Cheap Thrills n.3: Greco di Tufo, Cantine dell’Angelo

Saltellando tra Nord e Sud, dopo Alsazia e Sicilia, per Cheap Thrills è il momento di fermarsi in Campania.

Greco di TufoL’azienda Cantine dell’Angelo, situata, è facile intuirlo, a Tufo (provincia di Avellino), è condotta da Angelo Muto, la cui famiglia produce vino da diverse generazioni ma che solo recentemente ha deciso di vinificare in proprio, peraltro ottenendo subito soddisfazioni e riconoscimenti con il Greco di Tufo.

La particolarità dei cinque ettari di vigneto è di crescere a circa 400 metri di altezza (quindi subendo decise escursioni termiche) sul suolo di una vecchia miniera di zolfo, cosa che molto probabilmente incide in maniera evidente sul profilo sensoriale, nettamente minerale, delle circa 18.000 bottiglie di vino prodotte ogni anno; la raccolta delle uve è manuale, data la pendenza del terreno, e la vinificazione è effettuata in acciaio.

Denominazione: Greco di Tufo DOCG
Vino: Greco di Tufo
Azienda: Cantine dell’Angelo
Anno: 2010
Prezzo: 14,5 euro

Francesca

  Marco
L’assaggio di questo mese vede protagonista il Greco di Tufo Cantine dell’Angelo.

Nel bicchiere un bel giallo paglierino invita subito all’assaggio ed evoca il sole che abbraccia questi vigneti e la sua terra.
Al primo naso una nota minerale spicca per franchezza e intensità, va a completare il bouquet dei profumi non troppo ampio ma fine un piacevole sentore fruttato. La mineralità tipica del vitigno è sicuramente rafforzata dalla composizione del terreno che è particolarmente ricco di zolfo, e che fa sentire la sua presenza nel bicchiere declinando in profumi che vanno dalla pietra focaia all’idrocarburo.

All’assaggio mi rendo conto della buona struttura di questo Greco di Tufo. Equilibrio sensoriale ben tenuto tra sapidità e freschezza, ottima anche la pai (persistenza aromatica intensa) che non lascia la bocca prima di diversi secondi regalando un finale lungo.

La freschezza il buon equilibrio e la sapidità ne fanno un vino assolutamente tipico.

Nel bicchiere è bello da vedere, con un giallo paglierino quasi dorato, intenso, e di buona consistenza.
Al naso delude leggermente: è poco intenso e non particolarmente complesso: domina il minerale, anche lievemente affumicato, con fiore e frutto poco presenti; in fondo scorgo un leggero vegetale (erbaceo) non del tutto a registro.
Entra in bocca bene, pieno, caldo e decisamente sapido e all’assaggio emergono sensazioni pietrose e di pompelmo; purtroppo la parte centrale del sorso è un po’ vuota, come se le durezze non fossero supportate completamente dal corpo.
Si beve comunque con facilità, l’alcol è ben mascherato e il calore si amalgama convinto con sapidità e acidità, che restano decisamente preponderanti.
La chiusura è leggermente amarognola e il finale è abbastanza lungo: direi che nel complesso il sorso è intenso e piacevole.
Lo definirei tranquillamente pronto, anche perché un certo squilibrio verso le durezze (che, temo, col tempo potrebbero attenuarsi) è motivo della sua caratteristica piacevolezza.

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Oslavje 1997, Radikon: sapida naturalità

Denominazione: DOC Collio
Vino: Oslavje
Azienda: Radikon
Anno: 1997
Prezzo: 30 euro

radikonOggi che è di moda parlare di vino naturale, biologico, biodinamico eccetera, sorge il sospetto che molti produttori che si avvicinano a queste metodologie lo facciano non tanto per convinzione, quanto per il (legittimo, per carità) intento commerciale di cavalcare l’onda.
Di certo, quanto sopra non si può neppure lontanamente immaginare per una azienda come Radikon, che già dal 1995 ha deciso di radicalizzare il proprio metodo lavorativo sia in vigna che in cantina: ecco dunque il rifiuto di concimi chimici, rese bassissime nel vigneto, vendemmia manuale, fermentazione con soli lieviti autoctoni e senza controllo della temperatura, macerazioni molto lunghe (anche per i vini bianchi), nessuna filtrazione e nessuna aggiunta di solforosa; su questa base, Stanislao Radikon ha poi modificato e affinato il processo, ad esempio variando anche notevolmente il tempo di permanenza sulle bucce.

Ne risultano vini certamente particolari e senza compromessi, che se oggi, dopo anni di discussione e di allenamento ai “vini naturali”, possono forse essere compresi con relativa facilità, immagino dovessero essere un bel rebus per il consumatore di quindici anni fa.

Mi sono quindi approcciato con estrema curiosità a questo Oslavje 1997, un uvaggio di Pinot Grigio, Chardonnay e Sauvignon: in sostanza, ho bevuto un vino bianco vecchio di quindici anni, prodotto senza un grammo di solforosa aggiunta.

Ok, ma alla fine come è questo vino?
Visivamente, è giallo dorato quasi ambra, di una certa densità.
Olfattivamente trovo miele, fichi, frutta secca, smalto, vernice e una leggera volatile; certo ci sono grandi complessità e intensità. e gli aromi cambiano con il passare dei minuti, avvicinandosi ora più al terziario (etereo), ora più alla albicocca disidratata, e poi tirando fuori anche qualche timido accenno floreale e di incenso.

In bocca entra secchissimo, curiosamente liscio e fluido (mi aspettavo un sorso decisamente più pieno), poi avvolge con calore e spiazza: data la volatile avvertibile al naso immaginavo una forte acidità, mentre invece le parti dure sono date principalmente dalla enorme sapidità; scendendo in gola traccia con il calore, poi è lunghissimo e lascia salivare la bocca per minuti a causa della sapidità.

Alla fine, mi piace?
Sì, intriga e lascia la voglia di poter affrontare una verticale di varie annate, che immagino sarebbe interessantissima.
Posso parlare di un prodotto estremamente personale e sicuramente diverso dalla maggior parte delle bevute “normali”, che divide e spiazza, e che forse risulta “difficile” non tanto nella degustazione, quanto per la complessità di abbinamento: viene da pensare che si tratti di un vino da bere da solo, o al massimo da abbinare a formaggi stagionati.

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Chablis Chateau de Viviers 2011, Lupé Cholet

Denominazione: Chablis
Vino: Château de Viviers
Azienda: Lupé Cholet
Anno: 2011
Prezzo: circa 20 euro

Sarò telegrafico: conosco poco o nulla della azienda, se non quello che vedo sul sito (si dichiarano vendemmia meccanizzata e vinificazione in acciaio con controllo della temperatura).
Il vino lo avevo comperato questa estate in Borgogna dopo un assaggio particolarmente piacevole, soprattutto per me che non sono un grande conoscitore e amante dello Chablis.
Ne avevo prese due bottiglie, e quella bevuta qualche mese fa non mi aveva affatto soddisfatto; stasera ho riprovato con la seconda e anche stavolta ho seri dubbi.

Colore poco pronunciato, giallo molto tendente al verdolino, si sente però una certa consistenza facendolo roteare.
Olfattivo abbastanza intenso, citrino, di agrumi e di frutta acerba in genere, un tocco di anice e una percettibile mineralità (gesso?). Naso elegante, direi che è la fase migliore di questo vino.
Ingresso in bocca freschissimo, grazie ad acidità quasi tagliente, poi mineralità, ma in chiusura arriva un sentore verde (erba falciata) troppo percettibile.
Non male la lunghezza.

Alla bevuta odierna sembra un vino magari piacevole (se servito a bassa temperatura come aperitivo), ma decisamente troppo giovane, e la cosa è curiosa in quanto non si tratta di un 1er Cru o di un Grand Cru, ma di un prodotto tutto sommato abbastanza semplice, che il produttore stesso dichiara adatto ad un invecchiamento massimo di 3-5 anni.

Resta da capire cosa diavolo avessi sentito quando lo ho assaggiato in Francia…

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Entropia sovrana: breve addendum

Evviva: non siamo soli!
Talvolta pare di essere dei marziani buzzurri e si rischia di far la figura dei fessi, quando si critica l’oggettività delle degustazioni seriali imbocca-e-sputa, così come quando si vuole mettere un freno alla ridda dei descrittori psichedelici sparati a mitraglia durante le esibizioni pubbliche di qualche super-sommelier…
Poi, invece, capita che leggi le parole di qualcuno che della materia ha fatto una professione e che cita, condividendolo, il pensiero di un grande tecnico del vino che riconosce i limiti dell’approccio in batteria:

“Imboccare una piccola frazione di vino, emettendo il solito repertorio di gorgoglii, risucchi, suoni di scarico, sciacquettando il liquido tra una guancia e l’altra, infine espellendolo fino all’ultima goccia, “è un’operazione artificiale”, secondo le parole di Dubourdieu, “e non offre la possibilità di capirne fino in fondo la reale qualità”.

Poi, è chiaro: se vuoi editare una Guida non hai altra scelta, e persone di grande esperienza di sicuro traggono comunque valide indicazioni da un simile approccio, ma da qui a teorizzarne uno strumento di misura oggettivo, beh, ne corre.

Un grazie alla sincerità di Fabio Rizzari.

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Tappo a vite VS sughero: altre impressioni

Curioso: scrivo alcune note di degustazione su alcuni vini appena assaggiati in comparazione vite / sughero, e dopo pochi istanti vedo un post del sommo Masnaghetti / Enogea che parla di una situazione analoga, e mi pare con risultati comparabili.

Rilancio qui quanto scritto a suo tempo

Sarebbe bello avere più spesso queste occasioni di assaggio, in modo da poter confutare o confermare certezze antiche, spesso fondate solo sulla tradizione.

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Unterortl: uno sguardo alla gamma

La settimana scorsa, grazie ad un incontro nella solita Cantina du Pusu, ho avuto la possibilità di esplorare più o meno l’intera gamma di vini della Unterortl, azienda altoatesina di proprietà dell’alpinista Messner ma in gestione a Gisela e Martin Aurich.

L’azienda dispone di poco più di cinque ettari attorno al colle Juval, compresi tra 600 e 800 metri di altitudine, costantemente asciugati dal vento caldo (föhn). I vitigni coltivati sono quelli tipici del nord: Müller Thurgau, Pinot Bianco, Riesling, Pinot Nero, con bassissime rese per ettaro, vinificati in acciaio o legno a seconda della tipologia, e comunque utilizzando lieviti autoctoni.

In degustazione:

  • Müller Thurgau 2012
  • Müller Thurgau 2011
  • Pinot Bianco 2012
  • Pinot Bianco 2011
  • Riesling 2011
  • Riesling 2009
  • Riesling Windbichel 2011
  • Riesling Windbichel 2010
  • Riesling Windbichel 2009
  • Riesling Windbichel 2008
  • Pinot Nero 2010
  • Pinot Nero 2009 (tappo a vite)
  • Pinot Nero 2009 (tappo in sughero)
  • Pinot Nero 2006 (tappo a vite)
  • Pinot Nero 2006 (tappo in sughero)
  • Riesling Spielerei 2008

Qualche impressione veloce: decisamente troppo giovani il Müller Thurgau e il Pinot Bianco 2012 (che difatti sono stati appena imbottigliati e non sono ancora in commercio), piacevolmente freschi e profumati i loro corrispettivi 2011: vini magari non particolarmente complessi ma facili e piacevoli da bere, danno l’idea di essere ottimi prodotti da aperitivo.

A mio modo di vedere, troppo giovani anche i Riesling 2011 e 2010, sia il prodotto “base” che il più prestigioso cru Windbichel (un vigneto ripido ed esposto a circa 750 mt di altitudine). Molto più profondo e complesso il Windbichel 2009, che tira fuori un bel carattere pietroso frammisto a pesca e pompelmo.

Curioso il Windbichel 2008, che a quanto ho capito è stato necessario declassare a IGT a causa del residuo zuccherino fuori disciplinare al termine della fermentazione: grazie a quella dolcezza più che significativa (ma ben bilanciata dalle durezze) è sembrato il più “tedesco” e il più personale della batteria.

In generale, da amante dei riesling tedeschi, ho potuto notare una netta differenza tra questi prodotti e i classici provenienti da Mosella e dintorni: alla vista il colore è decisamente più scarico e la consistenza è minore, di contro la gradazione è superiore (quasi tutti mi pare fossero sui 13.5) e, a parte il 2008, gli zuccheri residui sono bassissimi, da trocken e oltre. Anche la acidità mi è sembrata meno marcata, ma di contro c’è maggiore sapidità.
In sostanza, sono prodotti ben differenti.

Molto bene i Pinot Nero: giovane e di buone prospettiva il 2010, e estremamente interessanti i confronti vite / sughero delle due annate 2009 e 2006. La  base comune è di piccoli frutti di bosco e di una bella speziatura, che nel millesimo più vecchio si infittisce.
La diversità vite / sughero, già sensibile nel 2010, è netta nel 2006: più vivace ed esplosiva al naso la bottiglia con chiusura Stelvin, più note terrose e fungine nella tappatura “classica”. Personalmente ho preferito la versione a vite, che oltretutto sembra far presagire un invecchiamento superiore.

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Pils Birra del Bracco

In questi tempi di grande fermento per quanto riguarda il fenomeno della cosiddetta “birra artigianale” italiana (metto le virgolette, visto che la definizione, a mio modo di vedere ha davvero poco senso), la Liguria non si è distinta per vitalità.

A parte una pletora di piccoli nomi che non è chiaro se siano effettivamente in attività (e che quando producono hanno spesso una qualità discutibile), sopravvivono gli storici Busalla, Scarampola e del Golfo, che non sono mai riusciti a (o non hanno mai avuto voglia di) fare il salto verso una produzione quantitativamente superiore e con una distribuzione più capillare. Oltre a questi, troviamo l’abbastanza recente Superba, il “tedesco” Leo e quel Maltus Faber, che per la combinata di visibilità , qualità, costanza e reperibilità, ritengo il portabandiera regionale.

Pils Birra del BraccoDa circa un anno e mezzo, molto in sordina, è spuntato un nuovo birrificio, davvero micro: Birra del Bracco. Il nome deriva evidentemente dalla ubicazione geografica della piccola azienda: il Passo del Bracco è un montagnoso tratto di via Aurelia ricco di tornanti che collega la provincia di Genova e quella di La Spezia, noto per essere da sempre meta di appassionati motociclisti.

Conosco poco o nulla del birrificio, mai avvistato nella varie manifestazioni a tema e per nulla chiacchierato nel giro degli appassionati. Vedo sul sito che è legato ad una azienda agricola condotta part-time, che ha un impianto che sembra davvero poco più di una postazione da homebrewer e che produce tre tipologie di ispirazione tedesca (dagli autoesplicativi e poco fantasiosi nomi Pils, Bock e Weiss); la particolarità che viene dichiarata è la coltivazione autonoma di orzo e di luppolo, anche se non è chiaro in quale quantità e comunque suppongo non tanto da rendere il birrificio autosufficiente.

Date le premesse mi sono sorpreso e incuriosito quando nel pub sotto casa ho trovato disponibilità della loro Pils, che ovviamente non mi sono fatto sfuggire.
Bottiglia ed etichetta rusticamente molto homebrewer, ma non è un problema, così come l’aspetto, giallo decisamente opalescente. Schiuma discreta, sia come quantità che come compattezza e durata.

Le riserve arrivano invece al naso: da una pils, per la quale oltretutto si dichiara il dry hopping, mi aspetto un bell’aroma luppolato, invece non c’è molto da annusare, sia quantitativamente (intensità davvero debole), sia qualitativamente (poco da segnalare, se non appunto un lieve erbaceo).
In bocca il corpo è leggerino e l’amaro è poco pervenuto; in aggiunta, appena accennato, un sentore di miele ben poco deciso e persistente. Poi, nulla di altro.

Certo, la tipologia è difficile: una buona pils non bastona con gli effetti speciali pirotecnici che vanno di moda oggi (amaro estremo, tostature micidiali o acidità taglienti), ma deve saper ricamare un equilibrio lieve ed elegante di mielato ed erbaceo, e questa Pils, pur lodevolmente pulita negli aromi (e non è poco), manca purtroppo di personalità, scivolando via senza infamia e senza lode.
In definitiva la birra sembra spenta, poco vivace (in senso metaforico, non certo per mancanza di carbonica): in questi casi si parla genericamente di “bottiglia sfortunata”…

Non incoraggia neppure la parte economica: non ho idea del costo nel beershop (anche perché non so se sia in vendita al dettaglio), ma al pub la bottiglia da 0,5 è stata pagata 7 euro.

Sarebbe interessante una visita al birrificio per poter testare la produzione “fresca” e capire la filosofia dei titolari, purtroppo l’ubicazione non facilita. Chissà, magari in primavera…

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Di scontrini, ricevute, fatture e anonimato: la critica credibile non ci mette la faccia

Ne ha parlato recentemente Enofaber, e quelli come noi che hanno uno spazietto su internet nel quale si divertono a scrivere qualche impressione su vino e cucina conoscono il fenomeno: appena hai qualche articolo e qualche lettore (ma ne bastano davvero pochi), ti arriva una mail a proporre il famigerato “sponsored post”, ossia qualcuno che chiede di parlare (bene) del suo prodotto in cambio di spiccioli.

La risposta ovvia è “no, grazie”, perché lo scopo originale del sito è diverso; fuori di ipocrisia, è chiaro che se il conquibus proposto fosse esponenzialmente superiore si potrebbe pensare di trasformare il blog in un prodotto editoriale: non ci sarebbe nulla di male ma si tratterebbe di una cosa diversa.
Così come non ci sarebbe nulla di male se qualcuno di noi piccoli peones della tastiera decidesse di pubblicarli, questi benedetti post sponsorizzati: l’importante sarebbe mantenere ben chiara la distinzione tra contenuti a pagamento e riflessioni personali.
Del resto su questo spazio (e su molti altri) già vige la consuetudine di esplicitare quanto paghiamo ogni bottiglia e di dichiarare i regali.

Non è solo una questione puramente formale (che comunque ritengo doverosa nei confronti del lettore): è che, in barba ad ogni pretesa di oggettività, sono profondamente convinto che la mia “piacevolezza percepita” sia inevitabilmente modificata dalla eventualità di un omaggio.

Il ragionamento, di per sé risibile per la sua prospettiva minuscola, ci consente di estendere lo sguardo alla critica enogastronomica nel complesso e di riflettere sulla sua credibilità.
Estremizzando, ritengo che in una ipotetica equazione capace di determinare matematicamente la qualità e la piacevolezza di un vino (o di una cena), nell’elenco delle variabili dovrebbe entrare (oltre al prezzo pagato) anche il reddito del degustatore.
Mi spiego: escludiamo pure malafede e recensioni comperate, ma è così irreale pensare che se io vado a mangiare da Bottura (investendo un terzo del mio stipendio mensile e quindi potendomelo permettere forse una volta l’anno), avrò aspettative e idee di perfezione ben diverse da chi si siede a certi tavoli una volta la settimana, addirittura a fine serata non apre il portafogli e comunque gode di attenzioni riservate ai volti ben noti dei recensori famosi e conosciuti nell’ambiente (la portata fuori carta, il servizio certamente puntuale eccetera)?

Capisco che chiedere la dichiarazione dei redditi sia troppo, ma perlomeno, cari professionisti e semi-pro, siate trasparenti e ditemi chi paga; scrivetelo chiaro (e magari pubblicate la foto dello scontrino o della fattura) se la bottiglia in questione è arrivata in omaggio, la ha pagata la casa editrice o avete tirato fuori i quattrini di tasca vostra.
Semplicemente, ditemelo quando sniffate il vino da 250 euro, e poi io farò la tara che ritengo opportuna alle vostre mirabolanti degustazioni da punteggio 95 e superiore (immancabilmente definite “commoventi” o “da lacrima”).

Mi interesserebbe sapere se una azienda che vuole promozionare una certa bottiglia, ha invitato il recensore sul posto e ha pagato viaggio, albergo e cena… mica per altro: temo che l’indulgenza al giudizio favorevole sia decisamente inferiore nel caso di prodotto comperato dall’enotecaro scorbutico a 80 euri (risparmiati bastonando con decisione la moglie che voleva investire il tesoretto in un nuovo taglio di capelli) e portato a casa facendo a cacciavitate nel traffico.

E’ curioso che tra molti di noi bloggers dilettanti ci si diano regole ben più severe di quelle seguite dai “professionisti” (che, ricordiamolo, sono coloro che mangiano e bevono per mestiere, e da questa attività traggono profitto): noi paghiamo le bottiglie, paghiamo la benzina o il treno per andare alle manifestazioni, paghiamo l’eventuale pernottamento, paghiamo le cene, dichiariamo quando ci regalano un vino da 15 euro al pubblico e ci indigniamo pubblicamente quando ci propongono lo sponsored post. E i professionisti?

E’ ingenuo domandarsi come mai a fronte di un solo Valerio Visintin, l’unico critico gastronomico “invisibile” di cui nessuno conosce le fattezze, ci sia uno stuolo di recensori che danno del tu ai cuochi? Ed è così folle chiedersi come mai i suoi colleghi “con la faccia” non amino granché l’anonimato?

Un paradosso: professionisti della critica enogastronomica, non metteteci la faccia ma il portafogli.

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Cheap Thrills n.2: Frappato 2011, COS

Secondo incontro con le recensioni di vini al tempo della crisi e dall’Alsazia del primo appuntamento ci spostiamo in Italia, nella Sicilia sud-orientale, con un salto ideale di oltre 1800 chilometri,
Il produttore è la Azienda Agricola COS (dalle iniziali dei tre soci fondatori), esistente dal 1980, condotta con un certo piglio contemporaneo (ad esempio regime biodinamico, uso di anfore e coltivazione di vitigni autoctoni con concessioni agli internazionali in una sola referenza) e il cui vino simbolo è sicuramente il Cerasuolo di Vittoria.

frappato COSIl vino che abbiamo scelto di assaggiare è un nome magari meno importante del Cerasuolo (unica DOCG regionale), ma molto celebrato sulle varie guide e nel passaparola degli appassionati: il Frappato, millesimo 2011.

I dati tecnici: uva Frappato al 100% coltivata a circa 250 metri sul livello del mare con ridotta resa per ettaro (circa 50 quintali), fermentazione in vasche di vetrocemento e affinamento in cantina di 12 mesi.

Denominazione: Sicilia IGT
Vino: Frappato
Azienda: COS
Anno: 2011
Prezzo: 12 euro

Francesca

Marco

Eccoci al nostro secondo appuntamento, ammetto che questo vino è stato un po’ un rompicapo.

Il mio assaggio è iniziato saltando una fase importante, che in gergo tecnico viene chiamato esame visivo, e che a volte per la curiosità decido di mettere in secondo piano rispetto all’esame olfattivo.
Sono rimasta sorpresa e un po’ spiazzata, perché effettivamente la nota che mi è saltata al naso era balsamica e di spezie, profumi che fanno pensare a un vino evoluto. Ho riletto l’etichetta credendo di essermi sbagliata ma effettivamente l’anno riportato è il 2011.

Provo a ricominciare, e questa volta non tralascio l’esame visivo, quello che è nel bicchiere è un bel rosso rubino che effettivamente conferma la giovane età. Prima annusata (olfazione sarebbe il termine tecnico) e sento che la nota balsamica è andata via lasciando il posto a una spezia che stento un po’ a riconoscere.
Pensa, annusa, pensa, annusa, ecco si accende la lampadina giusta: è senape, un buonissimo profumo di senape, che a me solitamente non piace ma che ho apprezzato molto in questo vino perché non è esasperata. In un secondo tempo arriva anche una nota di frutta rossa sotto spirito.

All’assaggio ritornano tutti i profumi e con piacere dico che il vino ha davvero un ottimo equilibrio, la speziatura non è troppo invadente ed è supportata da una buona struttura.
A chiudere l’ultimo sorso è un tannino appena accennato che accarezza il palato lasciandolo pulito. Capita spesso di bere vini buoni e fatti bene, ma che non sono proprio immediati, per quello che mi riguarda posso dire che questo sia uno di quelli che lascia un impronta facilmente riconoscibile.

Complimenti all’azienda agricola Cos.

Non mi piace parlare male di un vino, in particolare se è il prodotto di un artigiano o comunque di una piccola azienda: in ogni caso in una bottiglia ci sono un anno o più di lavoro e di fatica e ci sono gli investimenti in denaro e in emozione di persone che fanno un lavoro che ha la caratteristica di una aleatorietà estremamente elevata: basta una grandinata al momento sbagliato per gettare al vento un intero raccolto.

Detto questo, io sono un consumatore e come tale sento il diritto di esprimere una opinione non positiva, ovviamente motivandola; in più la formula delle recensioni doppie mi consente di mitigare il timore di affossare un prodotto solo sulla base della classica “bottiglia sbagliata”.

Al dunque: nel bicchiere è rosso rubino con accenni porpora, segno di  bella giovinezza e vitalità, ed molto fluido. Fino a qui tutto bene: corrisponde al vino che avevo immaginato.

I problemi iniziano all’olfattivo: c’è una nota dominante di rosmarino decisamente  troppo invadente e del tutto monocorde, se non fosse per un accenno di ferrosità e persino di medicinale. Insomma, un naso del tutto sgraziato.
Provo ad assaggiarlo, ma le sensazioni dominanti sono esattamente le stesse: davvero difficile proseguire, per questo decido di lasciarlo riposare  aperto e rimando il tutto al giorno successivo.

Secondo tentativo: la situazione è migliorata, nel senso che la sgradevolezza olfattiva è quasi del tutto scomparsa, ma resta sempre solo il rosmarino troppo carico e poco altro, se non un ribes grossolano.

L’assaggio scivola via molto semplice, senza particolari rivelazioni se non gli echi di quanto avvertito con il naso. C’è freschezza, un tannino lievissimo, poca sensazione alcolica e persistenza corta.

Davvero, non mi sento di scrivere granché altro: non posso credere che questo sia il “vero” Frappato, mi pare evidente di essermi imbattuto in una bottiglia poco felice, e me lo conferma la lettura di quanto scritto qui accanto da Francesca.

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Sestri Les Vins: ben fatto!

Sestri-Les-VinsPoco da dire su una manifestazione vinicola quasi sotto casa, ben organizzata, comoda da raggiungere sia in auto che in treno e con tanti bei nomi presenti: più varia di Vinidamare (imbattibile per annusare il dettaglio della situazione ligure, ma sofferente di cronici problemi organizzativi), più raccolta del pregevole Terroir Vino, meno settoriale dei vari Critical Wine.

Peccato per la pioggia battente e il clima gelido, perché l’ubicazione era perfetta per permettere di alternare assaggi e minuti di riposo in riva al mare, nella Baia del Silenzio: uscire all’aperto era davvero impraticabile e di questo ha risentito lo spazio interno alla manifestazione, che in alcuni momenti risultava intasato.

Apprezzabili: l’ingresso contenuto a 10 euro (5 per i soci AIS), la grande quantità di pane disponibile ai banchi di assaggio, le sputacchiere svuotate con buona solerzia.
Meno apprezzabili (ma sono dettagli): il pieghevole con l’elenco dei produttori non riportava l’elenco dei vini e la mappa dei banchi di esposizione, e mancava un guardaroba all’ingresso (in una giornata in cui tutti avevano ombrelli, sciarpe, cappelli sarebbe stato davvero comodo).

Da segnalare la presenza costante e amichevole di membri della famiglia Maule: li ho visti parlare cortesemente e sorridere con tutti non solo al loro stand ma in tutti gli angoli della manifestazione.

A parte la lista dei produttori (tutti del giro Vinnatur e di buon livello), una delle cose belle di un evento del genere organizzato vicino a casa è che gironzoli per le sale e incontri una valanga di persone che conosci: chi di vista, chi più approfonditamente, e il risultato è una atmosfera decisamente allegra e familiare.

Al solito, evito l’elenco puntuale degli assaggi, ché ne risulterebbe una lista lunga e noiosa. Solo un accenno per un paio di produttori che non conoscevo e che ho trovato sicuramente interessanti.

Spendo qualche parola in più la Azienda Agricola Casale: il vulcanico patron ci ha fatto assaggiare tutto e di più, da una serie di Trebbiano declinati in varie annate e varie macerazioni (tutte piacevolmente ben fatte e non eccessive), ai suoi Sangiovese estremamente rigorosi ed eleganti anche quando il frutto esuberava in marmellata al naso (in particolare l’annata 2000), per finire con un monumentale Vin Santo (ricco di ricordi, dai fichi alla salamoia) che ha attaccato i suoi aromi al bicchiere in maniera così previcace da richiedere svariati lavaggi. Grande azienda.

Altri assaggi sparsi: la piacevolissima e profumatissima malvasia lievemente macerata del Quarticello, la fresca e sapida ribolla di Kristancic, la Garganega Vecchie Vigne di Davide Spillare, un piccolo e giovane produttore ubicato a due passi dalla azienda di Maule e del tutto confrontabile come prodotto.

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