunque leggero, è più presente di quanto si immaginerebbe vedendola e c’è anche una discreta lunghezza.

Un prodotto estremamente dissetante, semplice e ben fatto, adatto a tutti, non solo ai super-appassionati (provate a far digerire al vostro vicino di casa certe pigne iper-amare o qualche mappazza imperial tanto di moda oggi), sicuramente di collocazione più estiva, ma piacevole comunque a tavola come aperitivo o in accompagnamento a pesce, insalate o formaggi freschi. Eviterei l’abbinamento con la classica pizza mozzarella e pomodoro.

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Brewdog: scoiattoli imbalsamati dalla Scozia.

BrewdogPer farsi una idea di cosa sia il birrificio scozzese Brewdog credo sia sufficiente vedere la grafica del sito e leggere come loro stessi descrivono le loro birre: “Rock’n’roll american session ale”, “Iconoclastic amber ale”, “Post modern classic pale ale”, “Twenty first century black ale”, “Explicit imperial ale”, “Intergalactic fantastic oak aged stout” e via cazzeggiando.

Non bastasse, potrei ricordare le boutade degli scorsi anni, partendo dalle IPA in viaggio per due mesi sull’Oceano, passando alla birra chiamata Speedball e alle conseguenti polemiche, per arrivare alla gara con i tedeschi di Schorschbock per stabilire il vincitore del dubbio titolo di birra più alcolica del mondo (terminata ovviamente con la schiacciante vittoria degli scozzesi, grazie alla sobrietà della “End of the history” venduta all’interno di uno scoiattolo o di un ermellino imbalsamati; n.b.: gradazione di 55% e prezzo da 500 a 700 sterline!).
BrewdogPotrei scrivere anche che Brewdog non si è fatta mancare le ormai canoniche birre tirate in serie limitata e le altrettanto obbligatorie collaboration beer con altri birrifici in voga, le baruffe con il partito dei tradizionalisti della birra inglese (il solitamente santificato CAMRA), i video Beer Golf, in cui prendevano a mazzate lattine e bottiglie dei produttori di birra-spazzatura mainstream. Eccetera eccetera.

Potrei scrivere ancora tanti eccetera, ma al netto di tutto l’hype resta il fatto che un birrificio nato dall’idea di due amici (James Watt e Martin Dickie) nel 2006, che ha prodotto le prime birre nel 2007, che ha venduto al pubblico 10.000 quote societarie nel 2009 e che ha iniziato ad aprire pub di proprietà nel 2010, è oggi un marchio ben noto in tutto il mondo nel circuito degli appassionati e non solo, che sforna circa un milione e mezzo di bottiglie l’anno e le esporta a più non posso.
Dire quindi che la strategia del casino mediatico è servita ad ottenere un successo strepitoso è quasi un understatement, ma ricondurre questo trionfo alla sola abilità di marketing sarebbe ingiusto e riduttivo: in Brewdog, con gli alti e bassi del caso e facendo la tara agli estremismi fini a sé stessi, se e quando vogliono, le birre le sanno fare!

Certo, gran parte della fama del birrificio deriva da una serie di prodotti “famolostrano” (a parte quanto già ricordato, cito a caso la serie Paradox, passata in botti di whisky, e la Nanny State, da circa 1% di grado alcolico), ma credo che un grande merito degli scozzesi sia l’essere stati tra i primi della nuova ondata dei birrifici indipendenti / di qualità (chiamateli come volete, ma vi prego non “artigianali”, che è una parola che non ha più alcun senso) a tenere un prezzo medio accettabile, ad entrare nel circuito dei supermercati e a sdoganare la lattina come contenitore per un prodotto non dozzinale: oggi è possibile andare al Carrefour e trovare, accanto alle abominevoli Nastro Azzurro e alla esose Baladin, le latte della Punk IPA a meno di tre euro. Certo, a me sembra solo parente della birra dei primi tempi, e molto probabilmente è pastorizzata o perlomeno filtrata pesantemente, ma è comunque più che potabile in relazione al prezzo.

Il proposito dei prossimi giorni è dunque quello di comperare le Brewdog che trovo al supermercato ed assaggiarle per voi. Vedremo assieme cosa ne esce.

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