Freisa Kyé 2011, Vajra

Questo post, riesumato per una felice coincidenza, era rimasto in attesa da mesi, sepolto nel casino del quotidiano, ed è una omissione colpevole: come faccio a dimenticare che quando ero ancora più novizio di quanto lo sia adesso e mi muovevo con elefantiaca (dis)grazia nelle varie manifestazioni enoiche, la signora Milena mi ha accolto con sorriso e pazienza, senza mettermi in imbarazzo come accaduto con altri produttori; e come posso non ricordare che alla mia prima visita in azienda venni ricevuto da una giovane responsabile dell’accoglienza che, a me turista del vino squattrinato, dedicò più di un’ora, accordandomi la stessa attenzione riservata ad un paio di tedeschi che comperarono più o meno per il valore del PIL di una nazione africana di media grandezza…

Non lo so se la famiglia Vajra sia davvero quella sorta di mulino bianco che pare essere: tutti (marito, moglie, figli, collaboratori) nelle poche occasioni in cui mi è capitato di incrociarli, si sono rivelati gentilissimi e soprattutto capaci di emanare una sorta di fluido magico della tranquillità; non bastasse, abbinano questa sorta di pace interiore ad una laboriosità seria ma non ossessiva. Insomma, diciamola tutta: ti fanno quasi invidia per come sembrano perfetti.
Avranno anche loro le giornate no? Comunque sia, al consumatore non lo danno a vedere: insomma, sono una sicurezza come i loro vini, che tutte le volte che li bevi danno l’idea di essere un prodotto altamente professionale, in cui nulla è lasciato al caso, ma comunque dotato di un’anima fortemente emozionale.

Sarebbe facile parlare dei Baroli di famiglia, ma a me piace spendere qualche riga per una delle loro bottiglie di nicchia, la Freisa, che completa una gamma di vini che ormai spazia a tutto campo dai classici piemontesi fino al riesling e al metodo classico.

freisa-ky_-vajraDenominazione: Langhe rosso DOC
Vino: Kyé
Azienda: Vajra
Anno: 2011
Prezzo: 24 euro

Vigneti a 400 metri di altitudine e affinamento di oltre un anno in legno per una bottiglia cui deve stare alla larga chi, leggendo il nome del vitigno, pensa ad un liquido abboccato e lievemente frizzante. Qui siamo agli antipodi, e sfacciatamente territoriali per giunta: se non è radicato nella sua zona questo vino, allora possiamo chiudere baracca. Questa è una freisa che barolegga nettamente (la diciamo una frase alla moda? Il terroir vince sul vitigno) e al naso racconta di viole, di frutta rossa matura e persino di etereo, mentre in bocca è ricca, potente, tannica (ma di un bel tannino deciso e non verde), calda, e di gran corpo, con ricordi di frutta rossa persino arricchiti da china e liquirizia.
Semmai è all’esame visivo che tradisce i suoi natali, mostrando profondità di colore e nessun accenno granato o aranciato tipico del nebbiolo; la vendemmia è 2011 ma il vino è ancora giovane, sostenuto da una acidità sferzante che rende la bevuta irresistibile.
Vino da pasto, da formaggi, da pane e salame: fatene quel che volete e cascate sempre in piedi.

Il bello: aromi netti, ricchi, pieni

Il meno bello: nulla da registrare

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Dolcetto Superiore 2009, Roddolo

Comperate durante la visita, ho ancora sepolte in cantina alcune bottiglie dell’ormai mitologico (a causa degli scritti di “prezzemolino” Scanzi) Dolcetto di Flavio Roddolo, e con le prime piogge credo sia venuto il momento di metterci mano…


Roddolo_DolcettoSupDenominazione
: Dolcetto Superiore
Vino: Dolcetto
Azienda: Flavio Roddolo
Anno: 2009
Prezzo: 12 euro

Aromi non esuberanti ma che nelle prime ore dopo l’apertura si sciolgono in delicatezze insospettabili: a parte la frutta matura, ecco alcune sfumature di viola e leggere speziature. Il giorno seguente il tutto sarà più smorzato, ed emergerà maggiormente il frutto.

L’ingresso è caldo, deciso, con un tannino dal bel grip robusto. L’acidità è notevole, la lunghezza buona e la chiusura lascia una lieve mandorla, non fastidiosa.

E’ un vino magari semplice (ma non troppo), ed uno dei pochi casi in cui mi va di spendere il termine territoriale. Vino che richiama agnolotti, sughi, coniglio, cibo con una certa untuosità. Gastronomico insomma, e stagionale: sarà la suggestione, ma bevendolo non possono venire in mente le colline langhette durante l’autunno.

Io ne ho fatto accompagnamento brutale e semplice, un giorno con caldarroste e l’altro con pane e salame: molto bene in entrambi i casi, perfino con le castagne.

Il bello: vino quotidiano alla ennesima potenza
Il meno bello: nulla da segnalare

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Giacosa Extra Brut 2006

Ho scritto recentemente qualcosa  riguardo i metodo classico Piemontesi, e sono contento di poter continuare a parlare di ottime impressioni con un altro prodotto che non avevo mai assaggiato, il Giacosa Extra Brut.
Certo, il caso è curioso: nonostante l’etichetta riporti il nome di una icona del vino di Langa (Giacosa, appunto), le uve, pinot nero in purezza, provengono dall’Oltrepò Pavese…  Prendiamola come la dimostrazione della grande capacità di vinificare di casa Giacosa e anche come prova della notevole attitudine della regione lombarda nella coltivazione di questa non facile tipologia.

giacosaDenominazione: –
Vino: Extra Brut
Azienda: Giacosa
Anno: 2006
Prezzo: 25 euro

Visivamente perfetto: giallo paglierino con bolle sottili, continue e numerose e bella spuma persistente.
L’Olfattivo è deciso, vibrante di minerale e lieviti, poi c’è il floreale, e il muschio, sottobosco umido, senza frutta tropicale o agrumi. Diretto, molto maschio.

L’ingresso è deciso ma senza aggressività, decisamente secco ma senza accenti amarognoli, pieno, gustoso e intenso, fresco e dotato di bella sapidità. Squillante, vivo e comunque di grande equilibrio, nonostante la drittezza riesce ad esprimere una certa rotondità. Ottima lunghezza.
Lasciandolo esprimere a qualche grado in più acquista profondità e ricchezza.

Uno dei migliori metodo classico pinot nero in purezza assaggiati quest anno; certo, la domanda è che senso abbia la denominazione dimostra le potenzialità dell’oltrepò pavese

Il bello: pienezza gustativa
Il meno bello: nulla da segnalare

 

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38a Fiera Nazionale dei vini di Langhe e Roero

Degustazioni di vini bianchi, rossi e dolci in abbinamento a prodotti tipici del territorio.

Incontri in cui approfondire l’argomento ‘Denominazioni geografiche aggiuntive di Barolo e Barbaresco’.

Visite guidate, laboratori per ragazzi, streetfood e mercati.
Appuntamenti che affiancano la manifestazione e che colorano la primavera albese.

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Vinum Alba: occasione quasi mancata?

Spiace non poter dire tutto il bene possibile di una manifestazione di Langa, territorio benedetto per i vini, per di più ospitato in una cittadina deliziosa come Alba, ma qualcosa non funziona.
Andiamo per ordine: sabato sono stato per la prima volta a Vinum, giunta nel frattempo alla trentottesima(!) edizione; il sottotitolo della manifestazione dice tutto: “Fiera Nazionale dei vini di Langhe e Roero”, e dovrebbe essere ben più che abbastanza, visto che sono poche le zone al mondo che possono vantare una concentrazione qualitativa e quantitativa così importante come quella presente in questi territori piemontesi.

Che dire poi di Alba? In quale altro paese scendi dall’auto e vieni avvolto dal profumo di cioccolata e nocciole a metterti di buon umore? E quale altra cittadina sarebbe in grado di non essere messa in ginocchio dalla presenza contemporanea di Vinum, del mercato settimanale e di una beatificazione nella piazza del Duomo? Alba è invasa di persone, ma riesce comunque in qualche modo a restare vivibile, a farti trovare parcheggio e a farti camminare senza essere travolto. Complimenti.

vinumDetto questo, Vinum mi ha lasciato parecchio perplesso. Vediamo perché.
All’ingresso della (bella e comoda) struttura dell’Ente Fiera del Tartufo, dopo aver raccolto una brochure molto ben fatta, si può acquistare un “Carnet Degustazioni del valore di 15 Euro che darà diritto a: calice in vetro e taschina porta bicchiere, 10 degustazioni tra cui: 7 per i grandi Rossi di Langhe e Roero, 2 per i bianchi del territorio, 1 per l’Asti Spumante o Moscato d’Asti DOCG”.
Sembra bello? Insomma…
Normalmente in questo genere di manifestazioni si paga all’ingresso e si degusta quello che si vuole, qui ai banchi di Barolo, Barbaresco (e mi pare anche Roero) vengono “bucate” due degustazioni per ogni assaggio. Significa che con 15 euro si ha diritto a soli tre assaggi di questi vini, e ne resta uno per i “minori” nebbiolo, barbera, freisa ecc.
E’ facile capire che, facendo un percorso di assaggio di buon impegno, visto che normalmente non ci si muove da casa per 3 o 4 degustazioni, si spende un capitale….

vinum2Ancora: i vini in degustazione sono molti, ma pochi i grandi nomi, e la cosa stupisce, visto che ci si trova nel cuore delle Langhe…
Pazienza, pensavo di consolarmi facendo una perlustrazione dei vitigni meno battuti, anche in questo caso ho avuto poco successo: ai banchi trovo solo tre Freisa e un (UNO!) Pelaverga!

Proseguiamo: esibendo la tessera AIS il carnet di degustazione viene via a 12 euro (invece che a 15). Peccato che l’acquisto contemporaneo del carnet + workshop del pomeriggio (“Menzioni Geografiche aggiuntive del Barbaresco”, relatore Giancarlo Montaldo), non è invece scontabile…

Concludo: il famigerato carnet di degustazione consente anche lo sconto per un aperitivo con “Alta Langa Metodo Classico” in alcuni bar convenzionati del centro storico. Bene: credo che il Consorzio dovrebbe assicurarsi che, come è accaduto nel mio caso, non venga servito un vino anonimo, chiaramente aperto non in gran forma (eufemismo…), con un triste contorno di cibarie di scarsa qualità.

vinum3Un appunto sullo workshop del pomeriggio: bella sala, luminosa, spaziosa, ottima visibilità e  acustica. Ottima e chiara introduzione al Barbaresco e alla storia delle Menzioni Geografiche Aggiuntive; peccato che di dette Menzioni non sia chiara l’utilità, visto che come spiegato chiaramente dal relatore non hanno attinenza con la qualità e non identificano neppure una caratteristica specifica, visto che all’interno della stessa Menzione, talvolta molto estesa, appartengono vigneti diversi, persino con esposizioni e terreni differenti…

Insomma, una manifestazione con luci ed ombre, a mio modesto parere riservata più ad un pubblico “casuale” che ad appassionati e professionisti del settore.

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La Trattoria della Posta a Monforte: elegante tradizione.

Sulla strada che esce da Monforte d’Alba, a poche centinaia di metri da Flavio Roddolo, c’è un ristorante che serve i visitatori della Langa da lungo tempo (il sito dice dal 1875); la Trattoria della Posta è ubicata in una villetta che sorge sul dorso di una collina, regalando quindi un invidiabile panorama ai clienti della sala da pranzo, e la famiglia Massolino ha arredato l’interno con sobria eleganza: tappeti, cassettoni e mobili in legno, un bel camino con accanto tanti libri da sfogliare… più che in un ristorante, sembra di far sosta nel salotto di una zia leggermente attempata ma facoltosa e di buon gusto.

Del resto quello che il visitatore chiede (o perlomeno, quello che io chiedo) ad un ristorante nelle Langhe è proprio questo: una cucina tradizionale, ben fatta, con materie prime di qualità, presentata con discreta eleganza, una proposta di vini adeguata al luogo, e un prezzo abbordabile.

Più o meno tutto quanto sopra è stato rispettato in questo mio primo appuntamento alla Trattoria della Posta, avvenuto un martedì a pranzo (mi aspettavo il deserto, e ho invece trovato una discreta presenza di turisti stranieri); come sempre in questi casi, mi affido al menu degustazione per due motivi: piatti “collaudati” e prezzo contenuto, e, se possibile, accompagno il tutto con un abbinamento al bicchiere. Accordato.

Poco da eccepire sul menu, con alcune punte di eccellenza (la cipolla al forno ripiena di Murazzano e salsiccia di Bra, molto saporita ma senza scivolare nel salato, e i tajarin al sugo di carne, delicatissimi); più deboli mi sono sembrati i dolci (buoni, per carità, ma un po’ “scolastici”), e, forse viziato da una moda imperante, mi sarebbe piaciuta una selezione di pane più varia.

Qualcosa da dire invece sui vini al bicchiere: un Arneis, una Barbera e un Barbaresco. Forse il problema è stato quello di aver frequentato il ristorante il martedì (immagino che il grosso del consumo, e quindi dello “stappo” avvenga dal venerdì fino alla domenica sera, quindi la mia selezione era potenzialmente aperta da qualche giorno), ma il risultato è che ho ricevuto almeno due bicchieri discutibili: al momento del servizio della Barbera ho annusato con un certo stupore il bicchiere, la proprietaria, vedendomi perplesso, si è accorta che qualcosa non andava prima che aprissi bocca e ha provveduto a stappare una nuova bottiglia (tra l’altro, menzione di merito per la meravigliosa Barbera di Rinaldi).
Il Barbaresco non era nelle stesse condizioni disastrose, ma comunque abbastanza “andato”, e avrebbe meritato pure lui la sostituzione: non l’ho chiesta, non mi piace farlo, quindi colpa mia.

Ecco, questo ultimo punto mi è sembrato particolarmente strano e fastidioso: un ristorante di ottimo livello, con un servizio attento e cortese (sono stato seguito dalla titolare e da una   giovane donna evidentemente preparata ed esperta), che si preoccupa persino di avvinare i bicchieri prima del servizio, credo abbia il dovere di annusare quello che porta in tavola e ritirare i prodotti non del tutto a posto senza che sia il cliente a doverlo chiedere.
Immagino siano molti i clienti che dalla cantina ben fornita e dai prezzi corretti, scelgono bottiglie di prestigio di costo non banale, e che nei loro confronti ci sia più attenzione, ma non mi pare comunque giusto.

In conclusione, a parte questa pecca relativa ai vini, mi sono trovato bene e ho speso il giusto in un locale che, oltre ad una buona cucina, ha dalla sua un panorama meraviglioso e una piacevole eleganza, non formale e stucchevole.

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Flavio Roddolo, ritratto di vignaiolo in Langa

E’ ora di distruggere quel briciolo di reputazione che mi resta e diventare definitivamente un eno-paria; confesso i miei peccati facendo coming out e dichiarandolo pubblicamente: a me, spesso, la mitizzata “visita in cantina” provoca una noia degna della visione coatta di un paio di puntate di Porta a Porta.

Ti emoziona vedere l’ennesima linea di imbottigliamento? Ti interessa davvero la lista dei materiali eco-compatibili con cui è stata costruita la cantina all’avanguardia di turno?
No, perché diciamolo: sovente la routine è: occhiata alla vigna (che avevi visto altrettanto bene prima di suonare il campanello), giro in cantina, banco di assaggio, acquisto. Fine, per fortuna.
Il tutto condito da qualche massima che già conoscevi, avendo letto tutto del produttore su varie guide e siti, e da molti sbadigli.

Vado oltre, e confesso anche di non avere il mito della campagna e dei bei vecchi tempi andati, dei quali sembrano nutrirsi molti appassionati di vino, magari mentre vanno in pellegrinaggio in Borgogna con l’aereo o con il SUV.
Mi spiego: nulla in contrario alla tradizione e ai suoi riti, ma non posso dimenticare che lo stato di natura dell’uomo è vivere (temo in modo non particolarmente piacevole) prima nelle grotte e poi sulle palafitte, dove non mi risulta fossero disponibili salotti con cantinetta termo-condizionata e umidificata per conservare bottiglie di Monfortino.
Insomma, la tanto bistrattata modernità direi che qualche progresso ce lo ha fatto fare: mio nonno, uomo mite e nato contadino, quando sentiva recitare il classico luogo comune “come si stava bene una volta in campagna, quando non avevamo niente”, si incazzava e rispondeva che la vecchia cascina era disponibile e potevano andarci quando volevano sul monte, senza corrente elettrica e senza acqua in casa, a soffrire il freddo e a sfamarsi con la polenta tutti i giorni.

Roddolo vigne 2Tutto questo lungo preambolo, che spero perdonerete, per dire che nei giorni scorsi sono stato da Flavio Roddolo, produttore di nicchia assai raccontato e mitizzato in certi ambienti (Scanzi in primis), e che quando mi avvicinavo da Monforte verso la Frazione Sant’Anna, Bricco Appiani, stavo cercando di far chiarezza nelle mie aspettative.
Avrei trovato l’ennesima declinazione del Contadino All’Antica con la tv satellitare? O del Vignaiolo Etico che ti racconta di come ama api e insetti nei filari?

Poco tempo per riflettere, appena metto piede fuori dall’auto sbuca fuori casa un omone barbuto, insospettito dal rumore di automobile; una stretta di mano frettolosa e mi chiede se voglio vedere la cantina (che poi sarebbero due: una, quella vecchia, un piccolo antro con ammassate alcune barrique e un paio di scaffali di bottiglie vecchie, e l’altra più grande e nuova, tanto umida da avere il pavimento praticamente zuppo e pericolosamente viscido).

Roddolo Cantina 3Le parole arrivano con parsimonia e sincerità; sono quelle con cui l’omone risponde alle domande: le barrique le ha sempre usate perché ha poca uva e a volte le botti grandi sono, appunto, troppo grandi ed è un problema, e le vecchie bottiglie le conserva in piedi perché le avevano messe via così, non pensando di conservarle per venti, trenta o quaranta anni, e insomma perché spostarle?
Una breve sosta all’aperto, dove mi mostra fin dove arrivano i suoi vigneti e poi, lamentandosi della temperatura che non gli consente di imbottigliare il dolcetto, entriamo in casa per assaggiare qualcosa.

Roddolo Cantina 1Così sorseggi, scaldandoti dal freddo di una giornata che appartiene più all’inverno che al mese di Aprile, davanti ad un signore dall’aria severa, che ti fa accomodare, ti serve bicchierate pantagrueliche del suo vino (senza raccontartelo: grazie a Dio non spende una parola su mineralità, acidità, terroir e lieviti), dimentica di porgerti il cestino con i grissini, e magicamente (ma tutto sommato non del tutto inaspettatamente) si mette a parlare di mille argomenti, come se infondo gli facesse quasi piacere averti in visita, e infatti ti tiene oltre due ore nelle quali ti getta dei frammenti di verità, raccontando di come, ai tempi di suo padre, al mosto si aggiungesse talvolta zucchero e/o sale, del rifiuto di andare alle varie manifestazioni (“sono stato tre o quattro volte al Vinitaly, me lo avevano chiesto degli amici, ma dopo qualche ora me ne sono andato. Adesso non vado più, ho troppo da fare.”), della passione per la caccia (trascurata), della difficoltà burocratiche e legislativa di poter assumere aiutanti e soprattutto, con un pizzico di commozione, delle tre bottiglie di dolcetto del ’67 che ha ritrovato recentemente (forse il suo primo vino; una dice di averla stappata da poco e di essersi stupefatto trovandolo ancora perfetto).

Ancora, si apre senza problemi raccontando del perché delle vigne di cabernet (“negli anni ’90 lo volevano tutti”), della assurdità della moda con cui si insiste sulla solforosa, mentre magari si assaggiano in batteria 100 vini, e invece il vino è fatto per essere bevuto poco e durante i pasti, altrimenti fa male, e delle repentine conversioni al biologico di tanti colleghi, avvenute in cinque minuti, mentre lui per eliminare gli insetticidi ci ha messo anni.

Prima di congedarti, ti offre un bicchiere di bianco da uva Favorita che ha fatto per lui,  dice che lo ha lasciato in damigiana per 10 anni(!) (“continuava a fermentare, lo ho lasciato andare e poi l’ho dimenticato”) e lo ha imbottigliato da poco, dopo averlo portato ad analizzare per curiosità.
Ovviamente è meraviglioso: oro, aromatico, caldo, fresco, pieno, mi ricorda alcuni importanti friulani, e solo in questo momento, per un attimo, pensi che forse ti stia prendendo in giro, che non è possibile, e che forse ti ha ingannato con una recita ben architettata; poi lo vedi con quella faccia, dura ma gentile e tranquilla, e passa subito.

Comperi le tue due cassette di vino, paghi e te ne vai a pranzare, che è quasi l’una. Tornerai tra 10 minuti perché hai dimenticato la macchina fotografica: dovrai suonare a lungo e verrà ad aprirti in tuta da lavoro: “Come, non mangia?”. Risposta: “Eh, c’è da fare”.

Roddolo vigne 1Ah, I vini?
Fate voi, non ho certo tirato fuori il libricino per prendere appunti, mi sarei sentito oltremodo ridicolo e imbarazzato; ad ogni modo, sarà stata la suggestione della Langa e del personaggio, ma mi sono sembrati tutti speciali, dal Dolcetto superiore (senza dubbio il dolcetto più piacevole e particolare mai assaggiato, pur restando invidiabilmente austero), passando per la ricca freschezza della Barbera e per uno stupefacente Nebbiolo, sicuramente ben superiore a tanti Baroli rinomati e di ben altro prezzo, per finire con il Barolo (che, pur implorandoti di esser messo via per altri dieci anni, è già godibile fin d’ora) e con il Cabernet (di grande spessore e complessità, dal quale emerge un varietale netto ma non stucchevole).

La prima conclusione è che Roddolo non è un sofisticato gentiluomo di campagna o un vignaiolo furbamente affabulatore, semplicemente è un contadino che sembra davvero amante della sua campagna e che ci tiene a fare un buon vino, e l’unico metodo che considera adatto per produrre le sue ventimila bottiglie l’anno è quello che ha visto usare da suo padre.

La seconda conclusione è che confesso un leggero moto di imbarazzo nello scrivere queste righe: cosa c’è di più distante della moderna vanità di un blog personale dalla imperturbabile semplicità di un vignaiolo che ancora possiede un vecchio telefono, di quelli della SIP, grigi e con la rotella per selezionare i numeri?

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