Malvasia Secca 2011, Camillo Donati

Camillo Donati è uno degli outsider della viticultura naturale italiana: produce in zona decisamente più nota per altri generi alimentari (Barbiano, in provincia di Parma, vicino a Felino, zona allegramente famosa per i salumi) ma è riuscito comunque a ritagliarsi una piccola notorietà con vini sinceri, che non hanno pretese di ostentata nobiltà ma piuttosto la felice voglia di accompagnare la tavola quotidiana.

I 12 ettari condotti secondo principi biologici e biodinamici sono coltivati a Malvasia, Sauvignon, Croatina, Lambrusco, Trebbiano, Barbera e Fortana; la vinificazione avviene sempre in rosso, anche per i bianchi, e non viene applicato nessun controllo della temperatura durante la fermentazione. Ovviamente si rifiutano anche i lieviti selezionati, le chiarifiche e in generale qualsiasi intervento chimico… l’unica aggiunta è una leggera solfitazione. I vini ottengono la loro caratteristica frizzantezza tramite spontanea rifermentazione in bottiglia.

malvasia donatiDenominazione: Emilia IGT
Vino: Malvasia secca frizzante
Azienda: Camillo Donati
Anno: 2011
Prezzo: 9 euro

Il tappo è da birra, e quando versi proprio birra sembra: la schiuma è abbondante, pannosa e imponente, naturalmente poi si dissolve subito, lasciando nel bicchiere un vino bruttino alla vista, dorato ma quasi impenetrabile per torbidezza.

L’olfattivo è di frutta cotta, camomilla, fieno… In bocca la frizzantezza è appena percettibile e l’alcol pericolosamente mascherato, quasi inavvertibile (e invece sono 13 gradi).
Ben fresco, con un accenno di sapidità e chiusura lievemente amarognola, per un finale non particolarmente lungo.

Mi ha fatto venire in mente un vino da merende, più che da pasti, e anche se capisco possa accompagnare bene svariate tipologie di cibo, lo vedo come un vino giocoso, da aperitivo, da servire all’aperto in primavera con ricchi taglieri di salumi e di formaggi non troppo stagionati.
Bel vino senza impegni (ma per nulla insulso o facilone), godibile anche nel prezzo.

Il bello: prezzo, piacevolezza
Il meno bello: olfattivo un po’ rustico

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Il Collio (ma anche Isonzo e Carso). Parte quarta: Zidarich, sul tetto del Golfo di Trieste

Zidarich

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Pioggia… è ancora la pioggia che mi accompagna quando è ora di far rotta verso il Carso, a circa 300 metri di altitudine sul tetto del Golfo di Trieste. La visita da Zidarich sarà per forza di cosa veloce e incompleta, i motivi sono i soliti: la vendemmia è appena terminata con una certa fretta e c’è molto da fare in cantina. Pazienza.

Zidarich

L’arrivo è difficoltoso: l’azienda è inerpicata nella frazione di Prepotto, il navigatore la conosce ma chissà per quale pasticcio con le strade, propone un percorso piuttosto lungo e isolato e quando si arriva non ci sono cartelli o insegne ad indicare la cantina.
Strano, anche in ragione del fatto che Zidarich ha da poco aperto nella stessa struttura anche una “osimiza” (traduco malamente con osteria)…

Ad ogni modo, il maltempo può fare quel che vuole, ma la vista dall’alto sul mare è davvero unica: se ieri eravamo nell’antro di Radikon, qui ci troviamo nel nido di un gabbiano e nessun ostacolo si protende davanti alla collina che scende sul Golfo straordinariamente ampio e profondo per noi liguri, abituati a ben altre asperità.

E’ su questi declivi di roccia calcarea, permeabile e coperta da un sottile strato di terra rossa, totalmente indifesi rispetto al vento che già oggi spazza e che immagino  per molti giorni l’anno ancora più robusto e tagliente,  che crescono gli otto ettari aziendali piantati a Vitrovska, Malvasia, Sauvignon, Terrano e Merlot, da cui si ricavano circa 25.000 bottiglie l’anno.

La costruzione che ospita cantina e osimiza è sicuramente affascinante: terminata recentemente, si sviluppa su vari livelli, da quello superiore tutto vetrate fino a scendere a venti metri di profondità nella roccia scavata in nicchie, anfratti e gallerie, tenute a bada da volte in pietra.

Zidarich

Le vinificazioni sono improntate a quel rigore naturalistico che ormai bene conosciamo: massima selezione in vigna, lieviti autoctoni, macerazione anche per i bianchi (molto meno pronunciata rispetto a quanto accade con i vini di Radikon) , nessuna filtrazione, affinamento in grandi botti di rovere, minima aggiunta di solforosa.
Ne risultano vini particolari ma non estremi, molto personali ma che a mio modo di vedere non travalicano i confini della piacevolezza di bevibilità e che immagino possano essere graditi anche ai non fanatici della naturalità.
I canoni comuni sono quelli di una lieve opalescenza visiva (causata evidentemente dalla non filtrazione), di ottima freschezza e soprattutto da evidente ed estrema mineralità, declinata in sapidità e aromi di pietra focaia.
Nel dettaglio, la Malvasia 2011, olfattivamente ricca di frutta gialla matura e miele, in bocca è comunque bella affilata e non stucchevole; il Prulke 2011(uvaggio di Sauvignon, Malvasia e Vitovska) è più complesso, cangiante, vira dal floreale e aggrumato fino alla albicocca disidratata, con un sorso teso e scattante.
Il pezzo più pregiato del bianchi è  la Vitovska 2011, vitigno locale un tempo un po’ bistrattato e ora in gran spolvero; c’è tutto per definirlo un grande vino, l’olfattivo è ricchissimo e cangiante, floreale di camomilla, spezie, agrume, minerale… Bevibilità stellare e buona lunghezza.
Tutti vini bianchi (o meglio, orange) da servire a temperature da rosso giovane, in modo da placare la leggera tannicità e non mortificare il notevole spettro aromatico.
Una sorpresa bella e interessante il Terrano (dal nome del vitigno omonimo, autoctono, del quale non avevo mai assaggiato nulla): colore rubino accesissimo, fragranza di frutti di bosco, leggera speziatura e acidità spiccata. Mi sembra molto bevibile e lo immagino ottimo in accompagnamento a salumi.

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Fornovo 2013: naturale e rustico (troppo?)

Come ogni anno da dodici a questa parte, a cavallo dello scorso weekend Fornovo ha ospitato una delle manifestazioni più note dell’enomondo italico, “Vini di Vignaioli – Vins de Vignerons“, non solo banchi di assaggio ma anche dibattiti, presentazioni eccetera.
La ragione sociale dell’evento dice tutto: si parla di vini veri, naturali, con tutto il casino che questa denominazione non ufficiale si porta appresso (mancanza non solo di un disciplinare ma persino di una definizione condivisa, molteplicità di associazioni in contrasto l’una con l’altra, confusione dei consumatori), ma anche con tutto l’appeal che la  patente di naturalità suscita ormai nel pubblico sia degli appassionati  generici che in quelli più hardcore.
La parte di titolo in francese completa la definizione: non sono presenti solo produttori italiani ma anche stranieri: francesi in particolare, ma anche sloveni, greci e georgiani.

La recente ventata di naturalità, di attenzione al biologico e di avvicinamento al biodinamico in pochi anni ha traghettato l’attenzione ai temi del biologico e biodinamico dai ristretti circuiti di carbonari fino alla massa dei consumatori, e manifestazioni come questa di Fornovo sono ormai meta di una massa significativa di partecipanti, al di qua e al di là del banco. Il risultato netto è che l’evento è arrivato a disporre di una quantità di proposte di assaggio da capogiro (si parla di oltre un centinaio di vignaioli presenti con varie referenze ciascuno), con una affluenza di pubblico ovviamente direttamente proporzionale.

Fornovo
Coda all’ingresso alle 11

Peccato che Fornovo non sia cresciuta allo stesso modo per quanto riguarda l’organizzazione: non ho idea di cosa sia accaduto gli altri giorni, ma domenica mattina alle 11 c’era già coda all’ingresso e la situazione era poco sostenibile dal punto di vista degli spazi interni, con difficoltà notevoli nello spostarsi da un banco all’altro e ben poche possibilità di parlare decentemente con il produttore senza alzare la voce.
I bicchieri forniti puzzavano, e per sciacquarli dopo le degustazioni (e per permettere la pulizia della bocca del pubblico) gli espositori avevano in dotazione minuscole brocche di acqua di rubinetto (non del tutto inodore), peraltro vuote in pochi istanti; ça va sans dire, non potevano mancare in terra i soliti pittoreschi secchi al posto delle comuni sputacchiere; del tutto assenti grissini e pane.
L’area esterna, che avrebbe dovuto fungere da spazio di “decompressione” e dar modo di mangiare qualcosa con un  minimo di calma, alle 13 aveva ancora le panche accatastate l’una sopra l’altra, inutilizzabili, e in ogni caso presentava ben poche zone coperte (e a novembre, si sa, di solito piove).

Fornovo
Folla all’interno alle 12

Sempre in considerazione della stagione e dell’inevitabile corollario di freddo e pioggia, non sarebbe male prevedere un servizio di guardaroba (a pagamento, per carità), in modo da poter depositare giacche e ombrelli, permettendo così di muoversi con maggiore libertà e senza morire di caldo.

Quanto sopra potrebbe non costituire motivo di lamentela per un evento di recente organizzazione e di limitate risorse, ma di sicuro è rilevante per una circostanza che si ripete da dodici anni, che chiede un biglietto di ingresso di 12 euro (più un euro per il pieghevole con l’elenco degli espositori, che peraltro è appunto un mero elenco, senza indicazione delle referenze presenti e senza una mappa dei banchi per facilitare il percorso! Dai, almeno fate un pdf e mettetelo sul sito…) e che può vantare varie sponsorizzazioni (leggo sul sito: Comune di Fornovo, Provincia di Parma, Regione, Pro Loco di Fronovo e altre sei aziende).

Lamentele logistiche a parte, luci ed ombre anche per quanto riguarda i vini proposti, visto che in più di una occasione si è trovata qualche bottiglia decisamente sgraziata, dove il concetto di “naturalità” non è ancora in accordo con quello di qualità.
Qualche appunto più o meno a caso riferito alle poche cose che ricordo: piccola delusione i due Alsaziani, Bannwarth e Paul Humbrecht: del primo ho trovato piacevole il Cremant (ad ottimo prezzo) e poco altro, e il secondo mi ha lasciato indifferente, mentre lo scorso anno aveva ottimi Pinot Gris e Gewurztraminer.
Molte riserve sugli champagne presentati da Boulard: interessante e personale il Vieilles Vignes e il Les Rachais 2007, ma i prezzi mi sembrano poco competitivi.
Piacevoli (e di prezzo abbordabile) gli Chenin di Loira di Bertrand Jousset: mi piacerebbe riassaggiarli con più calma e magari con qualche anno in più.
Sempre bene Maule, con una bella vendemmia tardiva di Garganega oltre ai “soliti” Masieri e Sassaia ; estremamente territoriali, sapidi, complessi di vini di Princic e Montinar; facilità e scorrevolezza di beva inconsueti per i rossi di Arianna Occhipinti (SP68 e Siccagno, peccato mancasse il Frappato); i miei soliti dubbi su Il Pendio: ne sento sempre parlare benissimo, lo incontro solo in qualche manifestazione quindi l’assaggio è giocoforza poco approfondito, e ogni volta ne ho la stessa impressione di vino ben fatto, piacevole ma nulla più.

Arrivederci all’anno prossimo, Fornovo, confidando nella solita naturalità ma magari in un pizzico di pittoresca rusticità in meno…

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Oslavje 1997, Radikon: sapida naturalità

Denominazione: DOC Collio
Vino: Oslavje
Azienda: Radikon
Anno: 1997
Prezzo: 30 euro

radikonOggi che è di moda parlare di vino naturale, biologico, biodinamico eccetera, sorge il sospetto che molti produttori che si avvicinano a queste metodologie lo facciano non tanto per convinzione, quanto per il (legittimo, per carità) intento commerciale di cavalcare l’onda.
Di certo, quanto sopra non si può neppure lontanamente immaginare per una azienda come Radikon, che già dal 1995 ha deciso di radicalizzare il proprio metodo lavorativo sia in vigna che in cantina: ecco dunque il rifiuto di concimi chimici, rese bassissime nel vigneto, vendemmia manuale, fermentazione con soli lieviti autoctoni e senza controllo della temperatura, macerazioni molto lunghe (anche per i vini bianchi), nessuna filtrazione e nessuna aggiunta di solforosa; su questa base, Stanislao Radikon ha poi modificato e affinato il processo, ad esempio variando anche notevolmente il tempo di permanenza sulle bucce.

Ne risultano vini certamente particolari e senza compromessi, che se oggi, dopo anni di discussione e di allenamento ai “vini naturali”, possono forse essere compresi con relativa facilità, immagino dovessero essere un bel rebus per il consumatore di quindici anni fa.

Mi sono quindi approcciato con estrema curiosità a questo Oslavje 1997, un uvaggio di Pinot Grigio, Chardonnay e Sauvignon: in sostanza, ho bevuto un vino bianco vecchio di quindici anni, prodotto senza un grammo di solforosa aggiunta.

Ok, ma alla fine come è questo vino?
Visivamente, è giallo dorato quasi ambra, di una certa densità.
Olfattivamente trovo miele, fichi, frutta secca, smalto, vernice e una leggera volatile; certo ci sono grandi complessità e intensità. e gli aromi cambiano con il passare dei minuti, avvicinandosi ora più al terziario (etereo), ora più alla albicocca disidratata, e poi tirando fuori anche qualche timido accenno floreale e di incenso.

In bocca entra secchissimo, curiosamente liscio e fluido (mi aspettavo un sorso decisamente più pieno), poi avvolge con calore e spiazza: data la volatile avvertibile al naso immaginavo una forte acidità, mentre invece le parti dure sono date principalmente dalla enorme sapidità; scendendo in gola traccia con il calore, poi è lunghissimo e lascia salivare la bocca per minuti a causa della sapidità.

Alla fine, mi piace?
Sì, intriga e lascia la voglia di poter affrontare una verticale di varie annate, che immagino sarebbe interessantissima.
Posso parlare di un prodotto estremamente personale e sicuramente diverso dalla maggior parte delle bevute “normali”, che divide e spiazza, e che forse risulta “difficile” non tanto nella degustazione, quanto per la complessità di abbinamento: viene da pensare che si tratti di un vino da bere da solo, o al massimo da abbinare a formaggi stagionati.

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Sestri Les Vins: ben fatto!

Sestri-Les-VinsPoco da dire su una manifestazione vinicola quasi sotto casa, ben organizzata, comoda da raggiungere sia in auto che in treno e con tanti bei nomi presenti: più varia di Vinidamare (imbattibile per annusare il dettaglio della situazione ligure, ma sofferente di cronici problemi organizzativi), più raccolta del pregevole Terroir Vino, meno settoriale dei vari Critical Wine.

Peccato per la pioggia battente e il clima gelido, perché l’ubicazione era perfetta per permettere di alternare assaggi e minuti di riposo in riva al mare, nella Baia del Silenzio: uscire all’aperto era davvero impraticabile e di questo ha risentito lo spazio interno alla manifestazione, che in alcuni momenti risultava intasato.

Apprezzabili: l’ingresso contenuto a 10 euro (5 per i soci AIS), la grande quantità di pane disponibile ai banchi di assaggio, le sputacchiere svuotate con buona solerzia.
Meno apprezzabili (ma sono dettagli): il pieghevole con l’elenco dei produttori non riportava l’elenco dei vini e la mappa dei banchi di esposizione, e mancava un guardaroba all’ingresso (in una giornata in cui tutti avevano ombrelli, sciarpe, cappelli sarebbe stato davvero comodo).

Da segnalare la presenza costante e amichevole di membri della famiglia Maule: li ho visti parlare cortesemente e sorridere con tutti non solo al loro stand ma in tutti gli angoli della manifestazione.

A parte la lista dei produttori (tutti del giro Vinnatur e di buon livello), una delle cose belle di un evento del genere organizzato vicino a casa è che gironzoli per le sale e incontri una valanga di persone che conosci: chi di vista, chi più approfonditamente, e il risultato è una atmosfera decisamente allegra e familiare.

Al solito, evito l’elenco puntuale degli assaggi, ché ne risulterebbe una lista lunga e noiosa. Solo un accenno per un paio di produttori che non conoscevo e che ho trovato sicuramente interessanti.

Spendo qualche parola in più la Azienda Agricola Casale: il vulcanico patron ci ha fatto assaggiare tutto e di più, da una serie di Trebbiano declinati in varie annate e varie macerazioni (tutte piacevolmente ben fatte e non eccessive), ai suoi Sangiovese estremamente rigorosi ed eleganti anche quando il frutto esuberava in marmellata al naso (in particolare l’annata 2000), per finire con un monumentale Vin Santo (ricco di ricordi, dai fichi alla salamoia) che ha attaccato i suoi aromi al bicchiere in maniera così previcace da richiedere svariati lavaggi. Grande azienda.

Altri assaggi sparsi: la piacevolissima e profumatissima malvasia lievemente macerata del Quarticello, la fresca e sapida ribolla di Kristancic, la Garganega Vecchie Vigne di Davide Spillare, un piccolo e giovane produttore ubicato a due passi dalla azienda di Maule e del tutto confrontabile come prodotto.

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Vini naturali: moda o cultura?

“Fosfato diammonico, Dicloridrato di tiamina, Anidride solforosa, Bisolfito di potassio, Carbone per uso enologico, Gelatina alimentare, Proteine vegetali ottenute da frumento o piselli, Colla di pesce, Ovoalbumina, Tannini, Caseina, Caseinato di potassio, Diossido di silicio, Bentonite, Enzimi pectolitici, Acido lattico, Acido L tartarico, Carbonato di calcio, Tartrato neutro di potassio, Bicarbonato di potassio, Batteri lattici, Acido L-ascorbico, Azoto, Anidride carbonica, Acido citrico, Acido metatartarico, Gomma d’acacia (gomma arabica), Bitartrato di potassio, Citrato rameico, Solfato di rame, Pezzi di legno di quercia, Alginato di potassio, Solfato di calcio”.

Queste sopra sono le sostanze autorizzate nell’uso nella produzione biologica di vino, secondo il regolamento di Esecuzione 203/2012 della Commissione Europea dell’8 marzo 2012.
Così, tanto per far capire cosa si intende quando si parla di “vino biologico” secondo la legge.

BiologicoDetto questo, il vino “biologico”, “biodinamico”, “naturale”, è sempre più sulla bocca dei consumatori, in parte come conseguenza di una ricerca più generale di stili di vita salutari (vedi i vari negozi “bio”), in parte per la recente moda dei cibi “di qualità” (il successo di Eataly ne è il simbolo), ma anche come fuga da una certa massificazione del gusto.
Sono infatti passati i tempi in cui si poteva incappare in vini cattivi: le moderne pratiche enologiche hanno fatto in modo che in enoteca, ma anche al supermercato, si possano trovare la stragrande maggioranza di bottiglie tecnicamente ineccepibili, a prezzo però di una netta mancanza di identità: i procedimenti standardizzati generano vini esenti da difetti ma scarsamente identitari.

Della biodinamica abbiamo parlato in precedenza, e del biologico abbiamo detto in apertura. Il tutto ricade nel grande cappello del “vino naturale”, locuzione abbastanza fumosa, perché pur non esistendo neppure una definizione “ufficiale” (anzi, per gli enotecari è persino pericoloso usare il termine), in Italia si contano ormai diverse (troppe) associazioni di produttori che ambiscono di potersi fregiare dell’espressione in voga. Andrea Scanzi, uno dei massimi osservatori del fenomeno, ha spiegato tutto con una frase: “i vinoveristi hanno più partiti che bottiglie. In confronto, la sinistra extraparlamentare è coesa”.
Se poi aggiungiamo che, in perfetto spirito italiano, spesso tra i vari consorzi e associazioni non corre buon sangue, si capisce quanto possa essere poco comprensibile la situazione per i consumatori.

Alla fine, il minimo denominatore comune è quello del massimo rispetto possibile della natura durante la coltivazione della vigna (no ai fitofarmaci ed ai concimi chimici, per esempio) e il rifuggire dalle pratiche spericolate in cantina (in sostanza, produzioni più tradizionali ma condotte con consapevolezza moderna, ad esempio con estremo rigore per igene e travasi, senza addizioni di sostanze magiche e senza interventi dell’enlogo-guru di turno).
Ne risultano vini certamente meno massificati nel gusto, non globalizzati nell’aspetto e all’olfatto, a volte magari più scorbutici, sicuramente di resa meno costante ma di certo più personali e unici.

Tutte cose ragionevoli, visto che oggi, al di là delle mode (che ieri imponevano il vino fruttatissimo o barricato e oggi dettano le nuove parole d’ordine di acidità e mineralità), è in atto un mutamento del gusto degli appassionati: data per scontata la qualità minima sindacale, il bevitore moderno cerca nel bicchiere una piccola avventura, la capacità di distinzione da altre mille bevute, l’identità di una zona di produzione, la personalità di un vignaiolo. Cose che un vino prodotto con tecniche modernamente standardizzate e con vitigni internazionali difficilmente si possono ottenere.

Certo, non sempre le cose vanno lisce, perché il rifiuto di tecniche ben consolidate porta talvolta (sempre meno spesso, per la verità) a bottiglie se non difettate, perlomeno borderline (in questi casi, si dice pietosamente “difficili da capire”).
La drastica diminuzione di questi incidenti va a tutto vantaggio del consumatore che può così accedere con una certa tranquillità a prodotti interessanti e piacevolmente diversi, più digeribili e prodotti nel rispetto dell’ambiente.

A parte quanto sopra, credo occorra fare la tara a tutte le istanze di naturalità ostentata, e ricordare che il vino è una manipolazione dell’uomo: resta scolpita nel granito la massima di Francesco Paolo Valentini, uno dei campioni della qualità del vino in Italia: “l’uva naturalmente diventa aceto, io sono un produttore di vini artigianali“.
Per parte mia, credo che al di là delle metodologie di produzione, il vino debba essere ben fatto e piacevole; certo, se il vignaiolo non ha usato solforosa e la bottiglia è fantastica, tanto meglio, ma un vino che puzza non ha giustificazione anche se prodotto con uve bio.

Chiudo esprimendo un certo fastidio perché al carro del fenomeno, creato e tirato da agricoltori coscienziosi, mi pare si stiano attaccando anche i personaggi che vedono solo una nuova opportunità di business: se tutto è “naturale” (e con una legislazione come quella riportata in apertura è proprio così), nulla lo è, se non i vini di quei vignaioli che credono davvero nella qualità del loro prodotto e nella salvaguardia del loro ambiente, e se ne infischiano delle certificazioni e dei bollini.

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Dinavolo 2006: estremismo al potere

“Orange wine” è la definizione appioppata a quei vini prodotti da uve a bacca bianca che, a causa della lunga macerazione sulle bucce (di fatto, una vinificazione in rosso), hanno ottenuto caratteristiche particolari come ad esempio colore aranciato, corpo rilevante, una certa carica tannica e un corredo aromatico ben particolare.
Tale pratica, cui indulgono solitamente i produttori della cosiddetta stirpe “naturale” (minori interventi possibili sia in vigna che in cantina), non è in realtà nulla di nuovo, anzi semmai il recupero di una lunga e antica tradizione contadina, integrata con le moderne attenzioni e conoscenze.

DinavoloUno dei campioni della categoria dei pesi massimi di questa strana federazione è il Dinavolo della azienda Denavolo (sul serio, non ho sbagliato a scrivere); siamo in provincia di Piacenza, le vigne si trovano ad altezza di circa 500 metri, sono condotte biologicamente, di varietà bianche tipiche della zona come malvasia, ortrugo, trebbiano eccetera.
In cantina, ovviamente lieviti autoctoni, lunghe macerazioni, nessuna aggiunta di solforosa, no al controllo della temperatura, addirittura nessun travaso e filtrazione

Quindi come è questo Dinavolo, quando ha alle spalle ben sei anni di invecchiamento?
Il colore è pazzesco, ambra brillante come se fosse un Sauternes, e il naso è intenso di frutta disidratata e fichi secchi, poi terziari di smalto per unghie e persino un filo di formaggio. C’è una leggera acidità volatile, che è poi una caratteristica di questi vini e, quando ben controllata come in questo caso, contribuisce a renderli vivi e dinamici.

In bocca entra dolce sulla punta della lingua, poi arrivano enormi l’acidità e la sapidità, è freschissimo e sicuramente tannico. Caldo. salmastro, lungo.
Date le altre caratteristiche ti aspetteresti un corpo più potente, invece è ben presente, ma certo non un mattone.

Abbinamento difficile: direi formaggi di media stagionatura o carni speziate, oppure in solitaria, dopo il pasto. Rigorosamente a temperatura ambiente o poco più fresco: il freddo estremizza il tannino e lo rovina inesorabilmente.

Alla fine non si può certo definire fine, composto o addirittura bere da tutti i giorni; semmai un vino affascinante, scorbutico, unico, imperfetto e complesso. Da provare, se si ha il palato avventuroso.
Sui 25/30 euro in enoteca.

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