Toscana 2010, Pacina

Non sono mai stato nella azienda agricola Pacina, ma le immagini e le descrizioni che si vedono sul sito e si trovano in rete rimandano a quella meravigliosa Toscana classica da cartolina, quella che ha fatto innamorare di sé tanti facoltosi stranieri che difatti non hanno resistito a prendere qui una dimora. Precisamente siamo a Castelnuovo Berardenga, nel cuore del Chianti: ulivi, vite, piccoli boschi, casali incastonati tra le colline dolcissime e i piccoli boschi… una roba che mette pace solo a pensarci.

Pacina è una azienda piuttosto nota nel circuito dei “vino-naturalisti”, e produce un Toscana IGT (che di fatto è un Chianti senza esserlo: sono usciti dal Consorzio del Chianti) ottenuto da Sangiovese con piccolo saldo di Canaiolo, fermentato grazie a lieviti indigeni. L’affinamento avviene in legno grande e l’imbottigliamento senza filtrazione.

pacinaDenominazione: IGT Toscana
Vino: Pacina
Azienda: Pacina
Anno: 2010
Prezzo: 20 euro

La bottiglia in questione è di un millesimo ormai (fin troppo) mitizzato, il 2010, e il vino mantiene una sua intima coerenza tra vista e olfatto: è un rubino cupo e denso che inizia a virare sul granato, con un naso non troppo espressivo, che accenna già ricordi animali frammezzandoli alla classica frutta matura (prugna).

L’ingresso porta subito in primo piano la acidità, davvero notevole, e poi un tannino non asciutto o mordace ma di certo serrato. Il corpo medio accompagna ad un finale di discreta lunghezza, un po’ sporcato dall’amarognolo persistente.

Vino da pasto sincero, che con il suo alcol e il suo tannino ben si accoppia a preparazioni robuste come uno stracotto con un bel sugo, ma che forse si trova in una fase interlocutoria della sua vita: non ha i tratti felici e spensierati della gioventù, e non ha ancora raggiunto una maturità completa. Certo, la austerità un po’ statica (e stanca) non mi lascia presagire lunghi e luminosi percorsi futuri. Francamente mi aspettavo di più.

Il bello: sincero, austero

Il meno bello: poco espressivo

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Con tanti saluti ai punteggi, alle “degustazioni oggettive” e, certo, anche agli articoli dei blog (questo compreso).

Mi spiego: io neppure mi ricordavo di averlo bevuto questo Metodo Classico, e dopo averlo portato a casa, raffreddato, stappato e sbevucchiato, ho acceso il pc e mi son messo da bravo a buttare giù due righe poco entusiaste.
Verso la fine mi si è accesa una lampadina: vuoi vedere che..?
E in effetti si trattava di un prodotto già assaggiato e recensito, e persino in termini lusinghieri piuttosto divergenti dall’opinione suscitata questa volta…

Nulla da dimostrare, se non la mia vecchia convinzione che tutte le pippe che ci facciamo con il bicchiere roteante sono appunto questioni di lana caprina: ogni bottiglia ha una storia e una evoluzione diversa (in gran parte), e persino i nostri sensi sono soggetti a situazioni ben differenti (la stagione, la giornata in cui sei ben disposto o nervoso, il cibo con cui abbiniamo il vino, la salute eccetera).

Quindi nessuna recensione, comprese le mie affidate a queste pagine, hanno senso?
Non arrivo a tanto, ma di certo vanno prese per quello che sono: impressioni su quella specifica bottiglia in quel determinato momento secondo un singolo individuo, da cui si possono trarre alcune indicazioni ma non di certo verità bibliche.
E certo, mi azzardo a dire che le discussioni infinite per spaccare il capello tra un punteggio di 88 piuttosto che 90 sono da manicomio.

Per la cronaca, ecco quel che ho pensato del vino in questione:

Colore paglierino tenue, bolla estremamente sottile e fine. Al naso lievemente affumicato, molti fiori bianchi; preciso e piacevole.

In bocca la carbonica è un po’ pungente, ha bella acidità e struttura, ma il vino è scoordinato: soprattutto morde l’amaro che si avverte fin da subito e domina il sorso rendendolo monocorde e pesante.

Vino che non capisco: non so se è una bottiglia sfortunata o se sia in una fase complicata della sua vita.

Il bello: piacevole finezza olfattiva

Il meno bello: l’amaro domina incontrastato

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Lugana I frati 2014, Ca Dei Frati

Ho poca dimestichezza con i vini del Garda, e credo sia colpa di una accozzaglia di stupidi pregiudizi: non c’è la viticoltura eroica, non c’è il fascino del vino di montagna e neppure quello delle vigne che si affacciano sul mare. Eccetera.
Insomma, il lago è lì, placido e posato e temo che le agenzie di comunicazione di altre zone abbiano lavorato meglio con il mio inconscio…

Vediamo di rimediare con una bottiglia classica di una azienda che non si può non definire storica per la zona: Ca dei Frati.
Il vino è composto al 100% da uva Turbiana (che, se vado errato, è il Trebbiano di Soave) coltivata nella zona di Desenzano del Garda e vinificata in acciaio.

ca-dei-frati-luganaDenominazione: DOC Lugana
Vino: I Frati
Azienda: Ca dei Frati
Anno: 2014
Prezzo: 10 euro

Il colore giallo dorato e gli aromi gradevoli di agrume (pompelmo) e fiori bianchi conducono ad un assaggio assai garbato, morbido, ma condito da discreta sapidità ed equilibrio massimo.
L’assaggio è piacevole, tranquillo: non graffia e non finisce lungo e devo ammettere che un pochino di freschezza in più non avrebbe guastato ma è chiaro che si andrebbe contromano rispetto alla direzione scelta: questo è un prodotto che vuole accarezzare e coccolare, non certo aggredire.

E’ un vino tradizionale, in quel senso che oggi spesso si usa declinare negativamente, quindi preciso, ben fatto e “tecnico”, senza asperità e senza quegli spunti funky che abbiamo imparato ad associare alle bottiglie di molti produttori che definiamo naturali in tutte le coniugazioni del caso. Nonostante questo possiede un quid che lo distacca dalla massa di prodotti anonimi e senza anima.

E’ un vino che deve (e può certamente) essere gradito per quelle che sono le sue intenzioni: un piacevole accompagnamento a preparazioni di pesce delicatissime, finanche (grazie alla morbidezza) alle ostriche. E il prezzo è da segnalare per la correttezza.

Il bello: garbato, piacevole, prezzo corretto

Il meno bello: manca un pochino di spalla acida

 

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Brut Réserve, Pol Roger

Certo che ti girano le palle, vorrei vedere…

Hai scucito 40 e rotte carte per portarti a casa uno champagne di gran nome, medesima maison della quale hai scolato (in qualche degustazione a scrocco, ça va sans dire ) vari calici, godendone assai.
Certo, i sorsi in questione provenivano da cuvée più prestigiose rispetto a questo Brut Réserve, ma del resto, come si dice a Reims: noblesse oblige. O no?

No, infatti.

prDenominazione: Champagne AOC
Vino: Brut Réserve
Azienda: Pol Roger
Anno: –
Prezzo: 42 euro

Non sto neanche a menarla lunga coi dati tecnici: è il classico blend dei tre vitigni pinot noir, pinot meunier e chardonnay; il produttore dichiara il 25% di vini di riserva e quattro anni di affinamento. Fanno pure il remuage a mano, figurati.

Sui dati organolettici c’è poco da dire: il vino è tecnicamente ben fatto, ha tutto al posto giusto: il colore, le bollicine e pitipim e pitipam. Gli aromi mica sono sgradevoli, ci sono i frutti esotici, una buona dose di crosta di pane e una bella manciata di spezie dolci.
Ed è proprio questo il problema: al palato torna decisa la dolcezza che si esprime in maniera piuttosto stucchevole già al secondo bicchiere; non lo so se il problema sia il dosaggio, o (come ho letto da qualche parte) la percentuale troppo limitata di vini di riserva, o il momento di raccolta dell’uva o la congiunzione astrale di Marte in capricorno, fatto sta che la scelta produttiva virata su questi toni ricorda in maniera decisa e preoccupante quella di certi Franciacorta base, che vogliono per forza piacere a tutti.

Insomma, lungi dal sottoscritto voler fare la ormai tristemente tipica macho-esaltazione del pas dosè strappagengive, ma qui mancano proprio le quote sindacali di nervo e verticalità, che sono poi le caratteristiche che ci piace trovare in uno Champagne.

Il bello: vino molto morbido, gradevole aperitivo per i non appassionati

Il meno bello: vino molto morbido, troppo per gli appassionati. Prezzo eccessivo

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Rancia 1997, Fattoria di Felsina

Uno degli argomenti più affascinanti del vino è che non esiste una bottiglia uguale all’altra e che con ciascuna si può giocare come con una piccola macchina del tempo: stavolta mi è capitato un vino vintage e non ho perso l’occasione per un teletrasporto in epoca diversa, quando la parola d’ordine non era “naturale” ma semmai supertuscan, quando il credo dominante non era la bevibilità ma la concentrazione. quando i consuenti enologi non erano il demonio ma una risorsa.
Certo, molti vini di quel tempo sono invecchiati male, si parla sempre di marmellatone costrette in una coltre di rovere, ma secondo me si esagera, come si suol dire “buttando il bambino con l’acqua sporca”: lo dimostra la bottiglia di cui sto parlando, disarmante nella sua perfetta semplicità, per la quale gli anni non sono passati invano, levigando con precisione un vino che si dichiara classicamente toscano fin dalle prime occhiate, con un rubino non troppo concentrato che tende all’aranciato.

ranciaDenominazione: Chianti Classico DOCG
Vino: Rancia
Azienda: Fattoria di Felsina
Anno: 1997
Prezzo: 23 euro

Gli aromi non fanno i fuochi di artificio ma piacciono: domina il frutto maturo molto dolce, ma arriva anche il tabacco impreziosito da qualche accenno erbaceo e di sottobosco.
E’ l’assaggio il pezzo forte, di grande succosità e bella freschezza, con alcol poco avvertibile e tannino straordinariamente assorbito e amalgamato nella struttura, tanto da risultare appena percettibile.

Per dirla in due parole, una bottiglia di enorme bevibilità e straordinaria capacità di abbinamento a tavola (guarda caso, sono proprio le categorie di riferimento che vanno adesso per la maggiore tra gli appassionati…), insomma un gran vino gastronomico, che, pur essendo prontissimo, dopo quasi venti anni di attesa tradisce ancora gran voglia di invecchiamento!

Il bello: ottima piacevolezza di bevuta

Il meno bello: un accenno di vegetale al naso non elegantissimo

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Leivi Critical Beer 2016

I birrifici italiani che saranno presenti:
Birrificio Italiano (Co), Piccolo Birrificio Clandestino (Li), Birrificio Argo (Pr), Hibu (Mb), Birrificio Lariano (Lc), Kamun (Ge), Scarampola (Sv), Birra Galhop (Rapallo – Ge), Deep Beer (Sora- Fr) e Birrificio Civale (Al), Birrificio La Taverna del Vara (Sp)
Entrambe le giornate saranno inaugurate da degustazioni guidate dai mastri birrai ospiti, accompagnate da stand gastronomici con prodotti del territorio ligure come Asado, Testaieu e Focaccia al formaggio.
La serata di venerdì 2 settembre sarà aperta da SKATENATIGULLIO, a seguire è previsto il concerto dei WE LOVE SURF (Surf, Beat, Rock) con chiusura DJ set di TESTE RIUNDE.
La giornata di sabato 3 settembre inizierà con una selezione di dischi del DJ FIL FUNKY’s, concerto a seguire dei GATTO NERO GATTO BIANCO, la chiusura della serata sarà a cura del DJ set di FRISBY e NATTA.

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Carat 2010, Bressan

Gli orange wines hanno rotto i coglioni. E Bressan è un razzista insopportabile. E io mi sento sporco e colpevole per aver comperato questo vino.
Vai, partiamo col botto, così Analytics si impenna.

Sono arrivato nel mondo nel mondo del vino nel momento in cui tra gli appassionati terminali stava dilagando la moda dei vini naturali, delle fermentazioni spontanee, dei lieviti autoctoni, della biodinamica eccetera. Tra gli eccetera ci metto gli orange wines.
E di questa roba mi sono innamorato, saltando a piè pari le barriques, i grandi nomi, i supertuscans, i grand cru e così via: il mio imprinting è quello del piccolo produttore sfigato che ha recuperato il vitigno del trisavolo e lo vinifica nella vasca da bagno, più o meno.

Poi, un po’ alla volta, assaggiando e cercando di pensare con la mia testa e con le mie papille gustative, ho capito che non tutto l’orange is the new black, che nel passato (prossimo) ci sono valori da recuperare, ho capito cosa è moda e cosa è finezza, ho capito che il mio gusto è quello che comanda e che poco mi importa della critica enologica, sia essa mainstream che underground.

Riguardo a Bressan uomo, beh, cosa vuoi dire… a qualcuno poteva anche essere folcloristicamente simpatico finché andava in giro conciato da parà e sparando sentenze sull’universo mondo, compresi i produttori suoi vicini di casa affettuosamente apostrofati come “Collioni”, ma quando ho scoperto che sul profilo Facebook teneva appassionate lezioni di politica comparata, bollando ad esempio la  ministra Kyenge con il simpatico appellativo di “sporca scimmia … negra mantenuta di merda”, francamente ne ho avuto abbastanza e, senza il clamore che tanti hanno montato (le bottiglie spaccate in strada, i boicottaggi di alcuni distributori americani e l’esclusione dalla guida di Slow Wine), nel mio piccolissimo ho deciso di non versargli più oboli in cambio di una boccia di vino.

Fine della premessa.

caratDenominazione: Venezia Giulia IGT
Vino: Carat
Azienda: Bressan
Anno: 2010
Prezzo: 23 euro

Il tempo passa, e sinceramente era da tempo che traguardavo sullo scaffale questa bottiglia di Carat (un blend di Tocai Friulano, Malvasia e Ribolla Gialla leggermente macerato, affinato parte in barriques e parte in fusti di rovere), che magari non sarà un orange al cento per cento (ma poi, che vuol dire?) ma è uno degli esempi di cosa deve essere un vino bianco macerato: ambrato, vivo, dinamico, vibrante, senza volatile e senza eccessive pesantezze di bevuta.

Gli aromi sono di the, di miele, di nocciola, di albicocca, diluiti in un lontano ricordo di vernice, e poi in bocca poi è freschissimo, lontano da certi mappazzoni seduti e stanchi: qui il calore si accoppia alla acidità, assieme intensissimi, aprendo la strada ai ricordi di noce per poi chiudere con una persistenza notevolissima.

Certo, è difficile da abbinare e ti fa un po’ schifo pensare di passare banconote al camerata Bressan Fulvio, ma se sei onesto non puoi non dire che è una bella bottiglia.

Il bello: ricco, caldo, verticale, personalità

Il meno bello: Olfattivo timido rispetto alla potenza del sorso

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Le terrazze Svizzere: il Lavaux

Che in Svizzera si faccia il vino non dovrebbe essere notizia così straniante: se ci sono ottime produzioni in Germania e in Austria, e se in Francia zone molto più a nord (Borgogna, Champagne) riescono ad esprimere autentiche eccellenze, non si capisce perché ci sarebbe da discutere sul potenziale elvetico e fare la classica, banale ironia su cioccolata e orologi a cucù.

In realtà sono in molti a non conoscere la produzione vitivinicola svizzera, e i motivi sono senza dubbio consistenti: la quantità è limitata e ben poco esportata in Italia, inoltre il rifarsi in gran parte al modello francese senza averne il blasone ma mantenendo un prezzo piuttosto elevato non è propriamente un gran veicolo promozionale.

Detto questo, c’è sicuramente una zona altamente vocata, oltre che di eccezionale valore paesaggistico, che vale il viaggio: il Lavaux, patrimonio mondiale UNESCO a non molti chilometri dall’Italia, situato tra Losanna e Montreux, sul lago Lemano (volgarmente detto di Ginevra) e già questo dovrebbe tranquillizzare gli amanti del vino: lo specchio d’acqua è talmente grande da sembrare un mare e consentire quindi decisive funzioni di regolazione termica.
In aggiunta, i vigneti argilloso-calcarei che si estendono ad altitudine compresa tra i 400 e i 600 metri sono letteralmente appesi sul lago, abbarbicati vertiginosamente in terrazze a strapiombo costruite con pietre bianche che accumulano e riflettono calore: un esempio da manuale di quella che si suole chiamare (con un po’ di enfasi, lo ammetto) “viticultura eroica”.

Qui il vitigno principe è lo Chasselas, uva a bacca bianca di maturazione precoce, di limitata acidità ed estremamente antica, che pare originaria proprio di queste zone e che normalmente dà vita a vini freschi e fruttati, di discreta finezza, da consumare giovani e non molto più. Ma in alcune aree lo Chasselas si esprime al meglio, con buone possibilità di invecchiamento che regalano maggiore complessità, aggiungendo alla componente fruttata anche sensazioni mielose, minerali e di frutta secca: si tratta delle AOC di Dézaley, Calamin (entrambi Grands Crus) e St.Saphorin

Ho visitato la zona nel settembre di due anni fa (lasciamo perdere i motivi per cui queste righe sono rimaste inedite così a lungo, non è importante), ma ricordo nitidamente il paesaggio come il più affascinante mai visto nei miei viaggi a tema enoico, una bellezza leggermente struggente, languida come solo il lago riesce ad esserlo: la scena è illuminata da una luce abbacinante che enfatizza i colori straordinariamente vivi dell’azzurro riflettente del lago immerso nella cornice verde dei monti (il leggendario verde svizzero) sormontato dal bianco dei ghiacciai. E poi, certo, il giallo e il marrone rugginoso dei vigneti solcati dalle terrazze di pietre bianche. Uno spettacolo decisamente imperdibile non solo per gli amanti del vino.

In aggiunta, stato accolto con grande cortesia nelle tre aziende che ho visitato, da produttori ben felici di fare assaggiare i propri prodotti, disponibili al dialogo in un eccellente inglese; naturalmente le cantine erano perfette, di quella precisione che retoricamente definiamo svizzera.

Fin qui le note entusiasmanti, purtroppo ci sono anche lati non del tutto piacevoli: anzitutto i prezzi della ristorazione, estremamente cari anche a detta degli stessi produttori della zona, quindi è facile immaginare il salasso per le tasche dell’italiano medio. Io ho rimediato una cena di buon livello ad un prezzo decente alla scuola alberghiera di Losanna; provateci, tutto sommato è anche una esperienza divertente, si viene serviti (e “cucinati”) dagli studenti di una delle scuole a tema più prestigiose del mondo, supervisionati dai docenti, in un ambiente di grande eleganza.
Ancora: ci sono pochi riferimenti certi sui vini e sulle aziende: io, dopo aver letto di tutto e di più sono andato un po’ a caso; non si trovano mai prodotti mal fatti, ma è raro incappare in qualcosa che si elevi sopra una (buona) media.
Non ho trovato wine bar in cui fare degustazioni a tema o comparazioni, l’unico locale che può offrire varietà è a Rivaz, Vinorama.

Finisco con qualche suggerimento vario: a fine settembre a Lutry c’è una festa della vendemmia, niente di imperdibile ma può essere una tappa carina; ancora, per visitare i vigneti c’è un trenino che porta in escursione nel cuore degli stessi, ma francamente è evitabile: ve la potete cavare a piedi o in auto senza problemi, e infine, se avete voglia di fare qualche chilometro e immergervi in una Svizzera da cartolina, vi consiglio una tappa allo Chalet des Enfants, dove potrete mangiare una monumentale fondue au fromage all’aperto, in una atmosfera più che bucolica.

 

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Mandelberg Grand Cru 2005, Domaine Bott-Geyl

Le generalizzazioni sono sempre approssimative, spesso inducono ad errori e a banalizzare gli argomenti, e io ovviamente sto per scrivere una generalizzazione… Olè.
Parlando di riesling, la terra promessa cui si è soliti far riferimento è in Germania, più precisamente la Mosella; l’Alsazia, quindi i cugini francesi (una volta tanto) vengono dopo. Le differenze ci sono e pure marcate: chissà se bisogna dar retta alle sirene del mitologico terroir o se invece la colpa dei connotati cambiati è da attribuire agli stili e alle tradizioni di vinificazione.
Quel che è certo è che in Alsazia, a differenza che sulla Mosella, il Riesling è solo uno dei protagonisti assieme ad altri vitigni come il Pinot Grigio, il Muscat, Il Gewurztraminer, spesso i residui zuccherini sono inferiori, ma soprattutto il vino è più caldo, robusto. Ampiezza in luogo di verticalità: più potenza e meno finezza. Appunto generalizzando, certo.

Denominazione: Alsace Grand Cru
Vino: Mandelberg
Azienda: Domaine Bott-Geyl
Anno: 2005
Prezzo: 30 euro

A controprova di quanto sopra ho stappato questo Grand Cru di un produttore biodinamico di cui riesco a reperire poco o nulla (ecco, in questo francesi e tedeschi sono molti simili: molti produttori non hanno un sito o se lo hanno è come se non esistesse).

Via, ai bicchieri: bel giallo dorato, luminoso, naso intrigante di legni esotici e di the, e un leggero velo di morbidezza che richiama il burro e l’albicocca matura. Dopo un’ora circa aggiunge ancora più complessità, con riconoscimenti di fiori appena colti e di rocce bagnate (lo so che è una cazzata, ma assicuro che è una immagine che salta in testa annusandolo).

L’assaggio è caldo e grintoso, morde la parte laterale e finale della bocca: sono le sensazioni acide e sapide (soprattutto), molto decise e intonse perché il vino non presenta residuo zuccherino alcuno. Non male, ma molto robusto: rispetto alle sensazioni olfattive è più monolitico e perde in eleganza.

Non male, ma la bevuta non scorre via veloce: è di certo un vino da pasto, che con la sua potenza deve accompagnare carni bianche e pesci preparati con salse o comunque pietanze non delicatissime.

Il bello: bel naso variegato. Bocca potente

Il meno bello: manca un po’ di eleganza

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