Genova Beer Festival: la prima edizione

Lo stupore che coglie anche chi, come me, vive tutto sommato nelle vicinanze è indicativo: prima di raggiungere villa Bombrini si taglia il centro di Genova con la Sopraelevata, e col buio è un po’ come trovarsi sul set di Blade Runner, visto che si vola a metà strada tra le luci del porto e quelle della città, per scendere poi a Sampierdarena e allungare verso Cornigliano, in un territorio che si è trasformato da immagine da cartolina in esempio di massimo degrado, con i palazzoni maltenuti, il muraglione del porto e il filo spinato, la sporcizia incipiente, auto e motorini abbandonati, la famiglia di rom che occupa abusivamente quello che un tempo forse era una autofficina e tutte le altre declinazioni del caso che possano venirvi in mente.
Ecco, a un passo da tutto questo scempio, imboccando una viuzzola, ti ritrovi in un ampio parcheggio che affianca un bellissimo villone settecentesco con relativo parco annesso: è villa Bombrini, la sede del primo Genova Beer Festival, e il primo pensiero non corre alle alte o basse fermentazioni, ma semmai a quanti eccellenti scorci come questo ci possano essere, dimenticati, in altre parti della città.

Che dire del Festival? Non me lo sono goduto, a causa di problemi in famiglia ho potuto presenziare solo un paio d’ore domenica sera prima della chiusura, ma la mia idea me la sono fatta.
Ok l’ingresso a sei euro, molto bene il bicchiere in vetro (anche se non proprio ideale la forma, ma son dettagli. A me non è stata consegnata la tasca portabicchiere, forse erano finite o magari è stato un disguido) ma per favore fate in modo che si possa riconsegnare il vetro all’uscita e avere indietro una cauzione, anche simbolica.

Molto bene il pieghevole all’ingresso, con il programma completo della manifestazione, un glossario minimo e l’elenco delle birre. Forse avrei diviso le birre non per stile ma per birrificio, ma ce ne fossero di depliant fatti così.

Benissimo gli spazi in relazione al numero degli espositori: i banchi sono ben distanziati e c’è molta “aria” che permette di non fare a spintoni con gli altri visitatori, e anche il giardino immagino sia stato una bella valvola di sfogo durante il giorno. Ho qualche riserva sulla disposizione dei banchi di assaggio su più piani: a quanto ho visto non ci sono sistemi di accessibilità per i disabili.

Gettone di degustazione a 1 euro per 10 cc di birra (in realtà ne veniva servita quasi sempre di più), e qui forse si poteva fare di meglio, prevedendo un carnet per chi vuole fare molti assaggi; in questi casi i 10cc (abbondanti) sono sempre troppi e il costo diventa importante: la mia formula ideale è il carnet da 10 assaggi da 5cc a 5 euro o qualcosa di simile.

L’appunto più negativo è quello relativo al cibo, in un momento di scarsa affluenza e praticamente senza code, occorreva attendere oltre 30 minuti per una semplice bruschetta: le due “postazioni food” cui mi sono approcciato (Ai Troeggi e Kowalski) mi sono sembrate palesemente inadeguate sia come gestione dei tempi che come qualità. Da rivedere anche il numero dei tavoli e delle panche a disposizione, troppo scarsi, perlomeno quelli all’interno della villa.

Sulle vere protagoniste, le birre, non ho troppo da dire, avendo fatto solo una quindicina di assaggi molto frettolosi, quindi mi limito a poche segnalazioni.
Pollice in alto per Canediguerra, birrificio giovane ma con tutta l’esperienza di Allo alle spalle e si sente da tutta l’ottima gamma, corretta, senza esagerazioni e strampalatezze.
Passaggio di rito da Maltus Faber che sfodera una per me irresistibile Blonde Hop (poco alcolica, leggera, di carattere ma mai invadente).
Chiaroscuri per uno dei nomi storici del panorama “artigianale” italiano, il Birrificio Italiano: la Tipopils, uno dei paradigmi del genere, non mi è sembrata al top, mentre era centrata la Nigredo, uno dei pochi esempi di Schwarzbier tricolore. Molto interessante anche la Sparrow Pit, un Barley Wine di bevibilità assassina.
Vellutata e piacevole la Nocturna di Kamun.

Nota stonata, non certo per colpa degli organizzatori: domenica sera chi serviva al banco di almeno un paio di espositori era evidentemente non in condizioni lucidissime… capisco che erano le ultime ore, che un festival di birre non è un ristorante stellato e che l’atmosfera è informale, ma non mi sembra un gran biglietto da visita per il produttore.

Le conclusioni? Un successo sicuramente, senza contare che si trattava di una prima volta.
Un grande “bravo”, quindi, ai ragazzi di Papille Clandestine per l’ottimo lavoro svolto, con la speranza di ritrovare il prossimo anno un GBF ancora più ricco di birrifici, di cibi e di eventi.

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Pasturana 2012

Sulla via per Terroir Vino ho tenuto il fegato in allenamento portandolo al più classico dei raduni birrari italiani, la tre giorni di Pasturana, una tranquilla e ordinata cittadina di mille abitanti (siamo nell’alessandrino, zona di Gavi), nella quale, grazie uno di quei fenomenali paradossi spazio-temporali che talvolta animano la profonda provincia italiana, da dieci anni si organizza uno dei più rinomati e divertenti festival dedicati alla birra di qualità italiana.

Piccola digressione, ci tengo a far notare che ho scritto di qualità per evitare l’uso del termine artigianale: birrariamente abusato e poco ricco di significato. Un tempo, agli albori della scena dei microbirrifici italiani, si parlava di birra non filtrata e non pastorizzata, ma ultimamente, caduto il dogma della non filtrazione, si punta di più su altri aspetti: non è la stessa identica bevanda delle multinazionali, è prodotta con cura, passione e ingredienti di qualità, è prodotta in quantitativi limitati e via emozionando ma non specificando.
In definitiva, visto che è difficile spendere il termine “artigianale” sulla base dei volumi prodotti (ci sono esempi di birrifici statunitensi che sfornano gazillioni di ottima craft beer, degli ingredienti usati (proprio noi italiani siamo maestri nel impreziosire il mashing con pepe rosa, zenzero, zafferano e mille altri stranofacendoli) e dei processi di produzione, preferisco basarmi solo sul risultato organolettico del prodotto finito: “birra di qualità”.

Tornando a noi: Pasturana è uno strano ibrido mutante, a metà tra la strapaesana sagra della salsiccia e la ricercatezza di Slow Food: per dire, ci sono le tavolate comuni con le panche e i piatti di carta e accanto i laboratori del gusto proprio di Slow Food condotti dal maestro Kuaska, il concerto rock della cover-band i turno e molti birrai che passano a farsi un bicchiere.

Il top dello svacco è che la manifestazione si svolge accanto a un bel campo da calcio (di quelli di una volta, con l’erba vera e non sintetica) sul quale è possibile campeggiare liberamente. E la gente, per sfuggire al sacrosanto etilometro, campeggia: famiglie con i bambini che giocano a pallone e biker che tra due ore vomiteranno l’anima, camper e tendine lillipuziane di quelle che si montano da sole lanciandole in aria… insomma l’atmosfera è rilassata, senza incravattati e senza pregiudizi.

Tra tanti pregi, i difetti son sempre quelli da che io ho memoria: il cibo un po’ così, i bicchieri di plastica, la temperatura di servizio uniformemente glaciale, le code per il cibo e per i bagni, la spillatura non sempre perfetta… ma, diamine, siamo qui per divertirci in primis, e solo poi per le pippe sulla esegesi organolettica del fermentato di malto.

Il pubblico presente è pure lui un Giano bifronte, coprendo tutta la gamma zenith-nadir del caso: dai super-appassionati che si sono fatti ore di auto per esserci, si conoscono tutti fra loro, forgiati da anni di cameratesca carboneria birraria, si portano da casa il bicchiere di vetro per godere meglio e smanettano sullo smartphone per aggiornare i loro beer ratings, ai ragazzotti che si affollano per prendere una ciocca colossale (sicuro) e per quagliare con qualcuna delle giovani addette alle spine (magari).

In mezzo a questo magnifico calderone ci sono le protagoniste, le birre.
In cartellone una quindicina di birrifici per trenta birre, a rappresentare, tra gli altri, storici quarti di nobiltà della scena brassicola italiana (Baladin,Montegioco), solide certezze (Maltus FaberToccalmatto) e giovani rampanti (ExtraomnesBrewfist).

Dichiaro subito inadeguatezza e rozzeria: in cuor mio credo che solo la visione coatta di una settimana di Porta e Porta possa essere più noiosa e inutile dei punteggi (82 questo, 83 quello: dai, fammi ridere) e della psichedelica giungla dei descrittori, per questo mi limiterò a qualche accenno.
Disclaimer: ai festival birrari non si sputa, vivaddio, si manda giù tutto di buon grado. Questo piccolo ma significativo aspetto, se certo contribuisce al gioioso clima raccontato poco sopra, immagino non sia un buon viatico per la completezza e la lucidità della descrizione delle bevande.

In generale, per quanto ho potuto provare (non si sputa, ricordate?) qualità discreta: nessun grosso difetto ma anche nulla che abbia fatto gridare al miracolo e molte produzioni penalizzate dalla serata fredda e ventosissima che osteggiava il raggiungimento della temperatura corretta delle birre.
Le note di quello che più ho apprezzato: la mia bevuta della serata è stata la T.I.P.A. di Pausa Caffè (birrificio torinese forse poco sugli scudi e non troppo assiduo nei commenti degli aficionados): una bella e classica IPA da 6,7 gradi, dal colore carico e corpo medio a sostenere un luppolo importante ma non sfacciato, semmai elegante (leggo sul sito: East Kent Golding, quindi un nobile europeo).

La piacevolezza della semplicità è ben rappresentata dalla Blond di Extraomnes (microbirrificio di Marnate, capeggiato dal ben noto Luigi “Schigi” d’Amelio): chiara come lascia intuire il nome, 4,4 gradi, corpo leggero ma non acquosa, secchissima, fresca di un agrumato dissetante, con una leggera speziatura e un amaro ben presente ma che non supera i livelli di guardia. Come si dice in questi casi: da berne a secchi; sicuramente ideale per l’estate.

Per coloro cui piacciono i cazzotti amari, i pesi massimi delle IBU, c’era la Spaceman di Brewfist, giovane ma affermato birrificio lodigiano, creatore di questo instant classic della scena brassicola italiana: si tratta ancora di una IPA (tra gli stili più modaioli del momento) da 7 gradi, densa, volutamente esagerata, resinosamente amarissima ma non monocorde.

Sempre da Brewfist, professionisti dell’estremo ma non solo, ancora una mazzata: la Imperial porter X-ray. Nera impenetrabile, appena un filo di abboccatura e poi tonnellate di tostature (cioccolato, caffè, orzo) e anche una bella manciata di luppoli a bilanciare. Detta così sembra una mappazza, e forse lo è, ma lasciata scaldare si beve bene.

Curiosamente interessante la Due Mondi del Croce di Malto di Trecate, una collaboration beer (altro trend attuale) realizzata con lo storico Birrificio Italiano. Due Mondi di nome e di fatto: lo stile di partenza dichiarato è quello tedesco delle doppelbock, quindi gradazione rilevante (siamo a 7,7 dichiarati) e corpo ben presente, maltosità pronunciata e un certo grado di tostatura. Fin qui siamo nei canoni, ma la Due Mondi a tutto questo aggiunge una buona dose di luppolo americano, aromatico e amaricante e notevole secchezza a rendere il tutto più facilmente bevibile. Da provare il prossimo inverno.

Nota finale di merito per l’organizzazione di Pasturana: al mattino prima delle 8, per coloro che si risvegliavano e dovevano riprendersi dall’hangover, magari per mettersi in auto e far ritorno a casa, c’era il servizio bar aperto con caffè e cappuccino. Ringraziamo sentitamente.

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