Quinta do Noval: vini liquorosi d’autore

Penultima degustazione dell’anno per la Cantina du Pusu.
Per prepararsi al fine pasto di cene e cenoni vari o per risolvere un regalo importante, cosa meglio di una bottiglia di Porto?

Quinta do Noval ColheitaIn assaggio, una bella batteria di Quinta do Noval, storico produttore (i primi documenti in cui compare il nome risalgono al 1715) di fama rilevante e di qualità proporzionalmente alta.
In abbinamento a ciascun vino una diversa tipologia di cioccolato Corallo, che a malincuore non ho assaggiato in quanto la sera avrei presenziato ad una cena prestigiosa e di cui conto di scrivere nei prossimi giorni: stay tuned.

Per qualche cenno su metodologia produttiva e tipologie di Porto vi rimando a questo articolo, e passo direttamente alle note di assaggio.

Il Ruby è prodotto base, e come richiesto dalla tipologia è di colore squillante, fresco e fruttato, facile da bere ben più di quanto ci si attenderebbe da un vino sui venti gradi. Direi da servire a temperatura leggermente più bassa rispetto all’ambiente e magari da azzardare come aperitivo.

Il Tawny senza indicazione di età inizia a scaricare il colore e a regalare sensazioni di maggiore complessità dovute alla ossidazione. Straordinario il rapporto qualità/prezzo: viene via con meno di quindici euro.

Il primo millesimato è l’LBV 2005: il colore torna a caricarsi, la materia a farsi più densa, e l’olfattivo a riempirsi di frutta, sovrastando gli altri aromi. Intenso e lungo, sicuramente lo attende un invecchiamento importante.

Messo in mezzo al vino precedente e al Colheita che lo seguirà, il Tawny 10 anni non dico sfiguri, perché sempre di grande prodotto si tratta, ma risulta meno interessante, non del tutto a fuoco nella sua via di mezzo fra giovinezza e maturità.

Il Colheita 1997 è sicuramente la bottiglia che ho apprezzato maggiormente: caldo, aperto con evidenti richiami alle ciliege sotto spirito ma senza eccesso di alcol, fine, elegante e lungo. Ottimo vino, pronto da bere già adesso; in questo momento è il prodotto top.

La chicca finale è il Silval Vintage 2003: si tratta di un Vintage “base”, pensato per essere bevuto senza le classiche, lunghissime attese tipiche della tipologia, e che il produttore dichiara “dal frutto esuberante”. Ovviamente si beve bene e con piacere, ma direi che l’idea migliore sarebbe quella di lasciarlo da parte per qualche anno, in modo da poterlo gustare al suo meglio.

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Le fole 2009, Cantina Giardino: il rustico del Sud

[Disclaimer: bottiglia gentilmente omaggiata da Avionblu. Il prezzo dovrebbe aggirarsi attorno ai 14 Euro]

Parliamo ancora di vini naturali, stravolta grazie all’assaggio di un vino per me del tutto inedito e anche lontano dal mio standard di bevuta, troppo spesso rivolto ai bianchi (o ai metodo classico) provenienti dal nord.

Le FoleIl vino in questione è un rosso del sud, prodotto dalla Cantina Giardino di Ariano Irpino in provincia di Avellino con uve100% Aglianico
Quella di Cantina Giardino è la bella storia di una famiglia e di un gruppo di amici che iniziano pochi anni fa a vinificare per autoconsumo in un garage, usando uva coltivata da altri, e in pochi anni riescono a comperare alcuni ettari e a diventare un piccolo interprete nel panorama dei vini naturali.
I vitigni utilizzati sono infatti del tutto autoctoni, e Cantina Giardino cerca di sfruttare quanto più possibile viti con oltre 30 anni di età (alcune persino a piede franco), rigorosamente coltivate in regime biologico e lavorate senza l’aiuto di mezzi tecnologici.

La bottiglia che ho stappato è “le Fole”, prodotta con lieviti autoctoni, senza alcuna chiarifica, nessuna filtrazione, niente solforosa aggiunta.

Il vino è di colore rubino, denso ma scarico; la parte migliore è l’olfattivo: intenso, di frutta rossa matura (ciliege, amarene), una lieve speziatura di pepe e di macchia mediterranea (rosmarino) e un accenno di volatile che vivacizza. Forse non elegantissimo ma vivo e godibile.

In bocca è caldo ma l’alcol non “picchia”, è pieno, carnoso, di buona freschezza; spicca una certa morbidezza che mi sorprende: date le premesse mi sarei aspettato più spigolosità.
Non del tutto a regime il tannino, non ben definito, leggermente impastato.

Un vino rustico, se si intende con questa definizione non come sinonimo di sgraziato ma di semplicità e schettezza da vero vino quotidiano, sia per il prezzo che per la bevibilità davvero scorrevole.

Abbinamenti: per me ha funzionato bene con dei ravioli di verdura con sugo di carne, ma credo possa essere un fedele compagno di tante consuete tavole giornaliere, curate ma senza troppe pretese.

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Porto: alcuni brevi cenni

Porto
Immagine tratta dal sito di Quinta do Noval

E’ quasi Natale, e tradizionalmente in questo periodo si risolvono molti regali con la canonica bottiglia di vino.
E’ anche il momento in cui si comperano più vini spumanti di qualità (di solito metodo classico, magari Champagne) e vini liquorosi: un classico di questi ultimi è il Porto.

Ne consegue che una bottiglia di Porto, il vino liquoroso più famoso del mondo, si trova in tante case italiane, ma non credo siano in molti a conoscere come si produce e quali sono le tipologie di questo vino; proviamo quindi a fare una breve e semplice introduzione.

Anzitutto, la zona di produzione è una delle più antiche aree viticole protette da denominazione: siamo ovviamente in Portogallo, a Nord, lungo la valle del fiume Douro, e come spesso accade in questi casi, la coltivazione se è da un lato aiutata dal microclima, dall’altro è resa difficile a causa delle pareti scoscese sulle quali si coltiva grazie a terrazzamenti.

Le qualità di uva utilizzate sono una cinquantina a bacca bianca o rossa, ma quelle più usate sono Bastardo, Touriga Nacional, Touriga Francesa, Tinta Barroca e Tinta Roriz. La metodologia di produzione è singolare: il mosto viene fatto fermentare fino a 6 – 7% di alcol; a questo punto la fermentazione viene bloccata tramite l’aggiunta di alcol etilico o acquavite o brandy. Ne risulta quindi un vino con un sensibile residuo zuccherino (più o meno il 10% degli zuccheri non sono fermentati) e con circa 20% di grado alcolico, che viene messo a maturare nelle “pipe” da 500 o 600 litri.

Il tipo e il tempo di maturazione scelte dalle varie “quintas” (cantine produttrici) determinano la classificazione del Porto:

Esistono due grandi famiglie, per ciascuna della quale si producono blend e millesimati (vintage, anche se i vintage propriamente detti sono solo quelli affinati in bottiglia):

  • Porto riduttivi: sono affinati in ambiente riduttivo (bottiglia), quindi mantengono per quanto possibile colore vivo e freschezza, e devono essere consumati in fretta dopo l’apertura.
  • Porto ossidativi: sono affinati in ambiente ossidativo (botte), quindi il colore decade verso il mattone o l’ambra e gli aromi virano, ad esempio verso la frutta secca e le tostature.
Riduttivi:
  • Ruby: il tipo più comune, viene prodotto con un blend di uve non particolarmente pregiate, fa un breve invecchiamento in botte ed è un vino di color rubino, semplice, fresco e fruttato.
  • Vintage: si tratta di millesimati prodotti solo in annate eccezionali e da vigne particolarmente pregiate, invecchiati per due anni in botte e poi destinati ad un lungo affinamento in bottiglia (almeno 15 anni).
  • LBV (Late Bottled Vintage): in origine erano i vintage che restavano invenduti, oggi sono una categoria vera e propria che ha lo scopo di permettere l’assaggio di una annata senza dover attendere il lungo invecchiamento di un Vintage.
    Invecchiano in botte per 4 o 6 anni ed esistono in versione filtrata e non. Quella non filtrata, di maggiori potenzialità di invecchiamento, deve essere decantata prima del consumo.
Ossidativi:
  • Tawny: blend di Porto invecchiati in botte grande. Il blending cerca di riprodurre il profilo gustativo della casa, identico anno per anno. per due o tre anni.
    Quando non presenta altre indicazioni è un blend di Porto che hanno trascorso almeno 2 anni in botte.
    Quando si indica 20, 30 o 40 anni, si parla di Tawny invecchiati (Aged Tawny), un assemblaggio di vini invecchiati. L’invecchiamento indicato in etichetta rappresenta una media approssimata del blend e fa riferimento a un profilo gustativo, non ad un invecchiamento minimo.
  • Colheita: è un tipo Tawny millesimato, di una annata dichiarata straordinaria, con almeno 7 anni di invecchiamento in botte.
    Il profilo gustativo non è quello della casa, come accade per i normali Tawny, ma della annata riportata in etichetta. La differenza con il vintage è l’ambiente di invecchiamento.

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ONAV a Lavagna: buona la prima

Accademia dei saporiPrima uscita per ONAV nel Tigullio, precisamente a Lavagna, e direi un successo, visto che l’evento di venerdì 30 Novembre è stato replicato anche il giorno seguente a causa delle numerose richieste pervenute.

La struttura in cui si è svolto l’evento è l’Accademia dei Sapori, associazione che propone una vasta gamma di corsi dedicati all’enogastronomia, ed è ubicata una bella villetta in un parco facilmente accessibile.

Brunelli

Si trattava di una degustazione di 7 Brunello di Montalcino, condotta dal noto Franco Ziliani, giornalista di eno-cose da lunga data e tenutario di due blog a tema (Vino al vino e Le mille bolle blog).

I vini in assaggio erano:

Confesso la mia scarsa dimestichezza con il Brunello: il prezzo medio della denominazione e il mio gusto personale (sono più un “bianchista” e comunque non un grande amante del Sangiovese) mi hanno fatto frequentare poche bottiglie di questa importantissima DOCG; anche per questo motivo ero particolarmente curioso di immergermi nella panoramica.
Le indicazioni di Ziliani: il 2007 è stata una buona annata, non memorabile, abbastanza calda e quindi enfatizzante il fruttato e la dolcezza dei tannini, risultando in un vino subito piacevole e pronto.
Il 2004 è stato presentato anche esso come un millesimo non formidabile, ma comunque migliore.

BrunelliLe mie brevi note di degustazione, scegliendo quello che più mi ha colpito: tutti vini  territoriali e tradizionali (bel frutto di ciliegia, colori scarichi e no barrique, per capirci).
Fattoria dei Barbi è sembrato a tutti il più ruvido e scomposto, mentre Le Potazzine era forse il vino più pronto: molto pulito e fine (forse anche troppo precisino).
San Lorenzo è il 2007 che ho preferito: colore un poco più intenso della media, naso ben delineato, con la ciliegia matura in evidenza, ma anche una certa aromaticità. In bocca è estremamente fresco, sapido e ha un bel corpo pieno.
Poggio al Vento: un cru prestigioso che si presenta subito con un olfattivo decisamente più profondo dei vini precedenti, infatti occorre scomodare molti descrittori: ciliegia, floreale, speziato, selvatico e boschivo. All’assaggio risulta un tannino vellutato, finissimo e notevole freschezza. Un vino ancora giovane ma già importante.

Le conclusioni: direi che per una “prima volta” è andato tutto bene: la struttura è carina, magari un poco troppo piccola per eventi di questo tipo (da qui la necessità di replica) e l’aula poteva essere illuminata meglio, ma sono difetti veniali. Attendo con impazienza i prossimi appuntamenti.

Franco Ziliani

Una cenno sul relatore: Ziliani, ovviamente preparatissimo e profondo conoscitore sia del territorio che delle aziende, ha parlato per oltre un’ora e mezza a braccio, seguendo un percorso coerente e fruibile dai più e dai meno esperti, senza omettere un appassionato ricordo dei recenti scandali avvenuti nella denominazione. Bravo!

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Oops! he did it again

BibendaFranco Ricci l’ha fatto ancora: al dilagante, strisciante pauperismo che subdolamente insidia le fondamenta del nostro moderno modus vivendi occidentale, ancora una volta ha contrapposto la sua lucida visione neo-keynesiana nel quale lo stimolo alla domanda aggregata non viene dallo Stato ma dal consumatore di vino e caviale: l’incipit del numero 43 della patinatissima rivista di Bibenda è una folgorante asserzione di intenti: “Capodanno col botto”.

Il sottotitolo vale un puntuale pamphlet di dottrina economica: “E’ un’incitazione al coraggio. Il coraggio di un ottimismo oggi indispensabile. Il lusso è un lusso che per una volta, per l’inizio di un anno, è possibile provare con gli amici e i compagni del cuore. Le nostre istruzioni anche per i palati difficili”.

Dunque, secondo la rivista sapientemente diretta dal maître à penser romano, la via maestra per sfuggire alle “opportunistiche logiche delle tante cassandre che sguazzano e traggono profitto dalla crisi di turno” è tanto semplice quanto geniale: “vivere secondo un ottimismo realistico”.
Certo, qualche scettica cornacchia potrebbe arcuare il sopracciglio e alzare il ditino per condannare un presunto eccesso di edonismo, malsopportabile in tempi di crisi, ma il saggio consesso delle menti di Bibenda anticipa e frantuma l’obiezione: “… quello che vi proponiamo … non è una mera lista di beni di lusso da ostentare, piuttosto il massimo che ciascuna categoria di prodotto l’uomo ha saputo cogliere dalla terra o realizzare … il solo lusso presente sarete voi, unici e senza eguali.”

Ma gli esperti del New Deal Bibendesco non si limitano ad affermazioni generiche, e mettono nero su bianco la ricetta per aggredire la crisi, trasformandola (tramite la ricerca del Piacere), in roboante opportunità epicurea di rinascita e di affermazione di un Nuovo Uomo.
E leggiamoli, finalmente, alcuni dei consigli per gli acquisti proposti dai Virtuosi di Bibenda: “Tartufo bianco d’Alba: 400 euro l’etto”, “Aceto balsamco tradizionale di Modena DOP 50 anni Acetaia Malpighi: 220 euro per 100 ml”, “Zafferano purissimo di Cascia: 240 euro l’etto”, “Caviale Almas caviar Beluga del Mar Caspio: 2500 euro l’etto”, “Champagne Clos du Mesnil 2000: 1.100 euro a bottiglia”, “Romanée-Conti Grand Cru 2002: 10.000 euro a bottiglia”.
Ci fermiamo qui per non rovinarvi la sorpresa di scoprire da soli con quali materie prime armare la miccia del vostro Ottimista e Anticrisi Cenone Col Botto.

Per parte mia, ancora una volta non posso che dimostrarmi ammirato per il coraggio, la lungimiranza e la cristallina visione del mondo contemporaneo dimostrata dall’intraprendente team di Bibenda, sapientemente gudato dal visionario nocchiero Ricci.

(Certo, deve girarne di roba buona dalle parti di Roma…).

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Lenza, un Franciacorta outsider

Amo i vini bianchi e amo le bollicine.

Lo spumante metodo classico italiano per antonomasia è ormai il Franciacorta (ok, lo so che non posso usare i termini generici “spumante” e “bollicine”, e se Maurizio Zanella, il presidente del Consorzio per la Tutela del Franciacorta, dovesse leggere queste righe mi bacchetterebbe, ma ce ne faremo una ragione), anche se si potrebbe discutere a lungo su tante aziende di questa zona, sulle cuvée base di molti marchi blasonati e su prezzi mediamente non popolari.
Seriamente: l’espressione “Franciacorta”, caso unico nel panorama italiano, identifica un vino DOCG, un territorio (in provincia di Brescia, vicino alla parte meridionale del lago di Iseo) e un metodo di produzione (il famoso metodo classico della rifermentazione in bottiglia).

Nello specifico, la degustazione di questo venerdì presso la solita Cantina du Pusu di Rapallo, presentava la gamma di un produttore di Franciacorta tanto storico quanto poco noto al grande pubblico e non pervenuto sulle varie guide: l’Azienda Agricola Lenza.
L’azienda esiste dal 1967, è stata la prima della zona a produrre le tipologie rosé ed extra brut ed ha la particolarità di coltivare su colline terrazzate a circa 350 metri di altitudine.

E’ stata l’occasione per assaggiare un nuovo prodotto, il brut Levi: uno spumante bollicina metodo classico Franciacorta (contento, Maurizio?) da chardonnay 100%, fresco e facile, che staziona comunque 24 mesi sui lieviti (quando il minimo consentito dal disciplinare è 18), e che nelle preferenze di chi è intervenuto ha battuto il brut “storico” della casa, pure lui chardonnay in purezza, ma con 48 mesi di affinamento sui lieviti.

Terzo vino presentato, l’extra brut (chardonnay 90%, pinot bianco 10%, ben 72 mesi di affinamento), forse il prodotto che ho preferito: complesso ma non difficile, secchissimo (direi quasi un pas dosé), senza eccessi amarognoli nel finale, abbastanza lungo. Come si dice in questi casi, da berne a secchi.

Quarto vino, una tipologia che personalmente non amo ma che ha una sua nicchia di consumatori ben definita: il Saten (60 mesi sui lieviti). In realtà Lenza, non ho ben capito per quale motivo, lo chiama Cremant, ma di fatto la metodologia di produzione (chardonnay 100%, sovrapressione inferiore rispetto ai soliti 6 bar, leggero dosaggio) è quella appunto del Saten. Devo ammettere che, pur non essendo il mio territorio gustativo di elezione, la morbidezza non è eccessiva, impedendo di scadere nello stucchevole. Ad occhio, direi che è stato il preferito dal pubblico femminile.

Ultimo vino, il Rosè. Si tratta di un non dosato prodotto con una sorta di metodo solera da uve 100% pinot nero (e si sente per la pienezza del gusto, terroso e lampone in testa, e per il corpo decisamente presente). Io ho trovato anche un accenno di tannino, che da quanto mi dicono dovrebbe provenire non dal contatto con le bucce ma dal legno. Sicuramente un vino molto particolare, non adatto a tutti i palati e di certo da consumare pasteggiando, magari con pietanze sostanziose. Anche il prezzo non è per tutti: siamo sui 35 euro.

In conclusione, una bella gamma di vini, con prezzo adeguato (discutibile solo il rosé), nella quale riscontro una certa sovrapposizione tra i due brut, e non è difficile immaginare che a breve il secondo possa sparire per lasciare spazio al più fresco, differenziandolo meglio dal extra brut.

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Vini naturali: addendum

Solo un piccolo post di servizio per dirmi soddisfatto del fatto di non essere isolato nella mia posizione su vini naturali, biologici e biodinamici: leggo oggi sul blog Primobicchiere riflessioni e collegamenti ad altri autori che sono sulla mia stessa stessa lunghezza d’onda.
Non che il mio pensiero sia particolarmente originale, sia chiaro, ma fa sempre piacere trovarsi in buona compagnia, e si spera che le idee sensate e razionalmente fondate si diffondano sempre di più.

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Vini naturali: moda o cultura?

“Fosfato diammonico, Dicloridrato di tiamina, Anidride solforosa, Bisolfito di potassio, Carbone per uso enologico, Gelatina alimentare, Proteine vegetali ottenute da frumento o piselli, Colla di pesce, Ovoalbumina, Tannini, Caseina, Caseinato di potassio, Diossido di silicio, Bentonite, Enzimi pectolitici, Acido lattico, Acido L tartarico, Carbonato di calcio, Tartrato neutro di potassio, Bicarbonato di potassio, Batteri lattici, Acido L-ascorbico, Azoto, Anidride carbonica, Acido citrico, Acido metatartarico, Gomma d’acacia (gomma arabica), Bitartrato di potassio, Citrato rameico, Solfato di rame, Pezzi di legno di quercia, Alginato di potassio, Solfato di calcio”.

Queste sopra sono le sostanze autorizzate nell’uso nella produzione biologica di vino, secondo il regolamento di Esecuzione 203/2012 della Commissione Europea dell’8 marzo 2012.
Così, tanto per far capire cosa si intende quando si parla di “vino biologico” secondo la legge.

BiologicoDetto questo, il vino “biologico”, “biodinamico”, “naturale”, è sempre più sulla bocca dei consumatori, in parte come conseguenza di una ricerca più generale di stili di vita salutari (vedi i vari negozi “bio”), in parte per la recente moda dei cibi “di qualità” (il successo di Eataly ne è il simbolo), ma anche come fuga da una certa massificazione del gusto.
Sono infatti passati i tempi in cui si poteva incappare in vini cattivi: le moderne pratiche enologiche hanno fatto in modo che in enoteca, ma anche al supermercato, si possano trovare la stragrande maggioranza di bottiglie tecnicamente ineccepibili, a prezzo però di una netta mancanza di identità: i procedimenti standardizzati generano vini esenti da difetti ma scarsamente identitari.

Della biodinamica abbiamo parlato in precedenza, e del biologico abbiamo detto in apertura. Il tutto ricade nel grande cappello del “vino naturale”, locuzione abbastanza fumosa, perché pur non esistendo neppure una definizione “ufficiale” (anzi, per gli enotecari è persino pericoloso usare il termine), in Italia si contano ormai diverse (troppe) associazioni di produttori che ambiscono di potersi fregiare dell’espressione in voga. Andrea Scanzi, uno dei massimi osservatori del fenomeno, ha spiegato tutto con una frase: “i vinoveristi hanno più partiti che bottiglie. In confronto, la sinistra extraparlamentare è coesa”.
Se poi aggiungiamo che, in perfetto spirito italiano, spesso tra i vari consorzi e associazioni non corre buon sangue, si capisce quanto possa essere poco comprensibile la situazione per i consumatori.

Alla fine, il minimo denominatore comune è quello del massimo rispetto possibile della natura durante la coltivazione della vigna (no ai fitofarmaci ed ai concimi chimici, per esempio) e il rifuggire dalle pratiche spericolate in cantina (in sostanza, produzioni più tradizionali ma condotte con consapevolezza moderna, ad esempio con estremo rigore per igene e travasi, senza addizioni di sostanze magiche e senza interventi dell’enlogo-guru di turno).
Ne risultano vini certamente meno massificati nel gusto, non globalizzati nell’aspetto e all’olfatto, a volte magari più scorbutici, sicuramente di resa meno costante ma di certo più personali e unici.

Tutte cose ragionevoli, visto che oggi, al di là delle mode (che ieri imponevano il vino fruttatissimo o barricato e oggi dettano le nuove parole d’ordine di acidità e mineralità), è in atto un mutamento del gusto degli appassionati: data per scontata la qualità minima sindacale, il bevitore moderno cerca nel bicchiere una piccola avventura, la capacità di distinzione da altre mille bevute, l’identità di una zona di produzione, la personalità di un vignaiolo. Cose che un vino prodotto con tecniche modernamente standardizzate e con vitigni internazionali difficilmente si possono ottenere.

Certo, non sempre le cose vanno lisce, perché il rifiuto di tecniche ben consolidate porta talvolta (sempre meno spesso, per la verità) a bottiglie se non difettate, perlomeno borderline (in questi casi, si dice pietosamente “difficili da capire”).
La drastica diminuzione di questi incidenti va a tutto vantaggio del consumatore che può così accedere con una certa tranquillità a prodotti interessanti e piacevolmente diversi, più digeribili e prodotti nel rispetto dell’ambiente.

A parte quanto sopra, credo occorra fare la tara a tutte le istanze di naturalità ostentata, e ricordare che il vino è una manipolazione dell’uomo: resta scolpita nel granito la massima di Francesco Paolo Valentini, uno dei campioni della qualità del vino in Italia: “l’uva naturalmente diventa aceto, io sono un produttore di vini artigianali“.
Per parte mia, credo che al di là delle metodologie di produzione, il vino debba essere ben fatto e piacevole; certo, se il vignaiolo non ha usato solforosa e la bottiglia è fantastica, tanto meglio, ma un vino che puzza non ha giustificazione anche se prodotto con uve bio.

Chiudo esprimendo un certo fastidio perché al carro del fenomeno, creato e tirato da agricoltori coscienziosi, mi pare si stiano attaccando anche i personaggi che vedono solo una nuova opportunità di business: se tutto è “naturale” (e con una legislazione come quella riportata in apertura è proprio così), nulla lo è, se non i vini di quei vignaioli che credono davvero nella qualità del loro prodotto e nella salvaguardia del loro ambiente, e se ne infischiano delle certificazioni e dei bollini.

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Viognier Chateau du Trignon 2010: il vino boh…

[Disclaimer: bottiglia gentilmente omaggiata da Avionblu. Il prezzo dovrebbe aggirarsi attorno ai 13 Euro]

Perché ci piace bere il vino?

Ciascuno di noi ha le sue motivazioni, ma più o meno possiamo ricondurle al fatto che accompagna bene i pasti, è conviviale, affascina con i suoi colori, aromi e gusti, a volte (non nascondiamolo) si può gradire una leggera ebbrezza.
Per me, e credo anche per molti altri, c’è anche una fascinazione ulteriore: nel caso di annate particolarmente vecchie, il vino ha il potere di farmi pensare a chi ero e cosa facevo in quel millesimo, immaginare i luoghi di produzione e magari desiderare di visitarli.

Credo che sia per questo che amo particolarmente vini con una personalità più spiccata, talvolta magari imperfetti, ma in grado di raccontare una storia o perlomeno capaci di stimolare l’immaginazione. Spesso (ma non sempre e non esclusivamente) queste caratteristiche le ritrovo nel calderone di quelli che sono oggi definiti “vini naturali”, dove con questo termine si intendono genericamente vini prodotti con il minimo intervento umano in cantina e cercando di rispettare per quanto possibile la natura in vigna, anche a costo di rischiare l’annata storta o il difetto.

VIOGNIER 2010 CHATEAU DU TRIGNONQuanto sopra per spiegare perché ho qualche riserva (del tutto personale, sia chiaro) sul vino che di seguito cercherò di raccontare.
Non conoscevo il produttore ma avevo alte aspettative, credendo per vari motivi di trovare nel bicchiere il prodotto di uno dei rappresentanti di questa tendenza “naturale”, per giunta proveniente da una regione francese enologicamente importante come il Rodano, anche se il Rodano in questione è quello meridionale, meno blasonato e più noto per i blend da uve a bacca rossa che per un bianco 100% Viognier.

Appena lo ho assaggiato sono rimasto spiazzato e mi è saltata in testa la definizione di “vino boh”: tutto perfetto, un vino corretto, ben fatto, anche piacevole per carità, però impersonale, dal canonico giallo paglierino con riflessi verdolini e con intensità olfattiva abbastanza scontata di frutta (tropicale, direi ananas) e fiori bianchi.

In bocca è ben saporito, con un tocco di morbidezza ruffiana, sapido e fresco e di corpo e lunghezza discreti; azzarderei a descriverne una piacioneria un poco grossolana e sfacciata.
Insomma, un prodotto precisino che potrebbe provenire dal Rodano come da altre cento zone, con tutte le misure nella media ed esente da alcun difetto; tutto anonimamente “a posto”.

Sicuramente è un vino giovane, ed è possibile che con il tempo spunti fuori qualche nota evolutiva che lo possa caratterizzare maggiormente, ma non mi sento di scommetterci sopra.
In definitiva, un vino che non posso non definire buono, ma che consiglio solo a chi preferisce una bevuta garbata, senza avventure.

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Dinavolo 2006: estremismo al potere

“Orange wine” è la definizione appioppata a quei vini prodotti da uve a bacca bianca che, a causa della lunga macerazione sulle bucce (di fatto, una vinificazione in rosso), hanno ottenuto caratteristiche particolari come ad esempio colore aranciato, corpo rilevante, una certa carica tannica e un corredo aromatico ben particolare.
Tale pratica, cui indulgono solitamente i produttori della cosiddetta stirpe “naturale” (minori interventi possibili sia in vigna che in cantina), non è in realtà nulla di nuovo, anzi semmai il recupero di una lunga e antica tradizione contadina, integrata con le moderne attenzioni e conoscenze.

DinavoloUno dei campioni della categoria dei pesi massimi di questa strana federazione è il Dinavolo della azienda Denavolo (sul serio, non ho sbagliato a scrivere); siamo in provincia di Piacenza, le vigne si trovano ad altezza di circa 500 metri, sono condotte biologicamente, di varietà bianche tipiche della zona come malvasia, ortrugo, trebbiano eccetera.
In cantina, ovviamente lieviti autoctoni, lunghe macerazioni, nessuna aggiunta di solforosa, no al controllo della temperatura, addirittura nessun travaso e filtrazione

Quindi come è questo Dinavolo, quando ha alle spalle ben sei anni di invecchiamento?
Il colore è pazzesco, ambra brillante come se fosse un Sauternes, e il naso è intenso di frutta disidratata e fichi secchi, poi terziari di smalto per unghie e persino un filo di formaggio. C’è una leggera acidità volatile, che è poi una caratteristica di questi vini e, quando ben controllata come in questo caso, contribuisce a renderli vivi e dinamici.

In bocca entra dolce sulla punta della lingua, poi arrivano enormi l’acidità e la sapidità, è freschissimo e sicuramente tannico. Caldo. salmastro, lungo.
Date le altre caratteristiche ti aspetteresti un corpo più potente, invece è ben presente, ma certo non un mattone.

Abbinamento difficile: direi formaggi di media stagionatura o carni speziate, oppure in solitaria, dopo il pasto. Rigorosamente a temperatura ambiente o poco più fresco: il freddo estremizza il tannino e lo rovina inesorabilmente.

Alla fine non si può certo definire fine, composto o addirittura bere da tutti i giorni; semmai un vino affascinante, scorbutico, unico, imperfetto e complesso. Da provare, se si ha il palato avventuroso.
Sui 25/30 euro in enoteca.

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