La Bardette 2014, Domaine Labet

“Lo Jura è diventato di moda”, mi dice con una smorfia di disgusto un amico commerciante di vini, ma se un articolo sulla rivista dell’AIS e qualche bottiglia in più in distribuzione bastano a certificare come fashionable una regione che la maggioranza dei bevitori neppure saprebbe collocare in cartina, a me inizia a girare la testa. Mi sembra di essere tornato quindicenne appassionato di rock alternativo, quando anche robe come il secondo album dei Jesus & Mary Chain venivano scomunicate come troppo commerciali.

Che poi di questo Jura, cosa vuoi aver bevuto? Sfido la massa degli appassionati seriali: se hanno in saccoccia più di uno Château Chalon, due Arbois e un Cremant a caso già mi levo il cappello.

Ora, facciamo un po’ di ordine: cosa coltivano e per cosa è famoso lo Jura? Le uve maggiormente usate sono chardonnay e savagnin (bacca bianca) e pinot noir, poulsard e trousseau (bacca rossa), e sicuramente i vini più noti sono quelli in stile ossidativo (Vin Jaune, da uva savagnin).

Nel caso invece di questa bottiglia del Domaine Labet abbiamo un prodotto piuttosto atipico, non tanto per il vitigno (Chardonnay) quanto per lo stile: paglierino acceso, con al naso immediate note “strane”, e sfido chiunque a riconoscere lo Chardonnay.

Denominazione: Cote du Jura
Vino: La Bardette
Azienda: Domaine Labet
Anno: 2014
Prezzo: 30 euro

Aromi sono decisamente funky si aprono sopra ad un impianto aggrumato e salmastro: la nota animalesca, oltretutto trasportata da una leggera volatile, non è proprio da manuale della finezza sebbene mantenga una certa piacevolezza.

L’assaggio è nettamente citrino, di grande acidità e sapidità; colpisce una netta somiglianza ad un lambic: l’acidità e il brett vanno a braccetto con il cuoio e la classica definizione Kuaskiana delle “vecchie carte da gioco”. Il corpo è nella media e il finale non particolarmente lungo.

Alla fine dei conti abbiamo una bottiglia curiosa, per certi degustatori quasi inaccettabile e magari entusiasmante per altri; il mio parere è nel mezzo: quelli che in altri casi sarebbero difetti, qui riescono ad amalgamarsi in un bicchiere tutto. sommato dinamico e gradevole.
Certo non un grande vino e non consigliabile a tutti: lo trovò un aperitivo divertente e inusuale, estivo, degno accompagnamento rinfrescante a torte di verdura e magari a formaggi caprini giovani a pasta molle

Il bello:  Inusuale, fresco, divertente

Il meno bello: Troppo caro, aromi rustici

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Montagny 1er cru 2013, Olivier Leflaive

Le Chardonnay di Borgogna che non ti aspetteresti mai, a questo prezzo.
Prodotto da vigneti di circa 25 anni di età ad oltre 250 metri di quota in posizione defilata rispetto ai comuni mitici di questa regione (siamo infatti nella parte meridionale della Côte Chalonnaise), subisce maturazione in acciaio (30%) e in legno, di cui solo una piccola parte è di primo passaggio.

Il produttore non è il classico piccolo sconosciuto, ma una robusta maison fondata nel 1984, con interessi sia in Borgogna che in Champagne: Olivier Leflaive, e con vini che spaziano in varie denominazioni e, soprattutto, in un ampio range di costo al consumatore.

Denominazione: Montagny 1er cru AOC
Vino: Montagny 1er cru
Azienda: Olivier Leflaive
Anno: 2013
Prezzo: 25 euro

Questo premier cru si distingue per il prezzo educatissimo rispetto agli standard borgognoni e per la estrema godibilità già in relativa gioventù: insomma un prodotto a metà strada tra un entry level ben fatto e qualcosa di più impegnativo.

Il colore è paglierino scarico e il naso naso racconta di un legno leggero che non marca affatto pesantemente, semmai si limita a sottolineare gli aromi di agrume e fiore bianco con una leggera nocciola tostata.
Comunque profumi sottili, scattanti e coerenti con l’assaggio, dove si percepisce la grassezza tipica del vitigno, per fortuna senza eccessi di burrosità.
Il sorso ne risulta bello fresco e teso, con alcol ben poco in evidenza e una lunghezza non monumentale ma mica da poco per una bottiglia di questa cifra.

Consigliatissimo come Borgogna bianco serio, di ottimo livello e per tutte le tasche, in abbinamento canonico: formaggi freschi o di media stagionatura, piatti di pesce un po’ elaborati o carni bianche.

Il bello: ricco, importante, senza accenni di pesantezza. Buon prezzo

Il meno bello: nulla da segnalare

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Cuvée Oenophile 2008 Premier Cru, Pierre Gimonnet

La famiglia Gimonnet è uno dei vigneron storici della Champagne, potendo vantare ben 28 ettari in Cote de Blancs, suddivisi in vigneti Premier e Grand Cru che raggiungono anche i 75 anni di età.

Denominazione: Champagne
Vino: Cuvée Oenophile
Azienda: Pierre Gimonnet
Anno: 2008
Prezzo: 35 euro

Una delle etichette più interessanti della maison è questo non dosato datato 2008, Chardonnay al 100%, Classificato Premier Cru anche se la maggioranza delle uve viene da vigneti in zona Grand Cru.
Trattandosi di millesimato viene ovviamente prodotto solo in annate particolarmente favorevoli.
La metodologia di produzione vuole la vendemmia manuale, l’uso di temperatura controllata, lo svolgimento della malolattica e una lievissima filtrazione prima dell’imbottigliamento.

Parlando di un metodo classico che è maturato sui lieviti per anni, ci si aspettano tostature, accenni di frutta secca, magari un filo di ossidazione. Tutto sbagliato, e si capisce già dal colore paglierino tenue, vivacissimo.

All’olfazione difatti arrivano praticamente solo gesso e limone, ciò nonostante la complessità e notevole, giacché questi due elementi si articolano in mille declinazioni, sempre in maniera sottile, aggraziata e ficcante; se esiste il famigerato minerale qui è il caso di spenderlo.
Col passare dei minuti si aggiunge al bouquet anche il fiore bianco, ma sostanzialmente si resta sempre nella traccia di un vino fresco e teso.

L’assaggio è coerente: la bolla è sottile e fitta, realmente cremosa, così come l’acidità è potente ma fortunatamente non strappagengive.
Inequivocabilmente champagne e senza dubbio Chardonnay, inconfondibile con altri metodo classico talmente è netta la fresca impronta di gesso, che neppure per un istante accenna al finale amaro.
Bella lunghezza, non manca neppure di struttura ed eccelle in energia e verticalità.
E’ banale predirgli una vita ancora lunga e consigliarlo con crudi di pesce o per aperitivi.

Uno champagne dal sorso senza compromessi, non c’è cenno di terziarizzazioni, nessun ingentilimento o ruffianeria da legno o da dosaggio importante, nessun rimando al cognac, al tartufo o ad altre evoluzioni che spesso caratterizzano alcuni champagne maison (che peraltro tanto ci piacciono: si tratta di interpretazioni diverse della denominazione, entrambe con pari dignità): qui si gioca  un campionato diverso, quello nel quale un vino del 2008 è tesissimo e sembra prodotto ieri e punta al massimo della purezza possibile per la denominazione.

Il bello: La tensione, la purezza e la verticalità

Il meno bello: nulla da segnalare

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Chateauneuf du Pape 2013 – Chateau Maucoil

A Châteauneuf-du-Pape mi sono fermato solo alcune ore, due anni fa.
E’ una bella cittadina ricca di storia e atmosfera, e soprattutto sembra ancora viva, abitata da persone che lavorano sul posto, contrariamente a quel che accade a troppi borghi antichi somiglianti ormai ad un ibrido tra un museo, Eurodisney e un bazar di cianfrusaglie per turisti.
Ricordo di essere capitato nel paese una domenica mattina; appena sceso dall’auto mi sono imbattuto in un negozietto di vini e alimentari, titolare una vecchietta che stava in piedi a malapena ma che stappava bottiglie con vigoria, gestendo con una certa amabile rudezza una degustazione improvvisata con una decina di presenti. Per buon peso, accanto ai vini, un cestino di formaggi e salumi strepitosi.

Detto questo, della denominazione conosco troppo poco per fingermi esperto, anche perché ne vengo da anni di (stupida) fissazione sul monovitigno, e ovviamente la AOC in questione è una delle più incasinate per quel che riguarda l’assemblaggio: tradizionalmente erano ammessi tredici varietali, dal 2009 si è arrivati a ben diciotto.
Se a questo si aggiunge che la zona è altamente produttiva, che quando parliamo del CdP vinificato in rosso stiamo trattando di un vino che richiede lunghi se non lunghissimi invecchiamenti per esprimersi al meglio, e che i prezzi medi non sono propriamente abbordabili, si capisce come sia difficile per i non esperti come me farsi una idea significativa della Appellation.

Ad ogni modo, a volte è bello anche fare qualche tentativo non dico casuale, ma governato dall’istinto: è su queste basi che ho comperato dal solito Vinatis questa bottiglia del produttore Chateau Maucoil e la ho bevuta in fretta, senza dar retta alla ragione, che richiedeva di dimenticarla in cantina per un paio di lustri.
Si tratta del prodotto di base, vinificato con uve da vigne giovani e da terrendi differenti; l’assemblaggio vede la prevalenza di Grenache e poi Syrah, Mourvèdre e Cinsault.

Denominazione: AOC Chateneuf du Pape
Vino: Chateauneuf du Pape
Azienda: Chateau Maucoil
Anno: 2013
Prezzo: 27 euro

Bello alla vista: di un rubino non troppo denso, molto luminoso e ovviamente molto giovane; il mio occhio inesperto avrebbe giurato su una percentuale importante di syrah.
L’olfattivo è già adesso di gran complessità: lo spettro si estende dal vinoso del vino giovane, al rosmarino, alle spezie, fino all’ematico.

Lo ribadisco: di fatto è un vino ancora giovane, lo dimostra l’ingresso in bocca di grande freschezza, ma è anche vero che il sorso regala con intensità netti sentori di frutta rossa matura e un tannino delicatissimo.
Il corpo è medio e la lunghezza è di livello; l’alto grado alcolico (14,5) è ben poco avvertibile.

Bel vino, molto bevibile nonostante la potenza e, ovviamente, dotato di notevole potenziale di invecchiamento

Il bello: Godibilissimo già da subito, grandi possibilità di evoluzione

Il meno bello: nulla da segnalare

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Pouilly Fume 2015, Guy Saget

Gli eno-appassionati lo sanno, con il sauvignon il “dibbattito” è garantito: Sancerre o Pouilly Fumè? Comunque solo in Francia, e in Italia al massimo in Alto Adige o Friuli, non parliamo poi di Australia o Nuova Zelanda…
Al netto del fatto che qualche mese fa ho partecipato ad un bel seminario AIS proprio sui vini di questa tipologia provenienti dalla terra dei Kiwi e non è stato proprio possibile uscirne mantenendo la classica convinzione che da quelle parti escano solo bombe di frutta, una volta assaggiati alcuni dei campioncini di finezza proposti.

Detto questo, c’è poco da fare: con gran parte dei Sauvignon non riesco ad entrare in intima confidenza, e questa bottiglia è una di quelle per le quali resto perplesso, eppure si tratti di una interpretazione tutt’altro che disprezzabile.

Parlo del Pouilly della azienda Guy Saget, che vinifica un po’ tutte le tipologie presenti nella valle della Loira (dal Muscadet al Vouvray, passando per Cremant, Mentou, Chinon eccetera).
Ovviamente Sauvignon al 100%, con una vinificazione molto standardizzata: acciaio, temperatura controllata e lieviti selezionati, immagino a tutela della aromaticità e freschezza intrinseche del vitigno.

Pur nella piacevolezza innegabile, l’intensità aromatica troppo spesso pare sovrasti le altre qualità del vino, paradossalmente rendendolo monocorde nonostante il caleidoscopio degli aromi.
Curiosamente, lo stesso mi accade molto più raramente con il riesling, chissà perché.

Ciò detto, occorre ammettere che questa bottiglia ha molte frecce al suo arco; anzitutto la fastidiosa nota di vegetale verde che spesso infesta il souvignon è tutto sommato contenuta, e non perviene il sinistro descrittore “pipì di gatto.

Denominazione: Pouilly Fumè
Vino: Pouilly Fumè
Azienda: Guy Saget
Anno: 2015
Prezzo: 18 euro

La colorazione, come scontato, vira su toni paglierino-verdolino, mentre gli aromi si esprimono piuttosto intensi nello spettro erbaceo-floreale, ma tutto sommato sono garbati; l’ingresso in bocca viaggia su ottima acidità, e associa al floreale qualche scampolo di frutto della passione.
Corpo mica tanto esile e alcol abbastanza ben mascherato (ma avvertibile appena la temperatura sale), lunghezza nella media.
Difficile dire se abbia qualche prospettiva di evoluzione: temo che al calare della freschezza possa crollare l’intera impalcatura..

Non un campione di complessità e di finezza, ma di sicuro gradevole per un aperitivo diverso o in accompagnamento a crostacei o a cibi leggermente speziati.

Il bello: gradevolezza anche per i “non esperti”

Il meno bello: manca complessità

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Millesime 2006, Laherte

Su questo vino ci sono voluto tornare sopra dopo averne bevuto una bottiglia entusiasmante durante una cena al Caffè La Crepa; al secondo passaggio (stavolta domestico) il vino si conferma ottimo, magari un filo meno strepitoso: sarà o bottiglia, il venir meno dell’effetto sorpresa o magari l’ambientazione diversa?

Non mi dilungo su Laherte: vigneron della Cote des Blancs tra i più affidabili, con bottiglie mai banali e in particolare con un ottimo rapporto qualità-prezzo

Denominazione: Champagne
Vino: Millesime 2006
Azienda: Laherte Freres
Anno: 2006
Prezzo: 45 euro

Ad ogni modo, i fatti; dorato, con apertura paradigmatica per uno champagne millesimato con vari anni sul groppone: lo stappo è uno sbuffo sottovoce, e la bolla è altrettanto lieve, addomesticata, finissima e fittissima che più delicata non si potrebbe.
E il naso! Che spettacolo di evoluzione: una leggera ossidazione con ricordi di cognac accompagnano lo iodato alla mandorla tostata e alla crema.

Prima dell’assaggio, un po’ di timore che l’affinamento possa essere stato eccessivo ma non è il caso: l’acidità non solo c’è, ma è anche potente e gestisce alla grande un intenso sapore di frutta secca frammisto al classico agrume.

Per me una gran bottiglia, certo, occorre mettersi d’accordo, devono piacere le bolle datate, con tutte le loro caratteristiche.
L’unico limite? manca un po’ di persistenza, ma a queste cifre sarebbe troppa grazia.

Il bello: Gran vino gastronomico, indicatissimo per coquillage in particolare

Il meno bello: Manca un pochino di persistenza

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Tavel 2015, Chateau de Segries

Avanti con le bottiglie dell’ordine “francese“: siamo ancora nella zona del Rodano, dalle parti di Avignone, e la denominazione è quella del rosato per eccellenza, Tavel.
Il produttore, Chateau de Segries è una conduzione familiare da quasi cento anni di circa 58 ettari, tutti nella regione.

Denominazione: AOC Tavel
Vino: Tavel
Azienda: Chateau de Segries
Anno: 2015
Prezzo: 17 euro

Qualche dato sul vino: si tratta di un uvaggio di grenache (50%), cinsault (30%), syrah (10%) e clarette (10%) che prende il colore grazie alla permanenza sulle bucce per una notte. La fermentazione avviene poi a temperatura controllata.

Alla vista è di un bel color rosa acceso, luminoso, lampone, e difatti i frutti di bosco coerentemente tornano alla mente subito alla prima olfazione, in particolare la fragolina, accompagnata da un lieve accenno di caramella charms.
L’assaggio è invece più robusto,  una volta saputo che il vitigno principe è la grenache non si stenta a crederlo: non è il tipico rosato anemico e anonimo, e pur non riscontrando pesantezza qui ci sono calore e corpo, bene accompagnati da una freschezza importante che agevola il sorso.

Vino piuttosto semplice ma godibilissimo, il piccolo e curioso paradosso di una bottiglia robusta (per un rosato) e assieme gradevolmente ruffiana.
Sicuramente da accompagnamento da cibo, più che per aperitivo: direi carni bianche e salumi, ma anche qualche cibo etnico, con speziature decise.

Il bello: fresco, bevibile nonostante il corpo

Il meno bello: nulla da segnalare

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Cotes du Rhone Rouge 2012, Guigal

Lo scorso anno ho fatto una veloce puntata nella zona del Rodano, Sud e Nord: prima o poi ne parlerò qui sul sito, per ora basti dire che non ho grandi scoperte da rivelare: certo conoscevo “la teoria” (uve, AOC ecc.), ma sono andato quasi totalmente digiuno dal punto di vista della conoscenza dei produttori e delle degustazioni.

La conclusione (banale, lo riconosco) è che la zona è immensa, con un numero di produttori e di stili infinito e che in particolare dalla zona meridionale a quella settentrionale passa un continente di differenze.
Fatto sta che è facile passare da vini di grande qualità (e prezzo altrettanto importante) ad altri piuttosto standardizzati.

A parte quanto sopra, devo dire che il Syrah e il Viogner (vitigni di riferimento al Nord) possono essere uve estremamente ruffiane, capaci di dare vita a bottiglie interessanti anche a prezzi civili.
In questo contesto sguazza un grande produttore (e negociant) come Guigal, che offre una gamma importante di vini a coprire un gran numero di denominazioni dal Nord a Sud lungo il grande fiume, dai prestigiosi Cote Rotie ed Hermitage ai più modesti Cotes du Rhone.

Visto che comunque il marchio è di quelli riconosciuti come “sicuri”, perché non provare un prodotto dal prezzo adatto a tutte le tasche, un Cotes du Rhone appunto?
Detto fatto, nell’ordine a Vinatis ho incluso questa bottiglia: un blend classico di 50 % Syrah, 45 % Grenache e 5% Mourvèdre.
Il vino fermenta a temperatura controllata, una parte affinata in legno.

Denominazione: AOC Cotes du Rhone
Vino: Cotes du Rhone Rouge
Azienda: Guigal
Anno: 2012
Prezzo: 10 euro

Il colore è profondo, spesso, materico, impenetrabile con unghia di rubino brillante, mentre all’olfatto arriva lafrutta rossa, scura e matura accompagnata ad una lieve speziatura.
In bocca è caldo, ampio, di corpo, con una giusta freschezza e un tannino dolce appena accennato.

In sostanza, la bottiglia si rivela per quel che pensavo: una interessante introduzione al Rodano ad un prezzo corretto, non un campione di finezza o una eccellenza, ma un buon vino di media robustezza, gastronomico, che si beve bene con le carni e che comunque chiede di essere consumato pasteggiando

Il bello: ottimo prezzo, buon vino gastronomico

Il meno bello: nulla da segnalare

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Vouvray sec 2012, Domaine de Vaugondy

Altra degustazione di un vino del lotto reperito presso Vinatis.

Il Domaine de Vaugondy dispone di otto ettari nella zona di Vouvray, quindi Francia, Valle della Loira, a grandi linee dalle parti di Tours.
Il vitigno di riferimento della zona è lo Chenin Blanc, uva a bacca bianca di grande acidità e di conseguente grande potenziale di invecchiamento, impiegata per una vasta gamma di produzioni, dai vini secchi a quelli semi-secchi, dolci, passiti e agli spumanti.

Proprio in ragione del tipo di vitigno ho comperato senza grandi timori un vino bianco del 2012, sperando anzi che, come accade per molti riesling, l’invecchiamento potesse aggiungere complessità alla bottiglia.
Non ho grandi informazioni sulla metodologia di produzione: il sito parla solo di vinificazione in acciaio a temperatura controllata.

Denominazione: AOC Vouvray
Vino: Vouvray sec
Azienda: Domaine de Vaugondy
Anno: 2012
Prezzo: 12 euro

Il liquido è paglierino con netti riflessi verdolini, alla vista ben più giovane della sua età; gli otto gradi di temperatura di servizio consigliati sono decisamente troppo pochi: il vino resta muto, un liquido alcolico senza espressione.
Scaldandolo leggermente esce finalmente la personalità: un naso nettamente erbaceo (troppo, per i miei gusti), con un accenno di eucalipto. Di certo non è ampio, e quel vegetale è un po’ troppo invadente per definirlo elegante.

L’assaggio porta una bella acidità, richiami di frutta fresca: gli agrumi, la mela verde e un certo calore alcolico. Sullo sfondo si nota un residuo zuccherino che mitiga la freschezza e rende i primi due sorsi piacevoli; il problema è che alla lunga stanca, soprattutto appena il vino prende temperatura.

Bottiglia che temo abbia già passato il suo momento migliore: la leggera monotonia olfattiva e la mancanza di dinamismo in bocca me lo fanno temere

Discreto come antipasto, dato il leggero spunto zuccherino lo immagino interessante con i frutti di mare, ostriche in particolare.

Il bello: buon prezzo, bella freschezza

Il meno bello: troppo erbaceo al naso, un eccesso di zuccheri

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Chardonnay 2002, Pierre Morey

Certo che ti senti tremendamente demodè, oggi, se confessi di aver voglia di chardonnay: l’enomondo che conta ha virato da tempo verso lidi più asciutti, verticali, esili, dritti. I fantomatici vini “minerali”, qualsiasi cosa voglia dire.

In realtà la tendenza la capisco benissimo e la sposo pure io con un certo sostegno: certe bottiglie opulente fino all’eccesso, che risultano di gradimento massimo durante una sessione di degustazione, servite in dosi omeopatiche, restano invece piene a metà alla prova del nove, quella della tavola. Meglio allora vini più sottili, magari anche più semplici, soprattutto più eleganti.
Lo chardonnay, a torto o a ragione, si è guadagnato la fama di “vinone” burroso e grasso, e a peggiorare le cose in tanti lo hanno abbinato ad affinamenti selvaggi in legno piccolo nuovo. Insomma, il simbolo di una certa enologia retrò, anni 80-90 oggi percepita come il fumo agli occhi dal gruppone degli enostrippati terminali.

C’è un “però”: gli stessi wine-addicted di cui sopra sono poi quelli che popolano le loro polluzioni notturne di fantasmi borgognoni, dove, mi risulta, il vituperato vitigno bianco e la bistrattata barrique la fanno da padrone…
Ne consegue che, e scrivo una banalità, lo chardonnay, in certe zone (e in certe mani) è una grande uva, persino (anzi, ancor di più) se affinato in piccole botti di legno, quando usate da chi sa cosa sta facendo.

Detto questo, sono il primo ad ammettere che non è facile scovare questi esempi virtuosi: hai voglia a dire Borgogna se il portafoglio non è quello di un oligarca russo, così quando ho visto a scaffale questa bottiglia dal prezzo civile e dal millesimo non recentissimo non ho resistito alla tentazione

Denominazione: AOC Bourgogne
Vino: Chardonnay
Azienda: Domaine Morey
Anno: 2002
Prezzo: 26 euro

Il vino è un Triple A di Pierre Morey, azienda con terreni a Meursault, Monthélie, Pommard e Puligny Montrachet, che svolge sia attività di vinificazione delle proprie uve che di negociant.
Il Domaine è stato convertito a biologico prima e poi a biodinamico già negli anni 90.

La bottiglia in assaggio è una appellation regionale, quindi nulla di particolarmente prestigioso, anche se le uve sono tutte provenienti da parcelle locate nel comune di Meursault e il 2002 è considerato un millesimo equilibrato e degno di invecchiamento.

Colore paglierino carico, quasi dorato, comunque ancora ben luminoso, senza accenni di decadimento.
La prima olfazione è precisa: zabaione e zucchero filato, ma non è molle e neppure particolarmente complesso, semmai regala anche alcuni richiami più vegetali.

L’assaggio, pur ampio, non è “seduto”: entra burroso e intenso, sostenuto da una bella acidità; il calore poco avvertibile e il corpo, importante ma non robusto, contribuiscono alla piacevolezza del sorso che termina lasciando la bocca pulita, per nulla stucchevole, con una discreta lunghezza.

Ovviamente non è la bottiglia da scegliere per un aperitivo o per il sushi del sabato sera, ma se avete un primo sostanzioso (magari un risotto ai funghi) o un secondo di pollame potete star certi che l’abbinamento sarà ben riuscito.

Il bello: vino non troppo verticale, ma controllato e comunque dinamico

Il meno bello: vino non troppo verticale, ma controllato e comunque dinamico

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