Vorberg 2010, Cantina Terlano

VorbergDenominazione: Alto Adige Terlano DOC
Vino: Vorberg
Azienda: Cantina Terlano
Anno: – 2009
Prezzo: 17 euro

Pochi accenni per un vino che teoricamente aveva tutte le carte in regola per entusiasmarmi (bianco del nord, ottiene sempre ottime recensioni e proviene da una cantina che lavora costantemente bene e mantiene prezzi civili), e che invece mi ha lasciato con qualche (piccolo) dubbio.

Poco da dire su Cantina Terlano, se non che è uno degli esempi virtuosi di cantina sociale: fondazione a fine 1800, numerosissimi soci che forniscono uva per oltre un milione di bottiglie di varia tipologie (tutte DOC, al 70% vini bianchi), e un ventaglio di proposte dalle più semplici fino alle rarità di proposte in occasione di annate particolari.

Questo Vorberg è vinificato al 100% con uve di pinot bianco provenienti dall’omonimo cru posizionato tra 350 e 900 metri di quota; fermentazione, malolattica e affinamento svolti in legno grande.
Si comincia: vino molto bello alla vista, giallo paglierino squillante. Olfattivo ricco, intenso e complesso, principalmente frutta (melone, agrume, ananas), poi i fiori di camomilla e un accenno di minerale.

In bocca è molto pieno, grasso, robusto; azzarderei persino burroso ed opulento, certamente non coerente con un naso decisamente più fresco ed elegante.
Caldo, molto più sapido che fresco; i 13,5 gradi dichiarati si sentono tutti. In sostanza: il varietale del vitigno c’è, ma ancora di più si avvertono potenza e lunghezza.

Ovviamente non posso dire che non mi piaccia, ma la bevuta non è irresistibile come avrei immaginato: è un vino fatto molto bene e che ambisce ad una certa importanza, ma gli trovo il limite (perlomeno in questo momento evolutivo) di essere parzialmente irrisoluto tra un anima fresca e una volontà di struttura.
Lo riproverei con qualche manciata di mesi in più di cantina, e non escludo di averlo “preso male” io, magari partendo da aspettative sbagliate, o anche di aver incontrato una bottiglia un poco carente in freschezza.

Per quanto sopra, consiglio di consumarlo in abbinamento a preparazioni un minimo elaborate: non è il classico pinot bianco profumato da aperitivo.

 

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Lahaye Cuvée Prestige Blanc de Noirs

Denominazione: Champagne
Vino: Cuvée Prestige Blanc de Noirs
Azienda: Benoit Lahaye
Anno: – (cuvée)
Prezzo: 47 euro

champagne lahayeBenoit Lahaye è uno dei vigneron di culto delle (ormai neppure troppo) nuove tendenze champagnistiche che rigettano le grandi maison e vogliono la produzione bio-qualcosa.
Ho poche notizie su questa Cuvée Prestige Blanc de Noirs: proviene appunto da coltivazioni biodinamiche, credo in gran parte da Bouzy e il resto da Ambonnay; leggo in giro di una buona percentuale di vini di riserva, di malolattica parziale e di affinamento in legno.

Colore paglierino; naso intensissimo, quasi inebriante nella sua potenza, comunque complessa e suadente; è forse la parte migliore del vino: c’è il lievito (alla grande), poi l’agrume e, molto interessante, un tocco di grande freschezza (pino, anice e mela acerba); ad ogni modo il quadro cambia costantemente col passare dei minuti e aspettando il giusto arriva a far capolino anche il miele.

Bolla finissima, avvolgente e per nulla aggressiva, e poi sapidità e freschezza, con acidità notevole senza essere tagliente, e calore praticamente assente: un vino di ottimo equilibrio.
Corpo non eccessivo, non è certo un vino “ciccione”: qui la potenza del pinot nero è decisamente mitigata e si gioca sulle sottigliezze, difatti in bocca quasi si nasconde per un attimo, per poi tornare prepotente nel finale che chiude senza sensazioni amare.

Retrolfattivo molto lungo e dosaggio quasi inavvertibile; sicuramente tutte le fasi sono estremamente armoniche e danno vita a un grande vino, dove niente è fuori posto e che si berrebbe a secchi anche da solo, pur se il miglior consumo consigliabile è quello a pasto.

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Voltalacarta: serata cappon magro

Mi pare sia la terza volta in un anno circa che ceno da Voltalacarta, sempre in occasione di serate con menu predefinito: il ristorante punta molto su queste occasioni, proposte frequentemente secondo me con ragione, visto che permettono di richiamare un buon numero di clienti offrendo al contempo un menu interessante ad un prezzo ragionevole.

Il locale gode di discreto passaparola, cerca di impegnarsi con proposte non scontate a costi umani e lo chef è molto presente in città anche come docente in corsi di cucina: tutto bene dunque?
Non proprio: ogni volta che ci sono stato, ne sono uscito con un mix di sensazioni contraddittorie che non mi permettono di essere del tutto convinto.
Cerco di spiegarmi.

Il sito internet è desolante: da che lo frequento risulta perennemente “in allestimento” e rimanda ad un blog (gratuito su Blogspot) che si limita ad elencare le varie serate. Non ci sono la carta, la lista dei vini, una parola sui titolari… Nulla di nulla.
Il locale stesso è bruttino: la posizione sarebbe favorevole, in pieno centro di Genova con anche qualche parcheggio nelle vicinanze (a pagamento, ovviamente, ché i posti pubblici in zona sono drammaticamente limitati), ma la mancanza di finestre è abbastanza claustrofobica. Pazienza, d’altronde in città lo spazio è davvero limitato e immagino che i costi per un affitto migliore nei dintorni siano proibitivi.
Visto però che “i muri” sono quello che sono, un arredamento più curato e una maggiore attenzione ai dettagli potrebbero giovare: la verniciatura bicolore in molti punti sbeccata ricorda vagamente un vecchio ospedale, sottopiatti e tazzine sono dimenticabili, il mio tavolino era lievemente traballante e, pur con pochi posti a sedere, il ristorante risulta abbastanza rumoroso.

Il servizio è molto cortese, magari non eccessivamente professionale ma direi migliorato dalla volta scorsa, quando avevo scelto una bollicina che mi era stata portata in tavola senza ghiaccio e, a causa del prolungarsi della attesa, ero stato costretto anche a chiedere un tappo stopper. Stavolta il vino è arrivato correttamente accompagnato dal ghiaccio, sebbene la glacette sia di dimensioni davvero eccessive…

La carta dei vini è forse l’aspetto più deludente: a fronte di un ricarico corretto ci sono davvero troppo poche referenze e quelle presenti neppure particolarmente originali; non sono amante degli “elenchi telefonici”, ma tre paginette in cui alcune voci sono oltretutto segnate come “in arrivo”, sono davvero scarse. Senza svenarsi per una cantina leggendaria, basterebbe una selezione un filo meno minuscola ma più personale e curata, mantenendo un prezzo corretto.

Ma basta note negative. La serata era incentrata sul Cappon Magro, copio e incollo il menu:
“Sgombro cotto a bassa temperatura con basilico e verdurine
Tortino di polpo con patate prezzemolate e patè di olive Taggiasche
Involtino di spada con pinoli e uvetta in agrodolce
Cubo di salmone confit con spinacini scottati e cipolle rosse di Tropea caramellate
Cappon Magro VOLTALACARTA
Spuma di limone allo zafferano
Caffè & Kokkole VOLTALACARTA
ACQUA MINERALE NATURALE O FRIZZANTE
PANE E FOCACCINE VARIEGATE VOLTALACARTA”

Il pane e le focaccine sono abbondanti, molto buoni, originali e di tantissime tipologie diverse, davvero un plus: occorre controllarsi per evitare di mangiarne in quantità eccessiva.

L’ordine di servizio ha visto arrivare prima il tortino di polpo (piacevole) e poi, serviti assieme, i tre assaggi di salmone, spada e sgombro.
Il piatto è gustoso e le tre preparazioni ben concepite, in particolare il salmone con con le cipolle caramellate (ma gli spinaci c’entrano poco). Il problema è che potrebbero essere tre antipasti o persino tre portate distinte, e volerli integrare in una unica portata ha poco senso e a mio parere li mortifica un poco. Qualche problemino con la temperatura di servizio dello spada, leggermente troppo freddo.

Poi arriva il pezzo forte della serata, il cappon magro. Porzione abbondante (e al termine ci sarà chiesto se desideriamo un “secondo giro”), piatto riuscito e ricco come da tradizione di salsa, uova, verdure, crostacei eccetera. Peccato che, immagino per motivi di gestione delle porzioni e di impiattamento, non si tratti della fetta di una “simil-torta” ma di una preparazione dalla forma meno strutturata (mancano ad esempio la gelatina e la galletta che sorreggono il tutto).

Spuma di limone e zafferano: boh. Nel senso che ero davvero sazio quindi potrei aver equivocato, ma ho avuto l’idea che lo zafferano fosse troppo predominante, impedendo al limone di svolgere il suo compito di “detergente” del palato a fine pasto.

Conclusioni, le stesse delle mie altre volte: il prezzo pagato è corretto e ho mangiato bene, ma c’è qualcosa di non del tutto armonico in un ristorante che avvicina cortesia, originalità delle preparazioni e accuratezza nella presentazione a sbavature poco comprensibili (il sito internet inesistente, il locale bruttino, la carta dei vini risibile, qualche assaggio meno efficace); credo basterebbe poco per spiccare in un panorama genovese di certo non entusiasmante.

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Catarratto 2010, Porta del Vento: bio in Sicilia

Denominazione: Sicilia bianco IGT
Vino: Catarratto
Azienda: Porta del Vento
Anno: – 2010
Prezzo: 12 euro

catarratto 2010Conosco poco Porta del Vento, ma sono istintivamente ben disposto nei loro confronti: i primi tempi in cui ho iniziato ad interessarmi al vino con più serietà ho partecipato ad una degustazione dei loro prodotti e ricordo i proprietari come persone di grande semplicità e cortesia.

In breve: l’azienda è giovane, situata a Camporeale in provincia di Palermo. Le vigne di 25/30 anni sono coltivate a regime biologico a 600 metri di altitudine su terreno sabbioso, in una zona ovviamente estremamente ventosa.
L’attitudine è quella “naturalista” attualmente tanto in voga: sentite come descrivono il processo produttivo sul loro sito: “Il terreno viene zappato a mano lungo i filari, nessun uso di  prodotti di sintesi,  cerchiamo di comprendere e mantenere  l’equilibrio delle erbe spontanee, accrescendo  la biodiversità. La resa  è molto bassa circa quaranta quintali per ettaro.  La vendemmia  viene fatta a mano”. Poco da aggiungere, se non che la vinificazione avviene in acciaio e con temperature controllate.

Questo Catarratto in purezza è un vino giallo paglierino estremamente vivo, con intensi profumi floreali (acacia?) ma soprattutto minerali e iodati. In bocca è vibrante, di corpo importante, più sapido che acido ma comunque fresco. C’è un accenno che non riesco ad identificare, forse un tocco lieve di evoluto affatto sgradevole.

Magari non è elegantissimo, ma ha personalità, ed è molto dritto, verticale, con discreta  persistenza, e facilità di bevuta, semplice quanto interessante, in particolare in relazione al prezzo.

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Friska Barley

Birra: Friska
Azienda: Barley
Stile di riferimento: Blanche
Prezzo: 10 euro

friska barleyBarley è sicuramente uno dei migliori birrifici usciti dalla seconda ondata italiana, quella per capirci arrivata dopo la stagione dei pionieri Baladin e Biificio Italiano.

Piace del Barley la costanza produttiva, la solidità della gamma di prodotti, la pressoché totale mancanza di “famolostranismi”, collaborazioni, birre one-shot e altre amenità del genere, questo nonostante il birraio Nicola Perra sia uno sperimentatore: la sua favolosa BB10 è uno dei primi esempi italiani (se non il primo, vado a memoria) di commistione birra-vino e legame con il territorio (nel caso specifico, l’uso del mosto cotto di cannonau).
Piace anche che sulla etichetta sia stampato chiaro e tondo che si tratta di birra “non pastorizzata e non filtrata”, cioè quello che importa veramente: dell’inutile vocabolo “artigianale” facciamo a meno volentieri.

Piacciono meno il prezzo costantemente alto di tutta la gamma e la reperibilità non semplice ed esclusivamente in formato da 75, ma è un difetto cronico di quasi tutta la scena italiana, quindi ce ne facciamo una ragione.

Stasera torno ad assaggiare la Friska, che non bevevo da una vita, interpretazione riuscita dello stile blanche belga: birre estive, leggere, caratterizzate dalla speziatura con scorza d’arancio amara e coriandolo e dall’uso del frumento non maltato.

Colore giallo nettamente opalescente (la non filtratura è evidente), con schiuma non particolarmente persistente; naso molto elegante e pulito, con spezie a tutta forza, ma anche fiori bianchi (camomilla?) e agrumi.
In bocca, carbonica lieve e una leggera acidità che contribuisce a pulire il palato e invoglia al sorso successivo e assieme ai soli soli 5 gradi alcolici regala una conseguente grande facilità di bevuta. Amaro appena percettibile
Il corpo, comunque leggero, è più presente di quanto si immaginerebbe vedendola e c’è anche una discreta lunghezza.

Un prodotto estremamente dissetante, semplice e ben fatto, adatto a tutti, non solo ai super-appassionati (provate a far digerire al vostro vicino di casa certe pigne iper-amare o qualche mappazza imperial tanto di moda oggi), sicuramente di collocazione più estiva, ma piacevole comunque a tavola come aperitivo o in accompagnamento a pesce, insalate o formaggi freschi. Eviterei l’abbinamento con la classica pizza mozzarella e pomodoro.

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La Pierre de la Justice: 1er Cru abbordabile

Denominazione: Champagne
Vino: La Pierre de la Justice
Azienda: Laherte Frères
Anno: – (cuvée)
Prezzo: 35 euro

la-pierre-de-la-justiceUno champagne 1er Cru a meno di quaranta euro non è impossibile da trovare, ma certo non capita tutti i giorni.

Questo Blanc de Blancs “La Pierre de la Justice”, prodotto a Voipreux, al centro della Cotes des Blancs dalla azienda Laherte (da tempo a conduzione biodinamica, circa 70.000 bottiglie l’anno), proviene da una parcella del 1961 con rese necessariamente basse, vinificazione esclusivamente in acciaio, assemblaggio di vini con un 30% di vini di riserva e svolgimento della malolattica.

Ne risulta un vino dal colore tra paglierino e dorato, con bolla molto fine, non particolarmente numerosa e non troppo aggressiva.
Il naso è di mela verde e agrumi, limone e lievito (pasticceria); se lasciato nel bicchiere per alcuni minuti migliora, perdendo spigolosità e arricchendosi di intensità e complessità (ad esempio arriva una punta di anice).

In bocca parte leggero, quasi sfuggente, poi il corpo prende vita fino ad una media robustezza e chiude con forza, ricco di acidità e sapidità, ma senza squilibrio in favore delle durezze (immagino che la malolattica ci abbia messo del suo); le sensazioni olfattive sono confermate, accentuando forse troppo il limone ma aggiungendo una discreta mineralità. Peccato un minimo accenno di sensazione amara alla base della lingua.
Il dosaggio dichiarato è di 6-7 g/l, in effetti davvero poco avvertibile. Finale ben lungo.

Degno di nota, sul retro etichetta è riportata la data di sboccatura: nel mio caso (3/2011) non recentissima, e forse il vino avrebbe potuto essere anche migliore. Buttateci un occhio in caso di acquisto.

Anche se normalmente si pensa più ai Blanc de Noir per il pasto, trovo che “La Pierre de la Justice”, grazie al buon compromesso fra corpo, complessità e freschezza, sia adatto non solo ad antipasti ma anche a pietanze di discreta importanza.

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Hermitage Le Pied de la Cote 1998, Jaboulet

Le Pied de la Cote

Uno dei motivi interessanti nell’essere appassionati di vino è che non importa quanto sai o pensi di saperne: la bottiglia sarà sempre diversa ed è possibile che ti riserverà comunque qualche sorpresa. Ho usato il termine “interessante” e non “entusiasmante” non a caso, infatti non sempre le aspettative vengono confermate o esaltate con l’assaggio, e a volte capita anche la delusione.

Le Pied de la Cote E una delusione (parziale, in realtà) è stato questo vino: certo, è un prodotto-base che immagino fatto con le uve non giudicate idonee al più prestigioso La Chapelle, ma il produttore Jaboulet gode di buon nome, la AOC (la nostra DOC, per capirci) Hermitage è di quelle prestigiose (siamo nella zona Nord del Rodano) e l’invecchiamento inizia ad essere rilevante.

Il risultato è quantomeno curioso: i descrittori canonici di un Syrah al 100% sono un bel colore rubino squillante, evidente speziatura di pepe nero al naso, struttura e morbidezza in bocca, mentre invece questo Le Pied de la Cote è granato non vivacissimo, di discreta consistenza, con naso abbastanza intenso e, appena stappato, totalmente dominato da un ribes persino troppo schietto.
Migliora con il passare delle ore, quando esce qualche altro piccolo frutto rosso, il sottobosco, la terra, il sangue, ma è praticamente assente il tipico varietale del syrah

In bocca è abbastanza caldo, e di discreta morbidezza; l’attacco è leggermente amabile e persino giovanile per freschezza; il tannino è presente, deciso ma piacevolmente arrotondato. Al gusto torna il ribes e poco altro. Non c’è grande materia e non è particolarmente lungo.
Non lo capisco bene: da un lato sembra ancora ben vivo (per acidità e tannino), dall’altro il colore e gli aromi monocordi sembrano quelli di un vino più stanco.
Il risultato è un prodotto tutto sommato anche piacevole ma di sicuro non entusiasmante (anche in ragione del prezzo) dal quale forse mi aspettavo troppo.
Sui 35 euro in enoteca.

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Bolle per tutti: i vini spumanti

Tempo di feste uguale tempo di vini con le bollicine.

Non mi è ben chiaro per quale motivo, ma in generale in Italia questa tipologia di vino si consuma quasi solamente sotto l’albero o comunque in momenti di celebrazione, magari con vini secchi in criminale abbinamento al panettone.
Detto che per me le bolle sono uno dei piaceri della vita e che mi faccio promotore di un comitato che ne sponsorizzi il consumo se non quotidiano perlomeno settimanale, credo di fare cosa gradita (dopo aver sentito vari discorsi in la confusione regna sovrana su dosaggio, metodo di lavorazione ecc) proponendo la mia semplificazione sulla faccenda.

Intanto facciamo chiarezza sulla principale differenza: la spumantizzazione può avvenire o con Metodo Classico (anche detto della rifermentazione in bottiglia o champenoise) o con Metodo Martinotti-Charmat (solita diatriba italo-gallica: Martinotti lo ha ideato e il francese lo ha utilizzato e brevettato).
Esiste anche un metodo, poco usato, detto “Charmat lungo”, che è una sorta di ibrido dei due.

Il Metodo Martinotti-Charmat:
è particolarmente indicato per vini spumanti prodotti da uve aromatiche o semiaromatiche (brachetto, moscato, prosecco/glera, malvasia), con le quali si ottiene un prodotto semplice, da bere giovane, con colore tenue verdolino/paglierino, fruttato e di gradevole freschezza, che può essere secco, amabile o dolce.
Si parte da un vino base, fermo, a cui viene aggiunto un “liquore di tiraggio”, composto da vino, lieviti, zuccheri e sali minerali, grazie al quale in autoclave (un contenitore ermetico resistente alla pressione) avviene la presa di spuma, che dura pochi mesi, nei quali i lieviti convertono gli zuccheri in alcol e anidride carbonica; la quantità di zucchero determina la pressione finale (una atmosfera ogni quattro grammi/litro).
Seguono la filtrazione e l’imbottigliamento isobarico (cioè mantenendo la pressione originale).

Il Metodo Classico o Champenoise:
si ottiene un prodotto più maturo, complesso e strutturato rispetto al metodo Martinotti.
Le uve vengono raccolte leggermente in anticipo (in modo da ottenere maggiore acidità) e trattate con pressatura soffice e temperatura controllata; di solito la fermentazione viene innescata con l’inoculo di un “pied de cuve”, composto da lieviti, zuccheri e altre sostanze nutrienti.
Si ottengono così dei vini base da assemblare nella “cuvée”, una miscela di diverse vigne e annate, creata per garantire costante lo stile gustativo della casa di produzione. Se  la cuvée è composta da almeno l’85% dei vini della stessa annata, si può parlare di “millesimato”, altrimenti di “sans année”.
La cuvée con in aggiunta il “liquore di tiraggio” viene imbottigliata in modo da ottenere la presa di spuma, con una pressione generalmente di 6 atmosfere (24 grammi/litro di zuccheri).
Nel giro di circa sei mesi il lievito consuma tutti gli zuccheri e si degrada con processo di autolisi, che regala aromi e profumi complessi, spesso di crosta di pane; questo affinamento “sui lieviti” si prolunga da 15-18 mesi a molti anni, a seconda del produttore e del prestigio del vino che si vuole ottenere.
Terminato l’affinamento, le bottiglie vengono inclinate e ruotate periodicamente per un paio di mesi: è il “remuage”, che ha lo scopo di concentrare tutte le fecce nel collo della bottiglia. Questi scarti verranno espulsi tramite la “sboccatura”: la bottiglia viene stappata e la sovrapressione espelle le fecce.
Prima di ritappare, occorre rabboccare la bottiglia per compensare il liquido perso con la manovra di sboccatura: la manovra viene effettuata tramite il “liquore di spedizione”, una miscela di zucchero, vino e a volte distillato diversa da produttore a produttore e che determina la dolcezza finale del prodotto.

La classificazione dei vini spumanti è basata sulla quantità di zuccheri residui nel prodotto finale:

Denominazione Zuccheri residui (g/l)
Pas dosé / Brut nature / Dosaggio zero ecc. <3
Extra brut <=6
Brut <12
Extra dry 12-17
Dry 17-32
Demi sec 32-50
Doux >50

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Brewdog: scoiattoli imbalsamati dalla Scozia.

BrewdogPer farsi una idea di cosa sia il birrificio scozzese Brewdog credo sia sufficiente vedere la grafica del sito e leggere come loro stessi descrivono le loro birre: “Rock’n’roll american session ale”, “Iconoclastic amber ale”, “Post modern classic pale ale”, “Twenty first century black ale”, “Explicit imperial ale”, “Intergalactic fantastic oak aged stout” e via cazzeggiando.

Non bastasse, potrei ricordare le boutade degli scorsi anni, partendo dalle IPA in viaggio per due mesi sull’Oceano, passando alla birra chiamata Speedball e alle conseguenti polemiche, per arrivare alla gara con i tedeschi di Schorschbock per stabilire il vincitore del dubbio titolo di birra più alcolica del mondo (terminata ovviamente con la schiacciante vittoria degli scozzesi, grazie alla sobrietà della “End of the history” venduta all’interno di uno scoiattolo o di un ermellino imbalsamati; n.b.: gradazione di 55% e prezzo da 500 a 700 sterline!).
BrewdogPotrei scrivere anche che Brewdog non si è fatta mancare le ormai canoniche birre tirate in serie limitata e le altrettanto obbligatorie collaboration beer con altri birrifici in voga, le baruffe con il partito dei tradizionalisti della birra inglese (il solitamente santificato CAMRA), i video Beer Golf, in cui prendevano a mazzate lattine e bottiglie dei produttori di birra-spazzatura mainstream. Eccetera eccetera.

Potrei scrivere ancora tanti eccetera, ma al netto di tutto l’hype resta il fatto che un birrificio nato dall’idea di due amici (James Watt e Martin Dickie) nel 2006, che ha prodotto le prime birre nel 2007, che ha venduto al pubblico 10.000 quote societarie nel 2009 e che ha iniziato ad aprire pub di proprietà nel 2010, è oggi un marchio ben noto in tutto il mondo nel circuito degli appassionati e non solo, che sforna circa un milione e mezzo di bottiglie l’anno e le esporta a più non posso.
Dire quindi che la strategia del casino mediatico è servita ad ottenere un successo strepitoso è quasi un understatement, ma ricondurre questo trionfo alla sola abilità di marketing sarebbe ingiusto e riduttivo: in Brewdog, con gli alti e bassi del caso e facendo la tara agli estremismi fini a sé stessi, se e quando vogliono, le birre le sanno fare!

Certo, gran parte della fama del birrificio deriva da una serie di prodotti “famolostrano” (a parte quanto già ricordato, cito a caso la serie Paradox, passata in botti di whisky, e la Nanny State, da circa 1% di grado alcolico), ma credo che un grande merito degli scozzesi sia l’essere stati tra i primi della nuova ondata dei birrifici indipendenti / di qualità (chiamateli come volete, ma vi prego non “artigianali”, che è una parola che non ha più alcun senso) a tenere un prezzo medio accettabile, ad entrare nel circuito dei supermercati e a sdoganare la lattina come contenitore per un prodotto non dozzinale: oggi è possibile andare al Carrefour e trovare, accanto alle abominevoli Nastro Azzurro e alla esose Baladin, le latte della Punk IPA a meno di tre euro. Certo, a me sembra solo parente della birra dei primi tempi, e molto probabilmente è pastorizzata o perlomeno filtrata pesantemente, ma è comunque più che potabile in relazione al prezzo.

Il proposito dei prossimi giorni è dunque quello di comperare le Brewdog che trovo al supermercato ed assaggiarle per voi. Vedremo assieme cosa ne esce.

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La cena del sommelier Gennarino Carunchio

Gennarino CarunchioDa quanto tempo non provate una robusta, sana, ruspante invidia sociale? Non intendo una di quelle gelosie tipiche di questi tempi oscuri per la quale tu, disoccupato, provi odio nei confronti del tuo vicino di casa che ha ancora il salario da camionista, ma proprio quel desueto senso anni settanta di appartenenza ad un classe diversa, inferiore.
Insomma, da quanto non vi sentite Gennarino Carunchio?

A me è capitato la scorsa settimana.
Gradito ospite-Calimero ad una “cena prestigiosa” (si dice così, vero?) nella quale sono stati bevuti vini che definire colossali è un eufemismo, con la mia foga da eno-parvenu ho avventato per primo il naso nel bicchiere di un Margaux 1971 e mi è balzato alla mente De André: “La morte verrà all’improvviso, avrà le tue labbra e i tuoi occhi”, e, ho aggiunto, il tuo olfatto.
TAPPO!
Ho alzato timidamente la manina per comunicarlo agli altri commensali, che hanno concordato: è proprio tappo.

Ora, il mio elenco di smoccolamenti assortiti potete immaginarlo: quando mai ricapiterà a me, Carunchio Gennarino, di sedere nuovamente al desco dei Signori per assaporare il nettare divino? Ingenuamente pensavo però che anche i Re, nel loro piccolo, si incazzassero: è qui che sbagliavo, è qui che ho capito la differenza che corre tra me e gli Onnipotenti ed è qui che si è risvegliato il mio sopito stimolo alla invidia di classe.
Per farla breve, il proprietario della bottiglia non ha fatto un plissé e, con tutta la calma e la serenità del mondo, intercalando tra un discorso e l’altro, ha dichiarato sorridendo: “Pazienza, apriamo Château Ausone ’75”.
Stop. Nessuna litania sui santi o testata contro il muro. Questa è classe, caro Gennarino!

Facezie (insomma…) a parte, l’invito di un amico gentile (che mai potrò ringraziare abbastanza) mi ha permesso di imbucarmi all’evento; ovviamente ci tengo a raccontarvi tutto, così da farvi rodere il fegato alla grande e controbilanciare la mia invidia di cui sopra con un sapiente colpo di karma.

ChampagnePronti via: con gli antipasti abbiamo stappato due Champagne: Salon 1985 e Bollinger R.D. 1988.
Chi legge il blog conosce forse il mio amore per le bollicine, ma qui siamo fuori scala: intanto vini perfetti, senza ombra di sfregio da parte del tempo, che anzi ha contribuito ad evolvere il profilo gustativo verso vette difficilmente immaginabili.
In entrambi i casi la bolla è ancora vitale e copiosa, ma talmente sottile e delicata da risultare cremosa; Salon in particolare si presenta già dal colore, quasi ambrato, come qualcosa di “altro” rispetto ad un normale Champagne: trasfigurato in una dimensione a sé, nettamente evoluto ma sapido, complesso in maniera imbarazzante, con note che dal miele di acacia arrivano al caseario, passando per la canonica pasticceria. Monumentale.
Bollinger: appena versato parte più tranquillo, più Champagne nel colore e con un corredo aromatico meno ampio (si fa per dire) e meno intenso, ma dalla sua ha maggiore freschezza e mineralità e, nonostante una potenza superiore (immagino regalata dal Pinot nero) è forse più adatto agli antipasti. In ogni caso col passare dei minuti diventa più intrigante: si infittisce la sapidità e si rinforzano la crosta di pane e la mela ed esce un accenno di fungo.

Clos de BezeCon la prima portata è arrivato il signore e padrone incontrastato della serata: Chambertin Clos de Beze 1987 Luis Jadot.
Classico colore da Borgogna, scarico ma ancora vivissimo, è soprattutto l’olfattivo ad impressionare: c’è tutto quello che vi viene in mente e anche di più, il piccolo frutto, la terra, il bosco, il balsamico, il selvatico e persino un accenno di agrume maturo. Da manuale AIS sarebbe ampio, molto intenso ed eccellente. Da assaggiatore, chiudi gli occhi e sei in mezzo ad una collina francese. Stop.
In bocca è altrettanto perfetto: è caldo ma l’alcol non si sente per nulla, è fresco ma l’acidità non graffia, e il tannino è lieve e setoso.
Il Pinot nero nella sua massima espressione, una bottiglia aperta credo nel momento di massima grazia in cui nessun elemento spicca o ne sovrasta un altro e tutto si fonde in un insieme per descrivere il quale occorre, una volta tanto a ragione, scomodare il mitico termine “armonico”
In una parola: il Vino con la V maiuscola.
Nota a margine: il problema di una bottiglia del genere è che d’ora in poi ogni altro assaggio uscirà impietosamente demolito dal confronto: dovrò darmi al chinotto o alla aranciata.

Château AusoneDi Château Margaux e del relativo tappo abbiamo parlato, quindi passiamo a Château Ausone ’75. Vino enigmatico: arriva completamente muto, del tutto chiuso nonostante l’apertura effettuata due ore prima e la seguente scaraffatura.
Ci vorranno ancora molti minuti e tanti giri di polso per stanarlo: il colore è ancora giovanissimo e concentrato, finalmente escono gli aromi e c’è un sorprendente e nettissimo caffè, poi spezie in quantità e un tannino vivo, ben definito e piacevole.
Interessante, ma siamo ad anni luce dal Clos de Beze.

SauternesSi chiude la partita con gli erborinati, accompagnati da Château Suduiraut 1975.
I vini dolci non sono il mio terreno di gioco preferito, ma non posso fare a meno di ammirare la grandezza di questo Sauternes: alla vista colore carico, brillante e densità non eccessiva per la tipologia; al naso tutta la declinazione del muffato nobile, la frutta secca, l’albicocca disidratata, il miele, la frutta tropicale e soprattutto uno zafferano immenso, inarrestabile.
L’assaggio ripropone le stesse sensazioni dell’olfattivo, in più è lunghissimo, di una persistenza oltre ogni confine: trascorsa mezz’ora dopo aver mangiato i formaggi, avevo ancora lo zafferano in bocca…

In conclusione, che dire della serata?
Ho imparato sicuramente qualcosa, in primis che il sentimento dell’invidia mi appartiene e mi consuma nonostante io non voglia, ma a parte questo ho capito che esistono vini di una finezza che fino ad oggi avevo solo immaginato, e che purtroppo sono riservati a pochi, fortunati semi-mortali.
E mi sono accorto che, per noi Gennarini, una batteria di questo calibro è troppo, in particolare se abbinata ad una cena quasi altrettanto sontuosa: tutta questa grazia ti assale e ti sovrasta, e ti rende quasi incapace di capire e di godere appieno: non arrivo ancora a pensarla in toto come Francesca, ma quasi quasi…

 

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