Rossese Anfosso: piccola Borgogna in Liguria

Bella degustazione, quella di ieri presso la Cantina du Pusu di Giovanni Tassara.
Protagonisti dell’ennesimo appuntamento del fine settimana in avvicinamento al Natale , sono stati i Rossese di Tenuta Anfosso.

Tenuta AnfossoFaccio mea culpa: non ho mai dato l’importanza dovuta a questa DOC, forse perché è un nome dal blasone meno scintillante rispetto ad altre denominazioni, forse perché (come spesso accade) ci si interessa più facilmente alle cose lontane rispetto a quelle sottocasa, certamente perché per indole sono più appassionato di vini bianchi.

Sbagliavo, perché la realtà di provenienza è affascinante: territorio impervio, piccole aziende, coltivazione tradizionale ad alberello, vigne spesso decisamente vecchie o antiche (nel caso di Anfosso alcune piante risalgono addirittura al 1888); in aggiunta, le notevoli differenze territoriali e di microclima, danno vita ad una serie di cru dalle caratteristiche particolari ed uniche.
Soprattutto sbagliavo perché la batteria di Anfosso di ieri era addirittura entusiasmante.

Due note al volo sul produttore: 4 ettari di terreno per circa 20.000 bottiglie, coltiva due cru (ma ci ha raccontato di aver appena acquisito un terzo): Luvaira e Poggio Pini. Vinificazione in acciaio con temperature controllate.

I vini assaggiati:

  • Rossese di Dolceacqua 2011
  • Rossese di Dolceacqua Luvaira 2010
  • Rossese di Dolceacqua Poggio Pini 2010
  • Rossese di Dolceacqua Luvaira 2009
  • Rossese di Dolceacqua Luvaira 2008
  • Rossese di Dolceacqua Poggio Pini 2008
  • Rossese di Dolceacqua Luvaira 2007
  • Rossese di Dolceacqua Poggio Pini 2007
  • Rossese di Dolceacqua Poggio Pini 2006

Tenuta AnfossoLa traccia comune è quella di vini di grande finezza ed enorme bevibilità, con bei colori vivi e mai concentrati, aromi ricchi di speziatura, tannini mai aggressivi e acidità e sapidità spiccate ma mai fuori controllo: vini di grande equilibrio, finezza ed armonia, certamente perfetti per pasteggiare, pronti fino da subito ma capaci di buon invecchiamento.

Alcuni dettagli dei vini che mi hanno dato più emozione: Il 2010 in entrambi i cru, in particolare il Luvaira, è di beva irresistibile, perfetto già da ora, promette di diventare un campione. Da comperare e dimenticare per alcuni anni, se possibile.
I 2008 risultano essere i più muscolari del lotto, ed iniziano ad evidenziare più nettamente le differenze dei due cru: più “dritto”, fresco, scattante il Luvaira, più evoluto, complesso, ricco il Poggio Pini.
Nel 2007 la distinzione dei due vigneti è nettissima, e, a mio modo di vedere, regala la vittoria al Luvaira, che abbina acidità e mineralità di un ragazzino alla complessità aromatica di un vino evoluto. Grande vino.
Interessantissimo il Poggio Pini 2006:decisamente evoluto, presenta precisa coerenza tra colore granato e gusto-olfattivo ricco di terziari; azzarderei un vino già da dopo pasto.

Da non trascurare: vini così godibili sono acquistabili a prezzi del tutto abbordabili.

 

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Malvasia Skerk: il Carso in bottiglia

Malvasia Skerk

[Disclaimer: bottiglia gentilmente omaggiata da Avionblu nell’ambito della iniziativa “15 recensioni in cerca di autore”. Il prezzo dovrebbe aggirarsi attorno ai 20 Euro]

Malvasia SkerkChi legge malvasia non si aspetti un vino dolce, o comunque docile e arrotondato, che qui siamo nel cuore del duro Carso e Skerk è una azienda priva dei bollini bio-tutto tanto di moda ma sicuramente legata ad una produzione veramente tradizionale: circa 20.000 bottiglie l’anno, in vigna vengono usati solo zolfo e rame. in cantina si svolgono lunghe macerazioni in tini aperti, nessun controllo della temperatura, nessuna chiarifica e filtrazione, si usano solo lieviti autoctoni e si limita al massimo la solforosa.

Ne deriva un vino giallo paglierino carico, con una lieve velatura dovuta alla mancanza di chiarifica, all’olfatto abbastanza intenso e di buona complessità: sicuramente minerale (salmastro); si percepisce un tocco di floreale e distintamente la nespola; attendendo e scaldandolo arriva il balsamico e si rivela la aromaticità varietale della malvasia, che sfuma in frutta candita.

In bocca è secchissimo; buona la freschezza, ma a risaltare è la enorme sapidità, evidente richiamo al territorio.
C’è anche un leggero tannino, evidentemente donato dalla lunga macerazione sulle bucce.
L’unico limite che ho riscontrato è una certa carenza di corpo, che, se da un lato rende la bevuta facile nonostante i 13,5 gradi, ne mortifica un poco le grandi potenzialità.

Solitamente sono restio ad usare l’aggettivo “territoriale”, che sembra essere diventato uno degli eno-mantra del periodo, ma se esiste un vino-specchio del suo terroir, di una terra dura, povera e sferzata dal vento, lo è questa Malvasia, che si rivela vino molto interessante, in grado certamente di farsi bere con piacere dai consumatori occasionali, ma soprattutto di raccontare storie e immagini ai bevitori più attenti.

L’abbinamento consigliato sul sito è pesce e carni bianche; secondo me, il grado alcolico e la lieve carica tannica fanno pensare anche a zuppe di pesce o formaggi di media stagionatura.
Direi di servirla appena fresca, per non mortificare lo spettro olfattivo e non indurire il tannino.

 

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Bollinger Special Cuvée: classico senza tempo

Bollinger special cuveeGià dire che ti piace lo Champagne è da sboroni, ma aggiungere che uno di quelli che preferisci è Bollinger rasenta l’indifendibile.

La maison di Ay non è infatti uno dei piccoli récoltant-manipulant che vanno oggi per la maggiore, magari biologici o biodinamici, ma uno dei grandi marchi storici della regione: è stata fondata nel 1829, gestisce oltre 150 ettari di vigne ed è stata una delle prime a capire l’importanza del marketing (quale Champagne pensate bevano molti dei James Bond cinematografici?).

Quindi, a rischio di fare la figura del parvenu arricchito (magari…), mi sono fatto un regalo: ho investito 49 euro in una bottiglia di Bollinger Special Cuvée, uno dei vini che preferisco in assoluto.
Si tratta del prodotto base di Bollinger, come dice il nome stesso una cuvée, quindi un assemblaggio di diverse annate e diversi cru, composto da 60% Pinot nero, 25 Chardonnay, 15 Pinot Meunier.
Le uve provengono quasi totalmente dalla vendemmia dell’anno, più il 10% circa di vini di riserva, che possono essere raggiungere fino a quindici anni di invecchiamento.

I vini base da cui la maison ricava i suoi Champagne, fermentati in legno di rovere, sono ovviamente di livello notevolissimo, basti pensare che l’85% circa dei vigneti di proprietà è classificato Grand Cru o Premier Cru e la vinificazione è fatta solo con la prima spremitura delle uve (2050 Litri ogni 4000 Kg di uva; la seconda spremitura, detta “première taille” viene venduta ad altre cantine).
Inoltre Bollinger lascia maturare sui lieviti per almeno tre anni (i non millesimati, molti di più i grandi vini), contro i quindici mesi previsti dal disciplinare

Ok, bei discorsi, ma alla fine come è questa Special Cuvée?
Giallo dorato brillante, mentre si versa forma una spuma esplosiva: gonfia e persistente, così come le bolle, numerose e finissime e setose, per nulla aggressive al palato.

L’olfattivo è ricchissimo: pan di spagna, limone, ananas, arachidi, leggera speziatura e tostatura.
Ricordo che una volta, a proposito dello stesso vino, lessi il descrittore “olio di semi di girasole” e mi sembrò una minchiata colossale, ma in effetti ce n’è un ricordo.

In bocca è ben secco ma non tagliente, più fresco che sapido, pieno senza essere opulento: la potenza del pinot nero è ben controllata dal corpo e dall’assemblaggio con gli altri vitigni, così come le durezze sono stemperate dalla malolattica e dal leggero dosaggio (otto, nove grammi per litro). Tornano la panificazione e la sensazione citrina.
Finisce elegante, con un retro olfattivo abbastanza lungo.

Sicuramente da consumare a tutto pasto, ma stasera io sono pigro e degusto con prosciutto San Daniele, parmigiano e focaccia genovese: grande abbinamento, semplice e da piacere puro.
Un pochino mi vergogno, pensando che un vino del genere meriti di più, ma poi vedo il sito di Bollinger e sorrido: nei “Pairings” (abbinamenti) consigliati, si indicano tra gli altri “parmesan, prosciutto especially Pata Negra”.

Vale i soldi che costa? Sì, no, forse.
Esiste un vino che valga più di 15 euro? E’ morale spendere quarantanove sacchi per una bottiglia?
Io non so rispondere e so che sicuramente non posso permettermelo tutti i mesi, ma di certo per chi ama le bollicine è una esperienza notevole.
Ci tengo a far notare che uno dei punti di forza di maison come Bollinger è la costanza: quando tiri fuori i soldi sai cosa comperi e sei certo che non ci saranno sorprese.
C’è meno poesia rispetto al “prodotto unico”, forse, ma visto l’impegno economico direi che ne vale la pena.

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…qu’ils mangent de la brioche

Non ho idea se voi lettori siate tipi simpatici. Non so neppure se vi piace lo champagne, ma immagino di sì.
Nel caso foste simpatici e amanti dello champagne, potreste allearvi con Bibenda per combattere la crisi!

Franco Ricci - Maria AntoniettaA me era sfuggito, ma Andrea Petrini di Percorsi di vino ha prontamente riportato sul suo sito l’imperdibile iniziativa del Direttore di Bibenda, Franco Ricci, e io lo ringrazio, perché rischiavo di perdermi la splendida opportunità di fare del bene al mio Paese, incoraggiando la ripresa con la semplice prenotazione dell’Evento dell’anno.
Del resto, cosa sono 250 Euro (o 500, camera inclusa) di fronte al luminoso futuro della Patria?

Il titolo è chiaro, così bello in maiuscolo: “A ROMA / BIBENDA AUGURI DI NATALE! INSIEME CONTRO LA CRISI”.
Non fosse stato per Petrini avrei rischiato di non far parte del coraggioso manipolo dgli “80 lettori simpatici” che per donare slancio all’economia della nostra amata Italia, il 20 Dicembre saranno disposti ad immolarsi degustando “caviale, crudi di pesce, frittini, prosciutto crudo, spaghetti cacio e pepe… e panettone”.

Tra una sganasciata di Beluga e un sorso di Champagne agguantato dal “contenitore colmo di ghiaccio”, mi vedo sin d’ora impegnato a risolvere il fastidioso problema degli esodati o lo sconveniente disagio della caduta del PIL.
Mi si arrota già la erre se mi immedesimo nella illuminata borghesia che si aggirerà corrucciata per la Sala Belle Arti, angosciata al proponimento di far fronte alla calante produttività delle nostre aziende mentre doverosamente sbocconcella distratta un boccone di sushi al suono della “famosa band Bibenda”.
Fortunatamente, a stemperare la tensione ci penseranno le “barzellette di Ubaldo”!

Maria Antonietta e il suo celebre “S’ils n’ont plus de pain, qu’ils mangent de la brioche” sono nulla di fronte allo Champagne scacciacrisi ideato da quel gran cuore del Ricci.

Che grande idea! Grazie, Franco Maria!

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Germany reduced: la classificazione tedesca per tutti.

Si dice che i tedeschi son gente seria, precisa, sistematica, lineare.
Per carità, immagino sia vero… magari per tutto meno che per la classificazione dei vini, che è di un incasinato micidiale. In più, certo, non aiuta la lingua…

Cerco di fare chiarezza, premettendo che l’intento è di semplificare anche a scapito di un minimo di approssimazione.
Disclaimer: questa classificazione è valida solo per la Germania: in Austria ci sono alcune differenze.

Ripe grapes of Riesling.
Tom Maack, Riesling grapes and leaves. Rheingau, Germania, Ottobre 2005

La classificazione si basa sulla regione di origine, sulla eventuale aggiunta di zucchero e sulla maturazione delle uve; in più si appoggia alla scala Oechsle, un metodo di misurazione della maturazione e dello zucchero basato sulla densità del mosto ideato da Ferdinand Oechsle.
Facendola facile, i gradi Oechsle (Oe) indicano di quanti grammi un litro di mosto supera il peso di un litro di acqua; poiché la differenza è causata praticamente solo dallo zucchero disciolto nel mosto e poiché l’alcol del vino è dovuto alla conversione dello zucchero da parte dei lieviti, è chiaro come la scala sia usata per predeterminare il potenziale alcolico del vino finito.
La parola chiave è “potenziale”: non è detto che tutto lo zucchero venga svolto in alcol, in questo caso avremo un vino più o meno dolce.

Alla base della piramide ci sono i Tafelwein (vini da tavola), che devono essere prodotti in una delle regioni autorizzate, devono raggiungere almeno i 44° Oe (corrispondenti ad un alcol potenziale del 5%) e il contenuto alcolico finale deve essere di almeno 8%, che può essere ottenuto anche con l’arricchimento di zucchero.

Il secondo step sono i Landwein. La provenienza deve essere da zone determinate, il contenuto alcolico finale superiore dello 0.5% rispetto ai Tafelwein e il vino deve essere secco (troken) o semisecco (halbtrocken).

A seguire iniziano i “vini di qualità”: Qualitätswein bestimmter Anbaugebiete (brevemente detti QbA, vini di qualità prodotti in regione determinata): provenienza da 13 regioni autorizzate, grado Oechsle compreso tra 51°Oe e 72° a seconda della zona di raccolta e contenuto finale di alcol almeno 7%. E’ ammessa la aggiunta di zucchero al mosto.

Arriviamo poi ai Prädikatswein o Qualitätswein mit Prädikat (QmP, vini di qualità superiore). Questi non possono subire l’arricchimento con aggiunta di zucchero, possono coprire tutta la gamma da secco a dolce, devono essere prodotti con uve provenienti da ben definite sottoregioni delle 13 autorizzate ai QbA e sono ulteriormente classificati con la scala seguente:

  • Kabinett: possono essere semidolci (lieblich), semisecchi (halbtrockeno secchi (trocken). Devono avere almeno 73° Oe.
  • Spatlese: da uve raccolte con vendemmia tardiva, quindi con maggiore concentrazione zuccherina (almeno 85° Oe). I vini possono andare da secchi a dolci.
  • Auslese: vendemmia selezionata di uve raccolte manualmente, che possono essere state già attaccate dalla muffa mobile, la botritys cinerea. La concentrazione di zucchero deve essere almeno 95° Oe, e anche stavolta il vino finito può essere secco o dolce.
  • Beerenauslese: vendemmia di acini selezionati. Gli acini devono essere raccolti a mano scegliendo quelli attaccati dalla muffa nobile o almeno surmaturi. Il vino finito è solo dolce, in quanto gli almeno 125° Oe non si riescono a convertire interamente in alcol.
  • Trockenbeerenauslese: vendemmia di acini selezionati vecchi. Gli acini devono essere o botritizzati o appassiti sulla pianta, in modo da ottenere almeno 150° Oe. Il vino finito è dolce.

Fanno categoria a parte gli Eiswein (vini del ghiaccio), ottenuti da uve vendemmiate a Novembre o Dicembre quando gli acini (non intaccati da muffa nobile) sono ghiacciati, ottenendo mosto concentrato naturalmente, in quanto durante la pressatura si elimina la parte ghiacciata (sostanzialmente acqua). Il mosto deve avere almeno 125° Oe e il vino finito è solo dolce.

[Update: c’è una appendice a questo articolo: Germany reduced: la classificazione tedesca per tutti (reprised)]

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L’oroscopo in vigna: biodinamica for dummies

Rudolf SteinerRudolf Steiner si è occupato di filosofia, di pedagogia, di esoterismo, di sociologia, di antropologia, di musicologia.
Rudolf Steiner è morto nel 1925.

Scrivo questi dati per ricordare a quale distanza socio-temporale facciamo riferimento quando parliamo di biodinamica: Rudolf Steiner è infatti l’ispiratore di questo metodo di coltivazione.
Un tempo nel quale, per fare alcuni esempi, Herry Ford aveva da poco inserito la catena di montaggio nel suo processo produttivo, il cinema diventava sonoro, nasceva il partito comunista cinese di Mao Tse-tung e Mussolini diventava capo del governo.
Un tempo in cui un uomo, Steiner appunto, poteva aver studiato matematica e fisica e poi diventare curatore delle opere di Goethe, credere alla reincarnazione, inventarsi una “arte del movimento” chiamata Euritimia, dirsi sicuro della vita su Saturno, formulare le basi di una medicina alternativa detta antroposofica.
Eccetera eccetera (tanti eccetera).
Per inciso, la medicina antroposofica (che ovviamente non ha alcun riconoscimento da parte della scienza medica) è una di quelle teorie squinternate che, per dirne una, cura il tumore con l’estratto di vischio…

Ora, il povero Steiner era uomo del suo tempo, sicuramente colto, ma dire che tante delle idee alla base delle sue teorie siano, al meglio, obsolete, se non del tutto prive di qualsiasi fondamento scientifico o del tutto strampalate dovrebbe essere una banalità. Invece…

Invece una delle parole d’ordine dell’enomondo attuale è “biodinamico”, un termine figo, quindi molto più voga dell’ormai assodato “biologico”. Peccato siano in pochi tra i consumatori a sapere davvero cosa ci sia dietro alla parolona magica.

Prima di procedere a spiegare, vorrei raccontare un aneddoto: lo scorso anno sono stato in Trentino a visitare un Noto Produttore biodinamico; grandi vini, ottima ospitalità, cantina meravigliosa.
Ad un certo punto vengo fatto entrare nella barricaia e c’è una musica accesa; l’addetto alle visite mi racconta che il suono e le vibrazioni accompagnano l’affinamento dei vini. Vabbè.
Poco dopo mi fanno notare con orgoglio che sui muri ci sono dei piccoli tubi: i cavi della corrente elettrica passano all’interno di questi e sono “annegati” in un gas inerte per minimizzare l’influsso dei campi elettromagnetici.
Vabbè.
Un istante dopo, non posso fare a meno di notare a pochi metri di distanza una antenna ripetitore per telefono DECT. Non vado oltre per non insultare l’intelligenza del lettore.

Dunque, cosa è la agricoltura biodinamica?
Brevemente e per accenni: un metodo di coltura “fondato sulla visione spirituale antroposofica del mondo”, in cui più ogni sostanza è diluita, più ha effetto sugli organismi con cui viene a contatto. Per migliorare la qualità del terreno vengono così creati dei “preparati” (in diluizione tale da, secondo le leggi della chimica, non aver più nessuna parentela con la sostanza di partenza) poi usati o per il compostaggio o spruzzati sulle piante, non prima però di essere stati conservati dentro a parti di corpi animali (es. corna svuotate di vacche che abbiano già partorito!).
Date le premesse non stupisce che si dia grande importanza alla astrologia (sì, proprio gli oroscopi), che si parli di “forze cosmiche e spirituali” e di “energia vitale” della materia.
Senza proseguire oltre, rimando chi volesse approfondire a questo bel articolo di Dario Bressanini.

Con questo non voglio demonizzare la agricoltura biodinamica: la sua ideazione precede lo sviluppo della agricoltura biologica e ne incorpora molti aspetti pregevoli, come ad esempio la pratica del sovescio e il non uso di fitofarmaci, fertilizzanti, erbicidi e pesticidi di sintesi.
Sono sicuro ci siano moltissimi vignaioli che abbracciano questa filosofia misticheggiante come estrema riverenza nei confronti della natura dei loro terreni, convinti di ottenere in questo modo prodotti migliori e più sani possibili, e sono anche convinto che ci riescano, visto che, in quanto veramente innamorati della campagna se ne occupano al meglio, con tutte le loro forze e la loro passione.
Sono sicuro che i risultati ci siano; altrettanto sicuramente si ottengono non grazie alla biodinamica, ma nonostante essa.

Infastidisce semmai che, accanto a bravi (e mi permetto, ingenui) contadini convinti della efficacia di questa stregoneria e ad altri più razionali (che dei suddetti esoterismi prendono razionalmente solo la piccola e parte sensata), ci sia chi usa il termine magico per farne un business, confidando nella impreparazione della massa, affascinata da una parola che suona più bio del biologico.

A tramutare la superstizione in affare ci sono di sicuro alcuni produttori pronti a seguire la moda del momento (ieri erano le barrique, dunque via di trucioli nel mosto e di “vino del falegname”, oggi tira “il naturale” e allora perché non sfoderare le corna di mucca?), ma non solo: Demeter, la associazione preposta a certificare i produttori biodinamici guarda caso, ha un tariffario per chi vuole fregiarsi del bollino…

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Riesling: un nobile del Nord

Anche senza che io confessi, chi ha sbirciato il sito poco meno che distrattamente si sarà accorto da sé della mia predilezione per i vini bianchi del Nord, in particolare per Riesling e Champagne.

Se la bolla francese più o meno la conoscono in tanti, magari anche solo nelle sbiadite versioni da supermercato di qualche grande maison, i Riesling restano affare un pochino più da carbonari per il grande pubblico, comunemente in difficoltà ad accettare un bianco a volte dolce o semidolce, che dà il meglio di sé dopo lungo invecchiamento.
Genera confusione anche il fatto che ne esistano alcune varietà solo lontanamente parenti, ad esempio il riesling italico, che in Germania viene chiamato Welschriesling.

Zell (Mosel), Germany
Zell (Mosella), Autore Friedrich Petersdorff

La sua origine è situata nella valle del Reno (da qui la definizione di Riesling Renano), in particolare nella regione della Rheingau; gli antenati dovrebbero essere il Gouais Blanc (nome francese del tedesco Weißer Heunisch), ormai raro ma pare assai comune in epoca medioevale, e il Traminer.
Le prime fonti scritte che ne parlano risalgono a metà del 1400, e il suo crescente successo a partire dal XVII secolo è dovuto agli ordini religiosi, che ne riconobbero la grandezza e lo coltivarono diffusamente.

Resistenza al freddo, elevata acidità e maturazione tardiva sono caratteristiche distintive del vitigno, ma è soprattutto importante notare, oggi che tutti parlano di terroir, che il Riesling è una delle uve che meglio riflette i caratteri del suolo di coltivazione.
La produzione attuale è concentrata in Germania, in Alsazia, in Austria, in Australia e Nuova Zelanda, negli Stati Uniti e nel Canada.
La Germania è ovviamente lo stato in cui, per tradizione e per caratteristiche climatiche e di territorio, la coltivazione del Riesling è preponderante; le zone tedesche più vocate sono:

  • Mosel-Saar-Ruwer (o Mosel in breve)
  • Nahe
  • Pfalz
  • Rheingau
  • Rheinhessen

Per la quantità delle sostanze odorose concentrate sulla buccia (costituite per la maggior parte dai terpeni) è definito come vitigno semiaromaticoinoltre, con l’evoluzione, questi aromi primari sono accompagnati da secondari e terziari assai complessi.
Mi piace per questo definirlo un vino camaleonte: da fresco e facile in gioventù a profondo e ampio con l’invecchiamento, forse è questo il grande fascino del Riesling.
Troveremo quindi in partenza vini ricchi di profumi floreali (ad esempio acacia, erba sfalciata) e fruttati (agrumi, frutta tropilcale, mela, pera, albicocca); gli anni porteranno poi toni mielati, ricchezza minerale (pietra focaia, idrocarburo) e speziata (tabacco, pepe).

La tradizione tedesca prevede la vinificazione con bassa gradazione e residuo zuccherino (vini dolci o semisecchi), anche se le abitudini dei consumatori attuali hanno portato ad un incremento nella produzione di vini secchi (troken). In ogni caso, la eventuale dolcezza e il ricco corredo aromatico sono stemperati e bilanciati dalla grande freschezza derivante dalla naturale acidità del vitigno, che garantisce anche lunghissima conservazione al prodotto imbottigliato.

Rimando ad un prossimo post qualche chiarimento sulla classificazione, spero utile all’orientamento nella giungla delle etichette tedesche.

[Aggiornamento: ecco la guida alla classificazione]

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Picech: verticale con prosciutto

Uno degli elementi che più distingue la Cantina du Pusu dell’amico Tassara è l’organizzazione di bellissime degustazioni incentrate di volta in volta su specifici produttori da lui selezionati, così da farli conoscere al pubblico della sua enoteca.

La prima di una serie notevole che si terrà nei mesi di Novembre e Dicembre, è quella con il simpatico e modesto Roberto Picech, produttore del Collio che dal 1989 ha preso in mano l’azienda di famiglia.

Roberto PicechRoberto, per il secondo anno consecutivo, non è sceso in Liguria da solo: ha preferito accompagnare i suoi vini con un monumentale prodotto del territorio, il prosciutto di Cormons del produttore D’Osvaldo, che ha offerto tagliandolo “al coltello” con maestria per tutta la durata della degustazione.

La proposta della serata era incentrata sull’assaggio del bianco Jelka in una verticale delle varie annate dal 2010 al 2004, più il Collio Rosso (uvaggio di cabernet franc, cabernet sauvignon e merlot e il Riserva Ruben (80% merlot, 20% cabernet sauvignon).

Lo Jelka (dal nome della mamma di Roberto) è un blend di malvasia, friulano (ex tocai) e ribolla, vinificato senza lieviti selezionati e senza controllo della temperatura. Parte delle uve fanno una macerazione di circa 12 giorni (ma il periodo varia di anno in anno, in sostanza le bucce vengono tolte al momento della completa conversione degli zuccheri). Affinamento in botte grande e tonneaux.

Senza spaccare il capello con noiose note di degustazione per ogni singola annata, non si può non notare personalità e differenza di ogni bottiglia, pur nella continuità di una riconoscibile linea comune regalata dal territorio: si tratta di vini secchissimi, di buon corpo e alcolicità robusta (13.5 / 14 gradi), minerali, decisamente sapidi e gradevolmente complessi.

Nello specifico: il 2010, pronto ma pur sempre nella sua infanzia, evidenzia enormi potenzialità di invecchiamento, mentre il 2009 e 2006 sono i più rotondi e morbidi del lotto.
Clamoroso il 2004: otto anni sulle spalle e ancora dritto, verticale, freschissimo e sapido, intenso ma delicato e complesso (liquirizia, camomilla), decisamente persistente, pronto ad altrettanto invecchiamento.

Bei vini in vendita ad un prezzo corretto e che, data la spiccata sapidità ed alcolicità, sono adatti all’abbinamento con cibi grassi, succulenti e a tendenza dolce: formaggi non troppo stagionati, salumi, risotti di pesce e crostacei.

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Sughero contro vite: tradizione e ragione.

Curiosa la coincidenza: capita l’ennesima bottiglia non banale cui si disintegra il tappo durante l’apertura e proprio in questo periodo, nel solito giro dei blog enoici, compaiono diversi post dedicati a questa tipologia di chiusura.

Bouchons de vin
Dave Minogue, Bouchons de vin

Parlare della sostituzione del tappo in sughero, tutto sommato un fatto puramente tecnico, equivale a sollevare un piccolo polverone nel mondo del vino, che vive molto di emotività, di tradizioni, di suggestioni e, perché non dirlo, di leggende.

Così, fra gli enostrippati, trovi quelli che sostengono di non poter fare a meno del costume della apertura con annessa snasata e che piuttosto di rinunciare a questa ritualità sono disposti a subire una percentuale di bottiglie puzzolenti; immagino siano le stesse persone che, parlando di libri, sostengono di non poter leggere su e-book in quanto “si perde l’odore della carta”…
E’ anche vero che le preferenze sono personali e come tali non discutibili: chi sono io per rovinarti la cerimonia di taglio della capsula, estrazione e sniffo correlato?

Ci sono poi quelli che adducono ragioni scientifiche per perpetrare la continuità della chiusura in sughero: curiosamente c’è chi dubita della ermeticità delle chiusure alternative e chi al contrario sostiene che solo il sughero permetta lo scambio di ossigeno con l’esterno. Tutto e il suo contrario.
Premesso che non sono un enologo, vedo di riassumere quello che ho capito documentandomi con varie fonti.

Intanto, i fatti.
Pare che le più vecchie testimonianze di chiusura con sughero vadano fatte risalire già in epoca romana, ma la prima applicazione su bottiglie dovrebbe risalire al 1600 in Francia.
Oggi il sughero di qualità è sempre più raro e costoso: si ricava da particolari querce di 25-30 anni, e con successive estrazioni ogni circa 10 anni.
In commercio esistono varie tipologie di tappo in sughero: monopezzo, a due dischi, eccetera.

I problemi accertati.
Il più noto è il famigerato “odore di tappo” (2, 4, 6-tricloroanisolo o TCA, per gli amici) è dovuto alla presenza di una una sostanza organica (un fungo) nel sughero.
L’incidenza di questo fenomeno non è bassa: vari studi statistici ci dicono che circa il 5-7% delle bottiglie incappano nel problema.
Ma, TCA a parte, il problema maggiore della tappatura in sughero è la non uniformità dei risultati della conservazione delle bottiglie anche nel caso di tappi non difettati: le classiche bottiglie stanche, appannate, spente eccetera.

Le soluzioni alternative sono di vario tipo: tappo a corona (il classico “da birra”), sintetico (molto in uso nel caso di vini economici), vetro (in realtà la chiusura è garantita da una guarnizione sintetica, quindi il vetro è solo coreografia), a vite (spesso chiamato anche Stelvin, che in realtà è il brand di un produttore).

La situazione attuale vede il tappo sintetico diffuso nei vini economici e di “pronta beva” e un crescente utilizzo del tappo a vite, in particolare nei mercati con consumatori (e produttori) meno legati alla tradizione (ad esempio Australia, Nuova Zelanda, ma anche Germania).

A quanto pare il tappo sintetico non si adatta al lungo invecchiamento per problemi di tenuta: le osservazioni riportano di vini ossidati dopo alcuni anni.
La chiusura a vite è invece sperimentata con successo da molti produttori storici e di qualità, ma l’uso è limitato da fattori commerciali: il pubblico abbina il sughero alla qualità e la vite a vini più dozzinali.
Il punto che generalmente viene sollevato dagli amanti dell’imbottigliamento con sughero è che una chiusura di questo tipo (se di ottima qualità) permetterebbe un ideale micro-scambio di ossigeno con l’esterno, favorendo una evoluzione controllata del vino.

La riposta a questa affermazione viene indirettamente da un commentatore puntuale come Angelo Peretti, che annuncia come Pierre Frick, Alsaziano bio-tutto, abbia deciso di passare addirittura al tappo a corona. La sua risposta alla classica obiezione della evoluzione del vino è perentoria: “Già da trent’anni Emile Peynaud ha dimostrato che nella bottiglia nessun vino assorbe l’ossigeno dell’aria quando questo è tappato da un eccellente sughero; è proprio perché l’impermeabilità al gas è variabile da un tappo all’altro, che alcuni viticultori mettono della cera sul collo e sul tappo della bottiglia … gli Champagne e i crémant maturano sur latte per anni in bottiglie tappate da capsule. La maturazione del vino è un processo fisico-chimico che non necessita di ossigeno dall’esterno”.

Lo scorso anno, Intravino ha dato notizia di un interessante esperimento condotto da Australian Wine Research Institute e durato oltre 10 anni. Le immagini presenti nell’articolo e tratte dal pdf che illustra la ricerca, dicono più di mille parole.

Ci sono evidenze fondate che l’uso del tappo a vite non abbia conseguenze organolettiche nefaste, anzi: sul sito di Slow Wine, la notizia del recente Decreto che autorizza l’uso del tappo a vite anche sui vini DOCG, è corredata da alcune impressioni di assaggio comparata di alcune etichette prestigiose in sughero e in vite.
Il risultato in breve: immediatamente dopo l’apertura i vini con tappo a vite sono più chiusi, ma bastano pochi minuti per renderli più espressivi dei fratelli conservati con sughero.

In Italia, uno dei sostenitori più convinti della chiusura a vite è certamente Armin Kobler, che ha spiegato più volte le motivazioni della sua scelta, basate su prove empiriche e conoscenza scientifica.

Ad ulteriore confutazione della tesi degli amanti del sughero, mi pare di capire che in commercio esistano varie tipologie di tappo a vite, più o meno permeabili all’ossigeno, permettendo quindi uno scambio controllato con l’esterno.

Per finire, i dati disponibili concordano nel dire che la chiusura a vite permette di utilizzare dosaggi minori di solforosa rispetto al classico imbottigliamento in sughero.

In conclusione, per quanto riguarda i grandi vini da invecchiamento ci può essere forse qualche margine di discussione, ma credo che nessuno (esclusi gli amanti delle ritualità) possa avere nulla da ridire riguardo l’uso della chiusura a vite perlomeno nel caso di vini bianchi di varia tipologia, rosati e rossi da bersi entro un periodo non particolarmente lungo (5 anni?). I vantaggi sono evidenti: nessuna bottiglia “tappata” da buttare e totale uniformità del lotto di produzione (produttore e consumatore sono tutelati al massimo).

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Forster Ungeheuer Riesling Spatlese 2004, Werlé Erben

Ancora riesling, da un produttore piccolo e poco noto (praticamente non si trovano notizie su internet) consigliato dall’amico Tassara della Cantina du Pusu.
Prezzo al pubblico: circa 30 Euro.

Forster Ungeheuer Riesling Spatlese 2004Solito casino tedesco in etichetta, cerchiamo di decodificare: l’azienda è Werlé Erben di Forst, nella regione dello Pfalz (Palatinato)
Il vigneto è Ungeheuer, pare rinomato per la produzione di vini di grande eleganza.

La denominazione è Spatlese, e la vinificazione non è troken (secca) ma “tradizionale”, quindi con residuo (anche se non eccessivo, infatti gli zuccheri sono stati convertiti fino a 10 gradi finali), vinificato in legno e con lieviti autoctoni.

L’aspetto è un bel giallo oro, consistente; olfattivo non potente, delicato, tenue, fine. Si inizia a avvertire il mitico idrocarburo, poi mela verde, pera, frutta disidratata.

La dolcezza è percettibile ma per nulla eccessiva o fastidiosa, anche perché c’è l’elevata e controllata acidità a bilanciare. Il corpo è importante.

Direi che si beve bene con formaggi di media stagionatura, crostacei, cucina orientale agrodolce; si potrebbe tentare anche con qualche cibo piccante, ma il punto è che la bevuta è inarrestabile: una di quelle bottiglie che una volta aperta si finisce benissimo da sola.

In definitiva un grande vino, elegante, ricco e composto. Particolarmente consigliato in ragione del prezzo del tutto adeguato, seppur non popolare.

 [Aggiornamento: ecco la guida alla classificazione]

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