La Pierre de la Justice: 1er Cru abbordabile

Denominazione: Champagne
Vino: La Pierre de la Justice
Azienda: Laherte Frères
Anno: – (cuvée)
Prezzo: 35 euro

la-pierre-de-la-justiceUno champagne 1er Cru a meno di quaranta euro non è impossibile da trovare, ma certo non capita tutti i giorni.

Questo Blanc de Blancs “La Pierre de la Justice”, prodotto a Voipreux, al centro della Cotes des Blancs dalla azienda Laherte (da tempo a conduzione biodinamica, circa 70.000 bottiglie l’anno), proviene da una parcella del 1961 con rese necessariamente basse, vinificazione esclusivamente in acciaio, assemblaggio di vini con un 30% di vini di riserva e svolgimento della malolattica.

Ne risulta un vino dal colore tra paglierino e dorato, con bolla molto fine, non particolarmente numerosa e non troppo aggressiva.
Il naso è di mela verde e agrumi, limone e lievito (pasticceria); se lasciato nel bicchiere per alcuni minuti migliora, perdendo spigolosità e arricchendosi di intensità e complessità (ad esempio arriva una punta di anice).

In bocca parte leggero, quasi sfuggente, poi il corpo prende vita fino ad una media robustezza e chiude con forza, ricco di acidità e sapidità, ma senza squilibrio in favore delle durezze (immagino che la malolattica ci abbia messo del suo); le sensazioni olfattive sono confermate, accentuando forse troppo il limone ma aggiungendo una discreta mineralità. Peccato un minimo accenno di sensazione amara alla base della lingua.
Il dosaggio dichiarato è di 6-7 g/l, in effetti davvero poco avvertibile. Finale ben lungo.

Degno di nota, sul retro etichetta è riportata la data di sboccatura: nel mio caso (3/2011) non recentissima, e forse il vino avrebbe potuto essere anche migliore. Buttateci un occhio in caso di acquisto.

Anche se normalmente si pensa più ai Blanc de Noir per il pasto, trovo che “La Pierre de la Justice”, grazie al buon compromesso fra corpo, complessità e freschezza, sia adatto non solo ad antipasti ma anche a pietanze di discreta importanza.

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MUNJEBEL BIANCO

Questo è uno di quei vini che io classifico nella categoria “per appassionati del genere” già nel versare il primo bicchiere si torna un po’ indietro nel tempo. Il colore mi ha ricordato il vino che faceva mio nonno, che non vuol dire vecchio ma tradizionale e naturale.

Munjebel Negli anni e con il perfezionarsi delle tecniche della vinificazione si è arrivati ad avere prodotti perfetti per quello che riguarda la limpidezza il colore e i profumi, forse rendendo un po’ pigro il nostro palato. Assaggiandolo mi sono resa conto che gli stessi parametri che si usano per classificare i vini “tradizionali” non rendono merito a questo tipo di vino. Non vi nascondo che non è stato facile.
Mi ha colpito subito la presenza di un po’ di fondo già al terzo bicchiere, i colori vanno dal giallo carico all aranciato pur essendo del 2010 per quello che riguarda i profumi si riconosce subito una nota di frutta matura ( non faccio elenchi noiosi e bizzarri) e poco dopo arriva una nota che io definisco vinosa.

In bocca il vino si apre e da il meglio di se: si aggiungono ai profumi una nota minerale e una spiccata sapidità che contrasta una buona morbidezza, mi sembra che sia ossidato.
Nel cercare di capire qualche cosa di più del vino che ho nel bicchiere mi sono informata; il produttore  si chiama Frank Cornelissen coltiva 8,5 ettari di terreno vitato  in modo del tutto naturale, ne biologico o biodinamico con una resa di 300g per pianta. La vendemmia viene fatta tra metà ottobre e metà novembre le uve vengono poi lasciate fermentare in giare di terracotta da 150-400 litri.
La macerazione sulle bucce dura da 4 a 7 mesi prima di essere imbottigliato. Lo stesso procedimento viene usato sia per la vinificazione in bianco che quella in rosso.

Leggendo queste tecniche adottate da questo viticoltore davvero ci si rende conto che i termini codificati non sono un vestito su misura per questo tipo di vino. Ultime note tecniche: il vino è un assemblaggio di Grecanico dorato Coda di volpe Caricante e Cataratto, dall az agricola di Frank Cornelissen ai piedi dell Etna.

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Hermitage Le Pied de la Cote 1998, Jaboulet

Le Pied de la Cote

Uno dei motivi interessanti nell’essere appassionati di vino è che non importa quanto sai o pensi di saperne: la bottiglia sarà sempre diversa ed è possibile che ti riserverà comunque qualche sorpresa. Ho usato il termine “interessante” e non “entusiasmante” non a caso, infatti non sempre le aspettative vengono confermate o esaltate con l’assaggio, e a volte capita anche la delusione.

Le Pied de la Cote E una delusione (parziale, in realtà) è stato questo vino: certo, è un prodotto-base che immagino fatto con le uve non giudicate idonee al più prestigioso La Chapelle, ma il produttore Jaboulet gode di buon nome, la AOC (la nostra DOC, per capirci) Hermitage è di quelle prestigiose (siamo nella zona Nord del Rodano) e l’invecchiamento inizia ad essere rilevante.

Il risultato è quantomeno curioso: i descrittori canonici di un Syrah al 100% sono un bel colore rubino squillante, evidente speziatura di pepe nero al naso, struttura e morbidezza in bocca, mentre invece questo Le Pied de la Cote è granato non vivacissimo, di discreta consistenza, con naso abbastanza intenso e, appena stappato, totalmente dominato da un ribes persino troppo schietto.
Migliora con il passare delle ore, quando esce qualche altro piccolo frutto rosso, il sottobosco, la terra, il sangue, ma è praticamente assente il tipico varietale del syrah

In bocca è abbastanza caldo, e di discreta morbidezza; l’attacco è leggermente amabile e persino giovanile per freschezza; il tannino è presente, deciso ma piacevolmente arrotondato. Al gusto torna il ribes e poco altro. Non c’è grande materia e non è particolarmente lungo.
Non lo capisco bene: da un lato sembra ancora ben vivo (per acidità e tannino), dall’altro il colore e gli aromi monocordi sembrano quelli di un vino più stanco.
Il risultato è un prodotto tutto sommato anche piacevole ma di sicuro non entusiasmante (anche in ragione del prezzo) dal quale forse mi aspettavo troppo.
Sui 35 euro in enoteca.

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Brewdog: scoiattoli imbalsamati dalla Scozia.

BrewdogPer farsi una idea di cosa sia il birrificio scozzese Brewdog credo sia sufficiente vedere la grafica del sito e leggere come loro stessi descrivono le loro birre: “Rock’n’roll american session ale”, “Iconoclastic amber ale”, “Post modern classic pale ale”, “Twenty first century black ale”, “Explicit imperial ale”, “Intergalactic fantastic oak aged stout” e via cazzeggiando.

Non bastasse, potrei ricordare le boutade degli scorsi anni, partendo dalle IPA in viaggio per due mesi sull’Oceano, passando alla birra chiamata Speedball e alle conseguenti polemiche, per arrivare alla gara con i tedeschi di Schorschbock per stabilire il vincitore del dubbio titolo di birra più alcolica del mondo (terminata ovviamente con la schiacciante vittoria degli scozzesi, grazie alla sobrietà della “End of the history” venduta all’interno di uno scoiattolo o di un ermellino imbalsamati; n.b.: gradazione di 55% e prezzo da 500 a 700 sterline!).
BrewdogPotrei scrivere anche che Brewdog non si è fatta mancare le ormai canoniche birre tirate in serie limitata e le altrettanto obbligatorie collaboration beer con altri birrifici in voga, le baruffe con il partito dei tradizionalisti della birra inglese (il solitamente santificato CAMRA), i video Beer Golf, in cui prendevano a mazzate lattine e bottiglie dei produttori di birra-spazzatura mainstream. Eccetera eccetera.

Potrei scrivere ancora tanti eccetera, ma al netto di tutto l’hype resta il fatto che un birrificio nato dall’idea di due amici (James Watt e Martin Dickie) nel 2006, che ha prodotto le prime birre nel 2007, che ha venduto al pubblico 10.000 quote societarie nel 2009 e che ha iniziato ad aprire pub di proprietà nel 2010, è oggi un marchio ben noto in tutto il mondo nel circuito degli appassionati e non solo, che sforna circa un milione e mezzo di bottiglie l’anno e le esporta a più non posso.
Dire quindi che la strategia del casino mediatico è servita ad ottenere un successo strepitoso è quasi un understatement, ma ricondurre questo trionfo alla sola abilità di marketing sarebbe ingiusto e riduttivo: in Brewdog, con gli alti e bassi del caso e facendo la tara agli estremismi fini a sé stessi, se e quando vogliono, le birre le sanno fare!

Certo, gran parte della fama del birrificio deriva da una serie di prodotti “famolostrano” (a parte quanto già ricordato, cito a caso la serie Paradox, passata in botti di whisky, e la Nanny State, da circa 1% di grado alcolico), ma credo che un grande merito degli scozzesi sia l’essere stati tra i primi della nuova ondata dei birrifici indipendenti / di qualità (chiamateli come volete, ma vi prego non “artigianali”, che è una parola che non ha più alcun senso) a tenere un prezzo medio accettabile, ad entrare nel circuito dei supermercati e a sdoganare la lattina come contenitore per un prodotto non dozzinale: oggi è possibile andare al Carrefour e trovare, accanto alle abominevoli Nastro Azzurro e alla esose Baladin, le latte della Punk IPA a meno di tre euro. Certo, a me sembra solo parente della birra dei primi tempi, e molto probabilmente è pastorizzata o perlomeno filtrata pesantemente, ma è comunque più che potabile in relazione al prezzo.

Il proposito dei prossimi giorni è dunque quello di comperare le Brewdog che trovo al supermercato ed assaggiarle per voi. Vedremo assieme cosa ne esce.

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La cena del sommelier Gennarino Carunchio

Gennarino CarunchioDa quanto tempo non provate una robusta, sana, ruspante invidia sociale? Non intendo una di quelle gelosie tipiche di questi tempi oscuri per la quale tu, disoccupato, provi odio nei confronti del tuo vicino di casa che ha ancora il salario da camionista, ma proprio quel desueto senso anni settanta di appartenenza ad un classe diversa, inferiore.
Insomma, da quanto non vi sentite Gennarino Carunchio?

A me è capitato la scorsa settimana.
Gradito ospite-Calimero ad una “cena prestigiosa” (si dice così, vero?) nella quale sono stati bevuti vini che definire colossali è un eufemismo, con la mia foga da eno-parvenu ho avventato per primo il naso nel bicchiere di un Margaux 1971 e mi è balzato alla mente De André: “La morte verrà all’improvviso, avrà le tue labbra e i tuoi occhi”, e, ho aggiunto, il tuo olfatto.
TAPPO!
Ho alzato timidamente la manina per comunicarlo agli altri commensali, che hanno concordato: è proprio tappo.

Ora, il mio elenco di smoccolamenti assortiti potete immaginarlo: quando mai ricapiterà a me, Carunchio Gennarino, di sedere nuovamente al desco dei Signori per assaporare il nettare divino? Ingenuamente pensavo però che anche i Re, nel loro piccolo, si incazzassero: è qui che sbagliavo, è qui che ho capito la differenza che corre tra me e gli Onnipotenti ed è qui che si è risvegliato il mio sopito stimolo alla invidia di classe.
Per farla breve, il proprietario della bottiglia non ha fatto un plissé e, con tutta la calma e la serenità del mondo, intercalando tra un discorso e l’altro, ha dichiarato sorridendo: “Pazienza, apriamo Château Ausone ’75”.
Stop. Nessuna litania sui santi o testata contro il muro. Questa è classe, caro Gennarino!

Facezie (insomma…) a parte, l’invito di un amico gentile (che mai potrò ringraziare abbastanza) mi ha permesso di imbucarmi all’evento; ovviamente ci tengo a raccontarvi tutto, così da farvi rodere il fegato alla grande e controbilanciare la mia invidia di cui sopra con un sapiente colpo di karma.

ChampagnePronti via: con gli antipasti abbiamo stappato due Champagne: Salon 1985 e Bollinger R.D. 1988.
Chi legge il blog conosce forse il mio amore per le bollicine, ma qui siamo fuori scala: intanto vini perfetti, senza ombra di sfregio da parte del tempo, che anzi ha contribuito ad evolvere il profilo gustativo verso vette difficilmente immaginabili.
In entrambi i casi la bolla è ancora vitale e copiosa, ma talmente sottile e delicata da risultare cremosa; Salon in particolare si presenta già dal colore, quasi ambrato, come qualcosa di “altro” rispetto ad un normale Champagne: trasfigurato in una dimensione a sé, nettamente evoluto ma sapido, complesso in maniera imbarazzante, con note che dal miele di acacia arrivano al caseario, passando per la canonica pasticceria. Monumentale.
Bollinger: appena versato parte più tranquillo, più Champagne nel colore e con un corredo aromatico meno ampio (si fa per dire) e meno intenso, ma dalla sua ha maggiore freschezza e mineralità e, nonostante una potenza superiore (immagino regalata dal Pinot nero) è forse più adatto agli antipasti. In ogni caso col passare dei minuti diventa più intrigante: si infittisce la sapidità e si rinforzano la crosta di pane e la mela ed esce un accenno di fungo.

Clos de BezeCon la prima portata è arrivato il signore e padrone incontrastato della serata: Chambertin Clos de Beze 1987 Luis Jadot.
Classico colore da Borgogna, scarico ma ancora vivissimo, è soprattutto l’olfattivo ad impressionare: c’è tutto quello che vi viene in mente e anche di più, il piccolo frutto, la terra, il bosco, il balsamico, il selvatico e persino un accenno di agrume maturo. Da manuale AIS sarebbe ampio, molto intenso ed eccellente. Da assaggiatore, chiudi gli occhi e sei in mezzo ad una collina francese. Stop.
In bocca è altrettanto perfetto: è caldo ma l’alcol non si sente per nulla, è fresco ma l’acidità non graffia, e il tannino è lieve e setoso.
Il Pinot nero nella sua massima espressione, una bottiglia aperta credo nel momento di massima grazia in cui nessun elemento spicca o ne sovrasta un altro e tutto si fonde in un insieme per descrivere il quale occorre, una volta tanto a ragione, scomodare il mitico termine “armonico”
In una parola: il Vino con la V maiuscola.
Nota a margine: il problema di una bottiglia del genere è che d’ora in poi ogni altro assaggio uscirà impietosamente demolito dal confronto: dovrò darmi al chinotto o alla aranciata.

Château AusoneDi Château Margaux e del relativo tappo abbiamo parlato, quindi passiamo a Château Ausone ’75. Vino enigmatico: arriva completamente muto, del tutto chiuso nonostante l’apertura effettuata due ore prima e la seguente scaraffatura.
Ci vorranno ancora molti minuti e tanti giri di polso per stanarlo: il colore è ancora giovanissimo e concentrato, finalmente escono gli aromi e c’è un sorprendente e nettissimo caffè, poi spezie in quantità e un tannino vivo, ben definito e piacevole.
Interessante, ma siamo ad anni luce dal Clos de Beze.

SauternesSi chiude la partita con gli erborinati, accompagnati da Château Suduiraut 1975.
I vini dolci non sono il mio terreno di gioco preferito, ma non posso fare a meno di ammirare la grandezza di questo Sauternes: alla vista colore carico, brillante e densità non eccessiva per la tipologia; al naso tutta la declinazione del muffato nobile, la frutta secca, l’albicocca disidratata, il miele, la frutta tropicale e soprattutto uno zafferano immenso, inarrestabile.
L’assaggio ripropone le stesse sensazioni dell’olfattivo, in più è lunghissimo, di una persistenza oltre ogni confine: trascorsa mezz’ora dopo aver mangiato i formaggi, avevo ancora lo zafferano in bocca…

In conclusione, che dire della serata?
Ho imparato sicuramente qualcosa, in primis che il sentimento dell’invidia mi appartiene e mi consuma nonostante io non voglia, ma a parte questo ho capito che esistono vini di una finezza che fino ad oggi avevo solo immaginato, e che purtroppo sono riservati a pochi, fortunati semi-mortali.
E mi sono accorto che, per noi Gennarini, una batteria di questo calibro è troppo, in particolare se abbinata ad una cena quasi altrettanto sontuosa: tutta questa grazia ti assale e ti sovrasta, e ti rende quasi incapace di capire e di godere appieno: non arrivo ancora a pensarla in toto come Francesca, ma quasi quasi…

 

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Quinta do Noval: vini liquorosi d’autore

Penultima degustazione dell’anno per la Cantina du Pusu.
Per prepararsi al fine pasto di cene e cenoni vari o per risolvere un regalo importante, cosa meglio di una bottiglia di Porto?

Quinta do Noval ColheitaIn assaggio, una bella batteria di Quinta do Noval, storico produttore (i primi documenti in cui compare il nome risalgono al 1715) di fama rilevante e di qualità proporzionalmente alta.
In abbinamento a ciascun vino una diversa tipologia di cioccolato Corallo, che a malincuore non ho assaggiato in quanto la sera avrei presenziato ad una cena prestigiosa e di cui conto di scrivere nei prossimi giorni: stay tuned.

Per qualche cenno su metodologia produttiva e tipologie di Porto vi rimando a questo articolo, e passo direttamente alle note di assaggio.

Il Ruby è prodotto base, e come richiesto dalla tipologia è di colore squillante, fresco e fruttato, facile da bere ben più di quanto ci si attenderebbe da un vino sui venti gradi. Direi da servire a temperatura leggermente più bassa rispetto all’ambiente e magari da azzardare come aperitivo.

Il Tawny senza indicazione di età inizia a scaricare il colore e a regalare sensazioni di maggiore complessità dovute alla ossidazione. Straordinario il rapporto qualità/prezzo: viene via con meno di quindici euro.

Il primo millesimato è l’LBV 2005: il colore torna a caricarsi, la materia a farsi più densa, e l’olfattivo a riempirsi di frutta, sovrastando gli altri aromi. Intenso e lungo, sicuramente lo attende un invecchiamento importante.

Messo in mezzo al vino precedente e al Colheita che lo seguirà, il Tawny 10 anni non dico sfiguri, perché sempre di grande prodotto si tratta, ma risulta meno interessante, non del tutto a fuoco nella sua via di mezzo fra giovinezza e maturità.

Il Colheita 1997 è sicuramente la bottiglia che ho apprezzato maggiormente: caldo, aperto con evidenti richiami alle ciliege sotto spirito ma senza eccesso di alcol, fine, elegante e lungo. Ottimo vino, pronto da bere già adesso; in questo momento è il prodotto top.

La chicca finale è il Silval Vintage 2003: si tratta di un Vintage “base”, pensato per essere bevuto senza le classiche, lunghissime attese tipiche della tipologia, e che il produttore dichiara “dal frutto esuberante”. Ovviamente si beve bene e con piacere, ma direi che l’idea migliore sarebbe quella di lasciarlo da parte per qualche anno, in modo da poterlo gustare al suo meglio.

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Pouilly Fumé Domaine du Bouchot

Ho assaggiato questo Sauvignon in purezza, annata riportata in etichetta 2010, prodotto a Saint Adelain sulla Loira, zona vocata per la produzione del Poully Fumé. Il produttore Pascal si impegna nella coltivazione biologica di dieci ettari di terreno vitato nel quale produce anche Cuvée Regain (da uve leggermente sur mature) e Cuvée Prestige (macerazione sulle bucce). Sicuramente la composizione del terreno calcareo-argilloso delinea in modo marcato la struttura del vino. Al naso si sentono piacevoli sentori fruttati e floreali, ma è all’assaggio che si può apprezzare la nota minerale supportata da un ottima sapidità, caratteristiche queste due che lasciano pensare ad un equilibrio buono e duraturo, sicuramente un assaggio da ripetere tra un po’ di tempo.

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Le fole 2009, Cantina Giardino: il rustico del Sud

[Disclaimer: bottiglia gentilmente omaggiata da Avionblu. Il prezzo dovrebbe aggirarsi attorno ai 14 Euro]

Parliamo ancora di vini naturali, stravolta grazie all’assaggio di un vino per me del tutto inedito e anche lontano dal mio standard di bevuta, troppo spesso rivolto ai bianchi (o ai metodo classico) provenienti dal nord.

Le FoleIl vino in questione è un rosso del sud, prodotto dalla Cantina Giardino di Ariano Irpino in provincia di Avellino con uve100% Aglianico
Quella di Cantina Giardino è la bella storia di una famiglia e di un gruppo di amici che iniziano pochi anni fa a vinificare per autoconsumo in un garage, usando uva coltivata da altri, e in pochi anni riescono a comperare alcuni ettari e a diventare un piccolo interprete nel panorama dei vini naturali.
I vitigni utilizzati sono infatti del tutto autoctoni, e Cantina Giardino cerca di sfruttare quanto più possibile viti con oltre 30 anni di età (alcune persino a piede franco), rigorosamente coltivate in regime biologico e lavorate senza l’aiuto di mezzi tecnologici.

La bottiglia che ho stappato è “le Fole”, prodotta con lieviti autoctoni, senza alcuna chiarifica, nessuna filtrazione, niente solforosa aggiunta.

Il vino è di colore rubino, denso ma scarico; la parte migliore è l’olfattivo: intenso, di frutta rossa matura (ciliege, amarene), una lieve speziatura di pepe e di macchia mediterranea (rosmarino) e un accenno di volatile che vivacizza. Forse non elegantissimo ma vivo e godibile.

In bocca è caldo ma l’alcol non “picchia”, è pieno, carnoso, di buona freschezza; spicca una certa morbidezza che mi sorprende: date le premesse mi sarei aspettato più spigolosità.
Non del tutto a regime il tannino, non ben definito, leggermente impastato.

Un vino rustico, se si intende con questa definizione non come sinonimo di sgraziato ma di semplicità e schettezza da vero vino quotidiano, sia per il prezzo che per la bevibilità davvero scorrevole.

Abbinamenti: per me ha funzionato bene con dei ravioli di verdura con sugo di carne, ma credo possa essere un fedele compagno di tante consuete tavole giornaliere, curate ma senza troppe pretese.

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ONAV a Lavagna: buona la prima

Accademia dei saporiPrima uscita per ONAV nel Tigullio, precisamente a Lavagna, e direi un successo, visto che l’evento di venerdì 30 Novembre è stato replicato anche il giorno seguente a causa delle numerose richieste pervenute.

La struttura in cui si è svolto l’evento è l’Accademia dei Sapori, associazione che propone una vasta gamma di corsi dedicati all’enogastronomia, ed è ubicata una bella villetta in un parco facilmente accessibile.

Brunelli

Si trattava di una degustazione di 7 Brunello di Montalcino, condotta dal noto Franco Ziliani, giornalista di eno-cose da lunga data e tenutario di due blog a tema (Vino al vino e Le mille bolle blog).

I vini in assaggio erano:

Confesso la mia scarsa dimestichezza con il Brunello: il prezzo medio della denominazione e il mio gusto personale (sono più un “bianchista” e comunque non un grande amante del Sangiovese) mi hanno fatto frequentare poche bottiglie di questa importantissima DOCG; anche per questo motivo ero particolarmente curioso di immergermi nella panoramica.
Le indicazioni di Ziliani: il 2007 è stata una buona annata, non memorabile, abbastanza calda e quindi enfatizzante il fruttato e la dolcezza dei tannini, risultando in un vino subito piacevole e pronto.
Il 2004 è stato presentato anche esso come un millesimo non formidabile, ma comunque migliore.

BrunelliLe mie brevi note di degustazione, scegliendo quello che più mi ha colpito: tutti vini  territoriali e tradizionali (bel frutto di ciliegia, colori scarichi e no barrique, per capirci).
Fattoria dei Barbi è sembrato a tutti il più ruvido e scomposto, mentre Le Potazzine era forse il vino più pronto: molto pulito e fine (forse anche troppo precisino).
San Lorenzo è il 2007 che ho preferito: colore un poco più intenso della media, naso ben delineato, con la ciliegia matura in evidenza, ma anche una certa aromaticità. In bocca è estremamente fresco, sapido e ha un bel corpo pieno.
Poggio al Vento: un cru prestigioso che si presenta subito con un olfattivo decisamente più profondo dei vini precedenti, infatti occorre scomodare molti descrittori: ciliegia, floreale, speziato, selvatico e boschivo. All’assaggio risulta un tannino vellutato, finissimo e notevole freschezza. Un vino ancora giovane ma già importante.

Le conclusioni: direi che per una “prima volta” è andato tutto bene: la struttura è carina, magari un poco troppo piccola per eventi di questo tipo (da qui la necessità di replica) e l’aula poteva essere illuminata meglio, ma sono difetti veniali. Attendo con impazienza i prossimi appuntamenti.

Franco Ziliani

Una cenno sul relatore: Ziliani, ovviamente preparatissimo e profondo conoscitore sia del territorio che delle aziende, ha parlato per oltre un’ora e mezza a braccio, seguendo un percorso coerente e fruibile dai più e dai meno esperti, senza omettere un appassionato ricordo dei recenti scandali avvenuti nella denominazione. Bravo!

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Lenza, un Franciacorta outsider

Amo i vini bianchi e amo le bollicine.

Lo spumante metodo classico italiano per antonomasia è ormai il Franciacorta (ok, lo so che non posso usare i termini generici “spumante” e “bollicine”, e se Maurizio Zanella, il presidente del Consorzio per la Tutela del Franciacorta, dovesse leggere queste righe mi bacchetterebbe, ma ce ne faremo una ragione), anche se si potrebbe discutere a lungo su tante aziende di questa zona, sulle cuvée base di molti marchi blasonati e su prezzi mediamente non popolari.
Seriamente: l’espressione “Franciacorta”, caso unico nel panorama italiano, identifica un vino DOCG, un territorio (in provincia di Brescia, vicino alla parte meridionale del lago di Iseo) e un metodo di produzione (il famoso metodo classico della rifermentazione in bottiglia).

Nello specifico, la degustazione di questo venerdì presso la solita Cantina du Pusu di Rapallo, presentava la gamma di un produttore di Franciacorta tanto storico quanto poco noto al grande pubblico e non pervenuto sulle varie guide: l’Azienda Agricola Lenza.
L’azienda esiste dal 1967, è stata la prima della zona a produrre le tipologie rosé ed extra brut ed ha la particolarità di coltivare su colline terrazzate a circa 350 metri di altitudine.

E’ stata l’occasione per assaggiare un nuovo prodotto, il brut Levi: uno spumante bollicina metodo classico Franciacorta (contento, Maurizio?) da chardonnay 100%, fresco e facile, che staziona comunque 24 mesi sui lieviti (quando il minimo consentito dal disciplinare è 18), e che nelle preferenze di chi è intervenuto ha battuto il brut “storico” della casa, pure lui chardonnay in purezza, ma con 48 mesi di affinamento sui lieviti.

Terzo vino presentato, l’extra brut (chardonnay 90%, pinot bianco 10%, ben 72 mesi di affinamento), forse il prodotto che ho preferito: complesso ma non difficile, secchissimo (direi quasi un pas dosé), senza eccessi amarognoli nel finale, abbastanza lungo. Come si dice in questi casi, da berne a secchi.

Quarto vino, una tipologia che personalmente non amo ma che ha una sua nicchia di consumatori ben definita: il Saten (60 mesi sui lieviti). In realtà Lenza, non ho ben capito per quale motivo, lo chiama Cremant, ma di fatto la metodologia di produzione (chardonnay 100%, sovrapressione inferiore rispetto ai soliti 6 bar, leggero dosaggio) è quella appunto del Saten. Devo ammettere che, pur non essendo il mio territorio gustativo di elezione, la morbidezza non è eccessiva, impedendo di scadere nello stucchevole. Ad occhio, direi che è stato il preferito dal pubblico femminile.

Ultimo vino, il Rosè. Si tratta di un non dosato prodotto con una sorta di metodo solera da uve 100% pinot nero (e si sente per la pienezza del gusto, terroso e lampone in testa, e per il corpo decisamente presente). Io ho trovato anche un accenno di tannino, che da quanto mi dicono dovrebbe provenire non dal contatto con le bucce ma dal legno. Sicuramente un vino molto particolare, non adatto a tutti i palati e di certo da consumare pasteggiando, magari con pietanze sostanziose. Anche il prezzo non è per tutti: siamo sui 35 euro.

In conclusione, una bella gamma di vini, con prezzo adeguato (discutibile solo il rosé), nella quale riscontro una certa sovrapposizione tra i due brut, e non è difficile immaginare che a breve il secondo possa sparire per lasciare spazio al più fresco, differenziandolo meglio dal extra brut.

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