SoloUva: approfondimenti

Giusto due righe per segnalare che su Intravino è comparsa una interessante discussione sul Metodo SoloUva, di cui avevo scritto qualche tempo fa.

Consiglio di impiegare qualche minuto, oltre che per leggere l’articolo, anche per approfondire i commenti, che riportano interessanti interventi sia tecnici che organolettici e anche gli importanti interventi di Giovanni Arcari.

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Champagne Gremillet Zéro Dosage

Come sempre, ci si diverte quando si assaggia un vino di cui non si conosce nulla: zero aspettative, zero pregiudizi…  In questo caso poi si tratta di un regalo, quindi non conosco neppure il prezzo: la situazione ideale!

champagne_gemillet_zero_dosage_brut_natureDenominazione: Champagne
Vino: Zéro Dosage
Azienda: Gremillet
Anno: –
Prezzo: ? (è un regalo)

Stappo e verso un vino color oro pallido, con bolla finissima ma stranamente poco numerosa e un po’ scomposta (ma migliorerà col passare dei minuti).
Gli aromi sono molto interessanti, con richiami floreali, vegetali e di agrume, in un assieme estremamente fragrante e fresco.

Il sorso è ambiguo, nel senso che trovo buone durezze (l’acidità vibrante e la sapidità notevole), corroborate da un corpo adeguato, ma l’assaggio è un po’ mortificato dalla bolla palliduccia.
Gli aromi di bocca appartengono alla famiglia della frutta secca (mandorla) e accennano al balsamico, con un buon finale di adeguata lunghezza, senza punte di amaro.
Alla cieca azzardo un pinot nero, perlomeno in prevalenza.

Terminata la bottiglia, è tempo di una rapida occhiata al sito aziendale per carpire qualche informazione: l’azienda si dice familiare ma di certo non è una piccola impresa, visto che si estende per 40 ettari vicino a Troyes, in quella zona che è considerata un po’ la cenerentola sfigata dello champagne, la Côte des Bars.
Il vino assaggiato, lo Zero Dosage, è descritto come vinificato in acciaio a temperatura controllata, ed è un blend di varie vendemmie, con malolattica svolta, residuo zuccherino di circa 2 grammi per litro e almeno 28 mesi di invecchiamento.

Il bello: la freschezza e l’olfattivo di ottimo livello

Il meno bello: bolla un po’ risicata

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Roederer Brut Premier

Tra le grandi maison di Champagne, Roederer può vantare un particolare che la rende estremamente moderna: se storicamente era uso comperare l’uva per poi occuparsi solo della fase di vinificazione e affinamento, già a metà del diciannovesimo secolo Louis Roederer decide di acquistare i vigneti che ritiene migliori, in modo da controllare in prima persona tutto il processo produttivo.

Crescendo di generazione in generazione, la maison è arrivata oggi a possedere circa 240 ettari nel cuore della Champagne, tra Montagne de Reims, Vallée de la Marne e Côte des Blancs, tutti classificati Grands o Premiers Cru e ad avere a catalogo una vasta gamma di prodotti, dal demi sec Carte Blanche al Brut Nature millesimato, dal Vintage al Rosé, passando per un Blanc de Blancs, fino a quello che è ormai (suo malgrado) un simbolo del lusso ostentato e un po’ cafone, il Cristal.

Non sono purtroppo vini per tutti i portafogli, tantomeno il mio, quindi è giocoforza parlare del più accessibile del listino: il Brut Premier, classico assemblaggio di 40% di Pinot Nero, 40% di Chardonnay e 20% di Pinot Meunier, con uve provenienti da vari appezzamenti vinificate in legno, e poi affinato da tre anni di permanenza sui lieviti.
Al corpo del vino ricavato da un millesimo principale viene aggiunto il 10% di vini di riserva di altre annate, in modo da assicurare carattere e corpo predefiniti.

L’apertura non è piacevole, ennesimo caso di questi mesi di un tappo non perfetto: lungi dall’essere un bel fungo allargato alla base, il cilindro resta di diametro troppo uniforme. Un po’ di esperienza mi dice che spesso i vini spumanti che presentano una chiusura di questo tipo non sono al top, ed infatti troverò una bottiglia certamente non difettosa ma meno piacevole di una analoga provata nei mesi scorsi.

roedererDenominazione: Champagne
Vino: Brut Premier
Azienda: Roederer
Anno: –
Prezzo: 40 euro

L’aspetto manco a dirlo è da manuale, oro pallido con bolle sottilissime e numerose. Il naso tradisce un’anima morbida e dagli aromi sono banditi il fruttato aggrumato o il minerale; trovo qualche cenno floreale ma poi arriva prepotente la speziatura. E’ scongiurato il rischio “vaniglione”, perché il complesso è comunque assai delicato. Dopo un’ora si apre e si arricchisce ulteriormente, in particolare con note di glicine.

In bocca è molto classico e conferma quello che l’olfatto aveva evidenziato: la bolla delicatissima (forse anche troppo), qualche agrume sottotraccia e poi una decisa morbidezza che denota un certo dosaggio (non ho dati ufficiali, ma ad occhio siamo sui 10 g/l) e l’evidente passaggio in legno; per fortuna arrivano a bilanciare il sorso l’acidità di buon livello, il corpo prepotente e una lunghezza rimarchevole.

Si nota la maestria della costruzione: il bicchiere si ferma un millimetro prima della esagerazione e riesce a non essere stucchevole, dando vita ad un vino sicuramente da abbinamento, troppo opulento per il semplice aperitivo.

Il codice riportato in etichetta e inserito sul sito parla di una cuvée 2009, imbottigliata nel 2010 e sboccata nel 2012, quindi forse un po’ troppo “avanti” per un brut base?
Certo, lo ricordavo migliore, mi resta il dubbio di una bottiglia non al meglio magari a causa del tappo, ma a questi livelli di prezzo francamente mi aspetto sempre l’eccellenza.

Piccola nota: capirei se il sito riportasse note più esaustive, ma qualcuno mi spieghi il senso del dover andare su internet e inserire il codice per vedere due-dati-due… bastava aggiungerli in etichetta e si evitava la scocciatura… Boh.

Il bello: corpo, stuttura, classcità del sorso

Il meno bello: un po’ troppo opulento. dosaggio avvertibile

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Solo Uva

Mia colpa certamente, ma non mi sono del tutto chiari gli intenti del progetto TerraUomoCielo: sul sito si dice testualmente che “segue dalla produzione fino alla vendita, aziende agricole produttrici di vino”.
Non capisco se si tratta di un protocollo commercial-agro-enologico che i partecipanti si impegnano a seguire, se c’è un aspetto consulenziale che entra in campo, o se più semplicemente si tratta di una sorta di mission, di unità di vedute, delle aziende protagoniste.
Di certo la denominazione racchiude una manciata di (piccoli) produttori, principalmente franciacortini: Camossi, Colline della Stella, Arcari&Dainesi, Ferdinando Principiano (per quanto riguarda la spumantistica) e Solo Uva.

solouvaDenominazione: Franciacorta DOCG
Vino: Brut
Azienda: Azienda Agricola Solo Uva
Anno: –
Prezzo: 22 euro

E’ proprio a firma di questo ultimo marchio (l’Azienda Agricola Solo Uva) il prodotto che ho assaggiato in questi giorni. Andrea Rudelli gestisce un ettaro e mezzo a Chardonnay ad Erbusco, dal quale ricava 10.000 bottiglie di una sola tipologia di metodo classico dalle caratteristiche tecniche piuttosto particolari: la fermentazione viene bloccata (grazie al freddo) nel momento in cui il mosto ha ancora gli zuccheri residui necessari ad ottenere la sovrapressione in atmosfere e i gradi alcolici richiesti.
A questo punto, per la rifermentazione in bottiglia, si aggiungono solo i lieviti (sui quali ci sarà un riposo di 30 mesi) e non è necessario nessun “liquore di tiraggio”; ovvia conseguenza, la scelta di non aggiungere dosaggio prima della messa in commercio.

Ne deriva un prodotto che ha l’ambizione di sfruttare la capacità tecnica di gestire il metodo classico in modo innovativo al fine di ottenere un vino spumante il più naturale possibile, da uve raccolte nella piena maturità fenolica e senza zucchero aggiunto in alcuna fase.

Questi gli intenti, ma quali sono i risultati nel bicchiere?
Il vino è dorato con qualche ricordo verdolino e con bolla perfetta per copiosità e finezza.
Se c’è una volta in cui si può sfoderare senza tema di smentita il classico “floreale e fruttato” è questo: al naso sono ricordi di fiore primaverile e di frutta piuttosto intensi, cui si aggiunge una traccia di caramella inglese. Il tutto risulta molto giovane e fresco senza tracce di lieviti e di legni.
La somma finale è un po’ eccessiva: piacevole ma poco complessa e un tantino “gridata”.

Il sorso è educato, nel corpo come nella bolla ma anche nella freschezza e sapidità, che in verità risultano lievemente latitanti: manca un po’ di mordente, il vino è piacevole ma poco verticale, sembra un po’ seduto pur senza denunciare dolcezze poco consone ad un metodo classico (che peraltro mi pare dichiari soli 2 grammi/litro di zuccheri residui). Nessun finale amaro e lunghezza discreta.
In etichetta sono indicate raccolta 2012 e sboccatura 2014.

Vino piacevolmente “diverso”, da riprovare più avanti: a mio modesto avviso il produttore ha margini per mettere meglio a punto il processo e ottenere risultati ancora più centrati;
al momento il bicchiere è in mezzo al guado, indeciso tra un prodotto semplice, ricco di aromi e indicato come aperitivo e qualcosa di più ambizioso, per il quale mancano sicuramente un po’ di grinta e magari anche una po’ di struttura e di complessità gusto-olfattiva.

Il bello: piacevole semplicità fruttata e floreale

Il meno bello: manca un po’ di grinta

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Terzavia De Bartoli

Dopo essere rimasto fortemente impressionato dal Grappoli del Grillo,  essendo un super appassionato di bollicine non potevo non dare una nuova chance al metodo classico di casa De Bartoli, il Terzavia.
Parlo di nuova possibilità perché ne avevo fatto un assaggio lo scorso anno senza restarne particolarmente impressionato, trovandolo un po’ pesante e monocorde: altro millesimo, altra bottiglia, ritentiamo.

Qualche dato tecnico: Terzavia in quanto terza modalità espressiva del Grillo, dopo il Marsala e il vino bianco fermo; solo 11.000 bottiglie prodotte da uva Grillo in purezza, raccolta manuale e pressatura soffice a temperatura controllata, fermentazione tramite lieviti autoctoni, prima in acciaio e poi in rovere.
Il tiraggio è ottenuto con la semplice aggiunta della corretta percentuale di mosto fresco, poi almeno 18 mesi in bottiglia sui lieviti e quindi la sboccatura e la messa in commercio senza dosaggio. Annata 2011 e sboccatura 2014.

terzaviaDenominazione: VSDQ
Vino: Terzavia
Azienda: Marco De Bartoli
Anno: 2011
Prezzo: 22 euro

Nel bicchiere è oro pallido, con bolla sottilissima, forse non particolarmente numerosa; accarezza con bella continuità e di certo non aggredisce, con classe.

I profumi sono quasi da vino aromatico, si avverte una certa evoluzione, fiori gialli e frutta matura e poi fanno capolino la pera caramellata e la confettura; in sottofondo richiami minerali salmastri.
Sarà la suggestione, ma ho l’impressione di riconoscere qualche eco de i Grappoli del Grillo assaggiato recentemente.

Ingresso che quasi subito riempie il palato con i medesimi richiami alla frutta matura e con una bella sapidità. decisa. Buon corpo, nessun amaro finale o accesso di acidità nonostante il dosaggio zero. Finale di interessante persistenza.

Una interessante via meridionale al metodo classico: non potendo contare su terreni, clima e vitigni tradizionalmente vocati alla spumantizzazione, si sceglie un approccio nuovo che riesce a coniugare la forza della viticoltura del sud con la agilità indispensabile ad un metodo classico.

Di certo un vino gastronomico, non lo vedo come classico aperitivo, semmai come ottimo compagno di preparazioni marine strutturate (tonno, pesce spada accomodati).

Il bello: vino di interessante personalità

Il meno bello: da consumare in abbinamento a cibi, non lo vedo come la tipica bolla da aperitivo

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Champagne Oeil de Perdrix, Jean Vesselle

Che succede quando il tuo spacciatore di alcol di fiducia si procura nuove bottiglie bollicinose di piccoli produttori francesi, classificati come RM?

Ovvio: le provi una alla volta, perlomeno quelle economicamente abbordabili, possibilmente senza prima informarti su blog, siti aziendali e modernerie varie, in modo da non rovinarti la sorpresa.

Quindi via alla cieca: non conosco nulla del produttore, tantomeno del vino che andrò ad assaggiare: esiste qualcosa di più divertente?

Lo stappo e inizia lo stupore: si nota una inusuale sfumatura ambrata, delicata, un accenno di buccia di cipolla; ma accidenti, in etichetta non si parla di rosé (e difatti la tinta è troppo debole per ricadere nella tipologia)…
Temo il difetto, ma il tappo è a postissimo e il naso non rivela alcun allarme, così come l’assaggio.

Vado finalmente a sbirciare sul sito e mentre scrivo il nome mi viene un sospetto: vuoi vedere che lo hanno chiamato in questo modo proprio per la tinta? Ovvio che è così: il nome deriva dalla sfumatura colorata, donata dalla pressatura dell’uva nera (per la cronaca: pinot nero 100% e dovevo aspettarmelo, visto che siamo a Bouzy, tradizionalmente “capoluogo” di questo vitigno nella regione dello Champagne).

E’ proprio online che il produttore racconta la storia, chissà quanto vera, di questo vino come di un recupero della tradizione.
Non ho modo di verificare, ma per sommi capi si dice che agli inizi del ventesimo secolo, nella zona in questione,  tutti i vini ottenuti da pinot nero avevano una sfumatura ambrata e per questo erano chiamati “occhio di pernice”.
Sarebbero state poi le grandi maison a decidere che gli champagne dovessero ricadere nelle tipologia “blanc” o “rosé” e non in qualcosa di intermedio, ma la cancellazione del cenno rosato avrebbe anche eliminato parte di aromi, tanto che Jean Vesselle,nel 1972, dopo aver ritrovato murate in cantina alcune bottiglie vinificate alla maniera tradizionale, sarebbe rimasto così colpito dal colore e dalla pienezza degli aromi da decidere di riprendere la produzione con questa modalità.

Oeil de Perdrix, Jean VesselleDenominazione: Champagne BRut
Vino: Oeil de Perdrix
Azienda: Jean Vesselle
Anno: –
Prezzo: 30 euro

Detto del colore, proseguiamo con una bolla estremamente copiosa, ma che non aggredisce grazie alla sua finezza. Il naso richiama principalmente la frutta: agrume, mandarino e qualche accenno ai canonici (per il vitigno) piccoli frutti rossi, poi una leggera scia di corteccia bagnata. Nel complesso, buona l’intensità, anche se il tutto è magari un po’ semplice.

L’assaggio è equilibrato, l’acidità c’è senza strafare, mitigata dal dosaggio garbato (6 g/l). Il finale non è lunghissimo e presenta un minimo accenno amaro (che il giorno seguente mi sembra scomparso o che perlomeno avverto molto meno) che non impreziosisce la bevuta.

Sgomberiamo il campo: non siamo di fronte ad un capolavoro, ma sicuramente si tratta di un buon vino, oltretutto capace di fare “storia a sé”, incuriosendo per la sua tipologia peculiare.

Il bello: bel colore, bevuta semplice e gradevole

Il meno bello: nulla che spicchi particolarmente

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Giulio Ferrari Riserva del Fondatore 2001, Cantine Ferrari

Riepilogando: sono un appassionato di vini bianchi, in particolare di Metodo Classico, e non ho pregiudizi rispetto a quanto metto nel bicchiere (perlomeno cerco di non averne); detto questo, o forse proprio per questo, trovo abbastanza stucchevole la cantilena secondo la quale non sarebbe possibile confrontare Champagne e Franciacorta, Tranto DOC e Oltrepò Pavese…

Certo, terreno e latitudine non hanno nulla in comune, per non parlare dei numeri e dell’esperienza di coloro che il vino lo fanno, ma io sono un consumatore, non un enologo o uno storico, e valuto quello che tracanno.
Mi pare abbastanza ovvio che il “modello di riferimento” di tutti (quasi) coloro che producono Metodo Classico sia lo Champagne, e che la prova di assaggio evidenzi enormi somiglianze tra vini creati con questa metodologia (e vorrei vedere… la tecnica e i vitigni impiegati sono i medesimi, e in questo caso la tecnica conta eccome: gli spumanti sono vini estremamente “costruiti”).

Quanto sopra per giustificare il fatto che, nonostante la vulgata corrente lo ritenga una bestemmia, quando assaggio un Metodo Classico italiano mi abbandono per un attimo ad una piccola astrazione mentale, cercando di riportare quello che ho nel bicchiere alla terra di Francia, zona Reims, cedendo alla tentazione del paragone con Champagne di prezzo analogo.

Nel mio personale (modestissimo) cartellino, gli italiani si difendono bene sino ad una certa fascia di prezzo (diciamo spannometricamente fino ai 30 / 40 euro?), aiutati dall’handicap dei costi di importazione francesi. Oltre quella soglia, temo che molto spesso i cugini dalla erre moscia abbiano la meglio.

Certo, ci sono casi e casi,  e quello di oggi è uno di quelli in cui un Metodo Classico italiano di prezzo importante riesce a ottimamente figurare accanto a bottiglie transalpine comparabili.

La mia esperienza con “il Giulio” ha anche un aneddoto curioso: agli albori della mia frequentazione col mondo del vino mi ritrovai ad una degustazione, presenti molti nomi importanti; mi fiondai subito sulle bolle (ovvio), e il primo o il secondo vino della giornata fu proprio la Riserva del Fondatore. Tutti gli altri spumanti in degustazione impallidirono al confronto e la cosa mi impressionò decisamente.
Mi è poi capitato di assaggiarlo altre volte, e di farne fuori un paio di bottiglie di diverse annate, e mai sono stato deluso… certo, il prezzo…

Giulio-Ferrari-Riserva-del-Fondatore-2001Denominazione: Trento DOC
Vino: Riserva del Fondatore
Azienda: Cantine Ferrari
Anno: 2001
Prezzo: 60 euro

Poche note tecniche: chardonnay al 100% dal vigneto Maso Pianizza, 500 metri sul livello del mare esposti a sud-sud/ovest, circondato da boschi; raccolta manuale, fermentazione in acciaio e ben dieci anni di affinamento. Tecnicamente possiamo parlare di un extra-brut (il dosaggio lo porta a meno di 6 grammi/litro di residuo).

Poco da dire su un prodotto del genere: è una crema dorata,  di un brillante perfetto, con bollicine ideali per sottigliezza e lucentezza. Lo spettro olfattivo non è esplosivo, ma non è questo quello che cerchiamo in un Metodo Classico: importa che la finezza e la complessità siano encomiabili: fiori, agrumi, panetteria, accompagnati da una sottesa nota di vaniglia e di affumicato.

Il sorso è pieno, ricco, succoso… soprattutto è magnifico l’equilibrio che nasconde l’alcol, che bilancia perfettamente sapidità e acidità e che rende la bevuta sontuosa ma allo stesso tempo agilissima.

Vino ideale a tutto pasto, ma anche come aperitivo o come bevuta solitaria, difficile trovargli un ambito non consono (giusto i dolci, dai!).

Il bello: lo bevi come vuoi e con cosa vuoi: non puoi sbagliare
Il meno bello: le prix, ça va sans dire

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Giacosa Extra Brut 2006

Ho scritto recentemente qualcosa  riguardo i metodo classico Piemontesi, e sono contento di poter continuare a parlare di ottime impressioni con un altro prodotto che non avevo mai assaggiato, il Giacosa Extra Brut.
Certo, il caso è curioso: nonostante l’etichetta riporti il nome di una icona del vino di Langa (Giacosa, appunto), le uve, pinot nero in purezza, provengono dall’Oltrepò Pavese…  Prendiamola come la dimostrazione della grande capacità di vinificare di casa Giacosa e anche come prova della notevole attitudine della regione lombarda nella coltivazione di questa non facile tipologia.

giacosaDenominazione: –
Vino: Extra Brut
Azienda: Giacosa
Anno: 2006
Prezzo: 25 euro

Visivamente perfetto: giallo paglierino con bolle sottili, continue e numerose e bella spuma persistente.
L’Olfattivo è deciso, vibrante di minerale e lieviti, poi c’è il floreale, e il muschio, sottobosco umido, senza frutta tropicale o agrumi. Diretto, molto maschio.

L’ingresso è deciso ma senza aggressività, decisamente secco ma senza accenti amarognoli, pieno, gustoso e intenso, fresco e dotato di bella sapidità. Squillante, vivo e comunque di grande equilibrio, nonostante la drittezza riesce ad esprimere una certa rotondità. Ottima lunghezza.
Lasciandolo esprimere a qualche grado in più acquista profondità e ricchezza.

Uno dei migliori metodo classico pinot nero in purezza assaggiati quest anno; certo, la domanda è che senso abbia la denominazione dimostra le potenzialità dell’oltrepò pavese

Il bello: pienezza gustativa
Il meno bello: nulla da segnalare

 

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Festival Franciacorta Genova 2014

FranciacortaAll’ingresso ti danno il libricino, che oltre a tutti i dati sul Franciacorta, dagli uvaggi, al metodo di produzione, passando per tipologie e modi di consumo, riserva una pagina per ciascuno dei 32 produttori, divisa equamente a metà per ognuno dei due vini in degustazione, con nome, millesimo e uvaggio e lo spazio per annotare le impressioni.

Ecco, quello che più colpisce del Festival Franciacorta (alla sua prima edizione a Genova) è la cura nei dettagli: quella sopra raccontata è una comodità impagabile nelle sessioni di degustazione delle varie manifestazioni, occasioni in cui hai il bicchiere in una mano, la giacca nell’altra, qualche depliant sotto l’ascella, la penna dietro l’orecchio eccetera, e per prendere un appunto devi fare i contorsionismi da fachiro indiano alcolizzato.

Le altre carinerie nei confronti dei visitatori vanno dalla brochure in formato sia cartaceo che elettronico (su chiavetta usb), al gadget portachiavi, dalla location spaziosa e luminosa (i Magazzini del Cotone presso il Porto Antico, dove si svolge solitamente anche Terroir Vino) al catering semplice ma appetitoso, dalla ricca fornitura di acqua in bottigliette ai banchi di assaggio ciascuno con la presenza del produttore e di un sommelier qualificato con tanto di termometro per verificare la temperatura di servizio.
Difficile chiedere di meglio per 15 euro di ingresso (10 per i soci AIS, Fisar, ONAV ecc.)! Il confronto con la mia visita a Vinum di pochi giorni prima è davvero impietoso…

Franciacorta

Per un appassionato di bollicine come il sottoscritto è stato un pomeriggio di festa più che di analisi degustative, inoltre, giocando in casa, ho avuto modo di incontrare tanti volti noti, sia tra il pubblico che tra i colleghi sommelier al servizio; mi limito a qualche nota veloce e sparsa sulle cose più interessanti.
Non posso non iniziare da Bersi Serlini: la signora Chiara mi ha accolto come sempre in maniera splendida e mi ha fatto assaggiare un nuovo prodotto che ho gradito molto per freschezza, vivacità o originalità: il Brut Anteprima, dalla vivacità spiccata declinata in una mela verde croccantissima. Un bidone intero per l’estate, please.

Sarebbe facile parlare bene dell’Annamaria Clementi Riserva 2005 di Cà del Bosco, così come del Pas Operè 2007 di Bellavista, ma anche inutile, vista la fama.
Preferisco quindi spendere due righe per qualche outsider (perlomeno per me) come Chiara Ziliani, che sia nel Brut che nel Saten mostrava due vini con piacevoli ed intensi accenti di lievito, il Rosé di Cortebianca, strutturato e selvatico, la delicatezza floreale del Saten 2010 de Il Mosnel, la personalità e la buona persistenza del Demetra Brut di Mirabella, la unicità dei sentori di pesca bianca del Saten di Montenisa, la verticalità carica e decisa del Brut 2009 di Vezzoli.

Piccole delusioni: Uberti, con qualche sentore scomposto sia nel Brut Francesco I che nel Comari del Salem, e Monterossa, che mi è sembrato un po’ grossolano in entrambi i vini. Spero di cambiare le mie impressioni con un prossimo assaggio.

Impressioni finali: buona qualità media, un po’ troppi vini certamente ben fatti ma senza una personalità spiccata, ma c’erano 62 prodotti in degustazione e di certo un non esperto come il sottoscritto a metà batteria inizia a perdere le capacità palatali e un po’ di concentrazione.

Che dire, se non i complimenti per la superba organizzazione e la speranza di rivedere il Festival Franciacorta dalle mie parti anche il prossimo anno (o anche prima: non mettiamo limiti alla provvidenza). Se la manifestazione fa tappa dalle vostre parti, non fatevi sfuggire l’occasione.

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Monsupello Nature

Storica azienda situata in quel territorio un po’ misconosciuto e un po’ bistrattato che è l’Oltrepò Pavese, Monsupello è una delle più solide e storiche realtà spumantistiche (e non solo) italiane. Personalmente lo ritengo uno di quei marchi cui rivolgermi quando ho voglia di bolle di qualità certa ad un prezzo adeguato.

Enclave del pinot nero italiano, l’Oltrepò Pavese gode di poca fama rispetto alle potenzialità, forse a causa di un consorzio poco visibile o della incapacità di “fare sistema” in maniera adeguata delle aziende più importanti (penso ad esempio a quel che è stato realizzato da una ottima mentalità imprenditoriale in Franciacorta).

Sia quel che sia, Monsupello, con i suoi 50 ettari sforna ogni anno duecentomila bottiglie, buona parte delle quali destinate a sei tipologie di metodo classico, una delle quali è il Nature oggi in assaggio.
La metodologia di produzione è classica: pressatura soffice, fermentazione in acciaio a temperatura controllata, poi la composizione della cuvè (90% pinot nero, 10% chardonnay), il tiraggio e il riposo di almeno 30 mesi sui lieviti.

monsupelloDenominazione: DOCG Oltrepò Pavese
Vino: Nature
Azienda: Monsupello
Anno: –
Prezzo: 19 euro

Giallo dorato con curiosa sfumatura ramata, bello e particolare; bolle fini, continue, numerosissime. L’olfattivo è di crosta di pane, frutta secca e qualche ricordo boschivo di matrice pinot nero. Non particolarmente complesso o intenso ma piacevole.

L’attacco è intenso, con il sorso deciso: il pinot nero riempie la bocca e scalpita. L’acidità e soprattutto la sapidità sono muscolose e senza compromessi ma non fastidiose. Ovviamente l’equilibrio è spostato verso le durezze in modo deciso: siamo in presenza di un metodo classico non dosato e si sente.
Il corpo è importante e il finale ha persistenza media, senza fastidiosi accenti amari. Sboccatura 2013.

Sicuramente un vino da pasto, da affiancare facilmente a salumi da sgrassare, magari provenienti dalle medesime zone di produzione, per un abbinamento certo scontato ma di sicura efficacia.

Il bello: olfattivo non troppo ricco
Il meno bello: selvatico, dritto, ispido ma gradevole

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