Vouvray sec 2012, Domaine de Vaugondy

Altra degustazione di un vino del lotto reperito presso Vinatis.

Il Domaine de Vaugondy dispone di otto ettari nella zona di Vouvray, quindi Francia, Valle della Loira, a grandi linee dalle parti di Tours.
Il vitigno di riferimento della zona è lo Chenin Blanc, uva a bacca bianca di grande acidità e di conseguente grande potenziale di invecchiamento, impiegata per una vasta gamma di produzioni, dai vini secchi a quelli semi-secchi, dolci, passiti e agli spumanti.

Proprio in ragione del tipo di vitigno ho comperato senza grandi timori un vino bianco del 2012, sperando anzi che, come accade per molti riesling, l’invecchiamento potesse aggiungere complessità alla bottiglia.
Non ho grandi informazioni sulla metodologia di produzione: il sito parla solo di vinificazione in acciaio a temperatura controllata.

Denominazione: AOC Vouvray
Vino: Vouvray sec
Azienda: Domaine de Vaugondy
Anno: 2012
Prezzo: 12 euro

Il liquido è paglierino con netti riflessi verdolini, alla vista ben più giovane della sua età; gli otto gradi di temperatura di servizio consigliati sono decisamente troppo pochi: il vino resta muto, un liquido alcolico senza espressione.
Scaldandolo leggermente esce finalmente la personalità: un naso nettamente erbaceo (troppo, per i miei gusti), con un accenno di eucalipto. Di certo non è ampio, e quel vegetale è un po’ troppo invadente per definirlo elegante.

L’assaggio porta una bella acidità, richiami di frutta fresca: gli agrumi, la mela verde e un certo calore alcolico. Sullo sfondo si nota un residuo zuccherino che mitiga la freschezza e rende i primi due sorsi piacevoli; il problema è che alla lunga stanca, soprattutto appena il vino prende temperatura.

Bottiglia che temo abbia già passato il suo momento migliore: la leggera monotonia olfattiva e la mancanza di dinamismo in bocca me lo fanno temere

Discreto come antipasto, dato il leggero spunto zuccherino lo immagino interessante con i frutti di mare, ostriche in particolare.

Il bello: buon prezzo, bella freschezza

Il meno bello: troppo erbaceo al naso, un eccesso di zuccheri

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Caffè La Crepa, Isola Dovarese

Certo che al Caffè La Crepa non ci capiti per caso: per quanto mi riguarda ci sono voluti circa 25 minuti di auto, partendo da un hotel di Cremona e viaggiando lungo uno stradone Provinciale, diritto come la lama di un coltello che affonda la Pianura Padana nel buio più totale.

Essendo, come chi scrive, almeno un po’ attratti da certe atmosfere lievemente crepuscolari, si potrebbe persino essere affascinati quando si giunge ad Isola Dovarese: è freddo, c’è una pioggerellina leggera frammista alla nebbia appena accennata e si parcheggia dove si vuole in una ampia piazza di paese letteralmente deserta e illuminata in maniera piuttosto fioca. Non un rumore, neppure un cane.

E’ proprio su questa bella piazza porticata, da provincia antica, che si affaccia il palazzo del XV secolo che ospita al suo interno il Caffè La Crepa, la trattoria della famiglia Malinverno.
Se fuori il tempo sembra essersi fermato, lo stesso accade entrando nel locale, accolti da un grande bancone da bar sovrastato dal classico specchio inclinato, poi, sulla destra, una sala arredata con divanetti e sedie con velluti e una caratteristica stufa in maiolica. Io sono capitato in una serata in cui l’illuminazione era esclusivamente a lume di candela: benvenuti negli anni ’20!

Ok, ma il cibo? Non si cerchi qui il birignao di certi stellati: certo, c’è la piccola polpetta servita in guisa di amuse bouche, ma poi si parte con un menu a forte connotazione gastronomica locale declinato in forma canonica di antipasto, primo, secondo e dolce, con porzioni casalinghe che non occhieggiano alla litania del menu degustazione dalle millemila micro-portate.
Da queste parti non può mancare la classica entrée di salumi, tutti di gran livello, in questo caso serviti con una fetta di frittata e un contorno di giardiniera.
A seguire: gustosissimo il ripieno dei marubini in brodo, piacevole ma un filo troppo asciutto il riso alla pilota con salsiccia d’oca e finocchietto; pazzesco il cotechino, così morbido che si scioglie in bocca e in qualche modo riesce persino a non sembrare grasso… Chi lo ha assaggiato mi dice buone cose anche del dolce; ottimo il pane, che immagino maison (ma non ho chiesto).

Molto ben curata la carta dei vini, ovviamente non enciclopedica ma ricca di etichette “giuste” con un ricarico corretto, peccato non sia forse aggiornatissima, visto che una bottiglia scelta non era poi presente.
Per la cronaca, ho pasteggiato con un Laherte Millesime 2006 clamoroso: champagne da amatori, con un filo di ossidazione nobile e la bolla appena cedevole a supportare una pienezza gustativa encomiabile.

Non sono sicuro che il termine “trattoria”, oggi fortemente abusato, sia corretto per la tipologia di locale, ad ogni modo il servizio è garbato, preciso e giustamente informale, e il conto adeguato: fosse un locale sotto casa sarei felice di frequentarlo quando possibile.

 

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Il tempo sospeso del Barbacarlo

Non era una sosta prevista, anche a causa dell’orario francamente poco indicato per una visita, ma transitando per Broni non la avreste tentata pure voi una telefonata alla Azienda Agricola Barbacarlo?

Ricapitoliamo per i non enomaniaci. L’azienda Barbacarlo (figurati se esiste il sito da linkare) è lo one-man show del Commendator Lino Maga, e già nome e cognome in qualche modo rimandano ad un immaginario di provincia d’antan, anno 1886 per l’esattezza, quando un vigneto viene dedicato allo zio (“barba” in dialetto) Carlo.
E l’avventura della omonima azienda si dipana a partire da quel millesimo remoto sino ai giorni nostri, quelli che vedono alla guida l’ormai anziano patron, il Commendator Lino, un uomo certo testardamente arroccato sulle sue convinzioni, visto che dopo aver contribuito a fondare il Consorzio dei Vini Tipici dell’Oltrepò Pavese nel 1961, di detto istituto diverrà poi acerrimo nemico, anzitutto per una causa legale temeraria (come altro definire il procedimento ventennale di un uomo solo contro il Consorzio e il Ministero della Agricoltura, con tanto di ricorso al TAR del Lazio e richiesta di sollecito del parere al Consiglio di Stato?) e poi per disaccordi sulla non attribuzione della DOC a certi suoi millesimi.

La famosa causa, anzitutto: siamo sempre negli anni ’60 e il Disciplinare dell’epoca prevede che il nome della vigna “Barbacarlo” possa essere usato da vari produttori all’interno di un areale di ben 45 comuni. L’orgoglioso e cocciuto Maga inizia la sua battaglia legale, tanto disperata che si renderà necessario sostituire più di un avvocato prima di incontrare quello che riuscirà a portarla al successo dopo oltre 20 anni di tribolazioni, solo contro tutti. Unici a spalleggiarlo: Gioann Brera fu Carlo e Gino Veronelli.

Così oggi il Barbacarlo è, come direbbero i francesi, un monopole del Commendatore; il vigneto si trova a circa trecento metri di altitudine ed è coltivato a Croatina, Uva Rara e Vespolina. Ovviamente l’uva cresce senza diserbanti chimici; poi, in cantina la fermentazione avviene in legno e la macerazione si protrae per una decina di giorni.
Dalla fermentazione in poi è il caso a dominare, o meglio, come dice il Maga, la natura: le annate sono enormemente diverse l’una dall’altra, a volte evolvendo in bottiglie “amare”, come lui chiama quelle più secche, a volte con un certo residuo zuccherino, talvolta persino dotate di carbonica evidente. Ma va bene così.
Oltre al Barbacarlo, Maga vinifica anche un secondo vino ottenuto da un’altra collina, il Montebuono; ci sarebbe poi una terza etichetta, ma il vigneto è ormai stato abbandonato a causa delle difficoltà nel gestirlo.

Ma il mito del Barbacarlo trascende il prodotto, basta recarsi all’uscio della cantina nel centro di Broni per esserne partecipi: l’insegna un po’ rotta richiama suggestioni di piccoli e antichi vigneron d’oltralpe, così come l’etichetta sulle bottiglie. La sala di degustazione è pure essa un luogo dell’immaginario e della memoria, scura, legnosa, stipata di bottiglie sia aperte che chiuse e di un magnifico casino di oggetti, quadri, quadretti e fogli appesi, vergati con motti a sfondo enoico.

Poi, certo c’è lui, il Commendatore, che nel mio caso immagino stesse riposando quando ho telefonato e che quindi non ho osato disturbare se non per qualche  minuto.
Scende ad aprire con un curioso cappello di lana in testa, si muove flemmatico, con una sigaretta in mano che, sempre per malia di immaginazione vorresti fosse a marca Gitanes e ci trovassimo in una viuzzola di  Nuits-Saint-Georges, più o meno al tempo della Repubblica di Vichy.
E invece il Maga non arrota la “erre”, semmai articola con marcato accento padano e solo se una risposta è sollecitata, e lo fa con tale e tanta lentezza e ieraticità, tranciando sentenze apodittiche, da farne una sorta di incrocio tra uno Zeman oltrepadano e l’Oracolo di Delfi in salsa lumbard. La faccio breve, cercatevi i video su Youtube, ché valgono più di mille parole.

Infine il vino. Ancor prima di bere, vengono incontro i mitologici foglietti che Maga allega con lo spago al collo della bottiglia, ad esempio la 2015 recita “è da considerarsi ampio fruttato tendente al dolce”.
Ed in effetti è vero, c’è un po’ di dolcezza residua ma la vera amabilità la regala il frutto netto e godibilissimo, pur in presenza di un grado alcolico importante. Fatto sta che, nonostante il millesimo troppo recente, il bicchiere si svuota a velocità allarmante, in particolare (prova effettuata a casa, poche ore dopo) in accompagnamento ad un tagliere di salumi di zona. Le altre considerazioni (il colore rubino luminosissimo, la buona struttura, una discreta lunghezza) lasciano il tempo che trovano, in particolare per un flacone decisamente troppo giovane per poter essere giudicato in maniera corretta.

Il Commendatore dispone anche di qualche altra annata sul tavolo, qualcuna la assaggio e la gradisco, qualcuna meno ma vi evito la solita sterile litania di descrizioni che già altri hanno fatto sicuramente meglio di me, oltretutto taglio corto per non disturbare troppo un ospite anziano e colto senza preavviso.
Quel che conta è che il Barbacarlo non è mai uguale a se stesso, e che ogni volta (forse  anche grazie alla sua storia romanzesca e allo strabordante carisma del suo rustico demiurgo) riesce sempre ad emozionare, ed infondo cosa chiedere di meglio ad un liquido che da tempo non è più (solo) sollievo per la sete e neppure nutrimento?

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Live Wine 2017

Sabato di trasferta a Milano per il Live Wine, e come lo scorso anno le impressioni sono largamente positive per quanto riguarda l’organizzazione: ottimo lo spazio del Palazzo del Ghiaccio, in centro ma non troppo, quindi facilmente raggiungibile sia per chi si muove con i mezzi e sia per chi, come il sottoscritto, arriva in auto (non si corre il rischio di transitare in Area C e ci sono molti parcheggi in zona: io ho prenotato un posto auto a 10 euro per l’intera giornata).
All’ingresso c’è il graditissimo guardaroba e, cosa per me fondamentale c’è spazio: anzitutto il Palaghiaccio è molto areato, ben luminoso ed è sovrastato da una volta altissima, questo consente di non trovarsi immersi in una cappa di calore opprimente e in una bolgia di rumore quando il numero di persone inizia a salire, inoltre i banchi degli espositori non sono minuscoli e hanno una distanza decente gli uni dagli altri. Quanto sopra, in unione al gran numero di produttori presenti, permette di non trovarsi davanti a code scoraggianti dinanzi a ciascuno stand, nonostante l’importante afflusso di pubblico.
Ancora, ottimo il servizio di continuo svuotamento delle sputacchiere e le bottiglie di acqua sempre presenti ai banchetti; interessanti i seminari proposti nelle due giornate.

Gli unici appunti negativi: all’ingresso vengono consegnati il classico calice e il libricino ma manca la tasca porta-calice e nel’opuscolo sarebbe gradito anche l’elenco dei vini di ciascuna azienda (ma capisco sia complesso); gli stand del cibo sono decisamente cari e manca qualche punto di relax e di appoggio in più (tavolini e sedie).
Peccato che in vari casi a presenziare presso lo stand ci sia un distributore (o comunque un terzo) e non il produttore.
Ribadisco ad ogni modo che il salone è uno tra i più godibili tra quelli che  mi capita di frequentare, quindi complimenti all’organizzazione.

Venendo ai vini: luci ed ombre, purtroppo non poche le ultime. Preciso che mi sono dedicato in gran parte a nomi non noti e che forse anche per questo mi sono imbattuto in sorprese non piacevolissime, ma d’altronde la partecipazione ad un evento del genere serve soprattutto a sparare qualche colpo a casaccio, senza aver paura di impegnare tutte le cartucce in bottiglie ignote.
Così ho incrociato qualche francese del Languedoc con vini decisamente ossidati, un paio di alsaziani con una gamma appiattita nei confronti della finezza e un tedesco che presentava riesling di invecchiamento molto poco espressivi; poi ancora un Franciacorta eccessivamente rustico e vari produttori che presentavano vini affinati in botti scolme, e forse sarebbe stato meglio se fossero rimasti esperimenti di cantina. Infine, in almeno tre casi, ho assaggiato bottiglie palesemente non pronte, vini troppo giovani per poter essere degustati.

Detta così suona come un mezzo disastro, lo capisco, ma la realtà è diversa; ho incontrato tante belle conferme, ma visto che trovo stucchevoli gli elenchi telefonici redatti durante le degustazioni seriali, quindi  mi limiterò a riportare solo pochi nomi: Barraco mi ha impressionato con le sue sapidità, De Bartoli per la precisione e la pulizia di tutti i vini presentati, mentre Guccione mi ha stordito con un blend di due annate di Trebbiano, straordinariamente elegante.

Una volta tanto, ecco la bottiglia giusta di Pepe: in varie manifestazioni mi era capitato il suo Trebbiano con puzzette un po’ troppo marcate per poterle classificare come “corredo aromatico”. Stavolta le due annate che mi sono state servite giustificavano abbondantemente blasone e prezzo.

Infine c’è un nome su tutti che mi piace segnalare, perché è solo la seconda volta che assaggio i vini di Vigneto Altura, un piccolo produttore dell’isola del Giglio, ed entrambe le occasioni le ho vissute come vere rivelazioni.
La mia prima è stata un paio di anni fa, con il suo bianco Ansonaco Carfagna: un liquido con qualche evidente lievito in sospensione che, già sorprendente sotto al naso, in bocca diventa un caleidoscopio di succhi di frutta alcolici. Ieri ho ritrovato questo vino esattamente dove e come lo avevo lasciato: dissetante, divertente, originale.
Curiosamente, proprio un paio di settimane fa parlavo con alcuni amici di questo produttore e mi erano stati magnificati anche il suo rosato e il suo rosso: confermo che, se vi capita, valgono ben più di un assaggio distratto nella calca di una manifestazione: il rosato (da sangiovese) e il rosso (un assemblaggio di tali e tante uve diverse da essere ironicamente classificato da un amico come “Chateauneuf du Pape del Gliglio”. Di entrambi ricordo i sentori distinti di macchia mediterranea e la godibilità di bevuta: vini facili ma per nulla banali, mediterranei nell’essenza.
Alla bontà dei prodotti si aggiunge poi la semplicità garbata e amichevole del produttore, che si è prestato a quattro chiacchiere tranquillo come fossimo a casa sua, limitandosi a descrivere il frutto del suo lavoro senza cadere nella retorica naturalista e della viticultura eroica.

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Chardonnay 2002, Pierre Morey

Certo che ti senti tremendamente demodè, oggi, se confessi di aver voglia di chardonnay: l’enomondo che conta ha virato da tempo verso lidi più asciutti, verticali, esili, dritti. I fantomatici vini “minerali”, qualsiasi cosa voglia dire.

In realtà la tendenza la capisco benissimo e la sposo pure io con un certo sostegno: certe bottiglie opulente fino all’eccesso, che risultano di gradimento massimo durante una sessione di degustazione, servite in dosi omeopatiche, restano invece piene a metà alla prova del nove, quella della tavola. Meglio allora vini più sottili, magari anche più semplici, soprattutto più eleganti.
Lo chardonnay, a torto o a ragione, si è guadagnato la fama di “vinone” burroso e grasso, e a peggiorare le cose in tanti lo hanno abbinato ad affinamenti selvaggi in legno piccolo nuovo. Insomma, il simbolo di una certa enologia retrò, anni 80-90 oggi percepita come il fumo agli occhi dal gruppone degli enostrippati terminali.

C’è un “però”: gli stessi wine-addicted di cui sopra sono poi quelli che popolano le loro polluzioni notturne di fantasmi borgognoni, dove, mi risulta, il vituperato vitigno bianco e la bistrattata barrique la fanno da padrone…
Ne consegue che, e scrivo una banalità, lo chardonnay, in certe zone (e in certe mani) è una grande uva, persino (anzi, ancor di più) se affinato in piccole botti di legno, quando usate da chi sa cosa sta facendo.

Detto questo, sono il primo ad ammettere che non è facile scovare questi esempi virtuosi: hai voglia a dire Borgogna se il portafoglio non è quello di un oligarca russo, così quando ho visto a scaffale questa bottiglia dal prezzo civile e dal millesimo non recentissimo non ho resistito alla tentazione

Denominazione: AOC Bourgogne
Vino: Chardonnay
Azienda: Domaine Morey
Anno: 2002
Prezzo: 26 euro

Il vino è un Triple A di Pierre Morey, azienda con terreni a Meursault, Monthélie, Pommard e Puligny Montrachet, che svolge sia attività di vinificazione delle proprie uve che di negociant.
Il Domaine è stato convertito a biologico prima e poi a biodinamico già negli anni 90.

La bottiglia in assaggio è una appellation regionale, quindi nulla di particolarmente prestigioso, anche se le uve sono tutte provenienti da parcelle locate nel comune di Meursault e il 2002 è considerato un millesimo equilibrato e degno di invecchiamento.

Colore paglierino carico, quasi dorato, comunque ancora ben luminoso, senza accenni di decadimento.
La prima olfazione è precisa: zabaione e zucchero filato, ma non è molle e neppure particolarmente complesso, semmai regala anche alcuni richiami più vegetali.

L’assaggio, pur ampio, non è “seduto”: entra burroso e intenso, sostenuto da una bella acidità; il calore poco avvertibile e il corpo, importante ma non robusto, contribuiscono alla piacevolezza del sorso che termina lasciando la bocca pulita, per nulla stucchevole, con una discreta lunghezza.

Ovviamente non è la bottiglia da scegliere per un aperitivo o per il sushi del sabato sera, ma se avete un primo sostanzioso (magari un risotto ai funghi) o un secondo di pollame potete star certi che l’abbinamento sarà ben riuscito.

Il bello: vino non troppo verticale, ma controllato e comunque dinamico

Il meno bello: vino non troppo verticale, ma controllato e comunque dinamico

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Carlaz 2012, Primaterra

Nella ragione sociale è scritto Prima Terra, ma la firma che si legge è quella prestigiosa di Walter De Battè, ormai uno dei simboli del vino “eroico” e non solo.

Mi (e vi) risparmio i consueti richiami al territorio delle Cinque Terre, alla difficoltà della professione vitivinicola ambientata in un paesaggio certamente di struggente bellezza, ma che deve radicare su terrazzamenti ripidissimi a strapiombo sul mare.
Mi limito a scrivere, ma è opinione personalissima di chi scrive, che se si cerca un vino capace di esprimere un carattere decisamente ligure, occorra scandagliare non tra i Vermentini dei  Colli di Luni, o nei Pigati di Ponente, o tra i Rossese, piuttosto semmai in certi Cinque Terre, peraltro tipicamente assemblaggi (Bosco, Albarola, Vermentino).

E quindi mi contraddico subito: il Carlaz non è classificabile come DOC Cinque Terre, è un Vermentino in purezza e per soprammercato la coltivazione delle uve avviene nella zona collinare sopra a Carrara, eppure, nei casi di bottiglia particolarmente fortunata come quella in questione, non esiterei ad indicarlo ad un ipotetico alieno enofilo come bevuta paradigmatica alla comprensione del vino ligure, perlomeno quello della riviera di levante.

Denominazione: VDT Bianco
Vino: Carlaz
Azienda: Prima Terra
Anno: 2012
Prezzo: 25 euro

Dicevamo, vermentino al 100%, leggera (ma sensibile) macerazione senza controllo della temperatura, poi acciaio e nessuna chiarifica e filtrazione.

Dorato, pieno e ricco già alla vista, si conferma tale alla prima olfazione: alle narici arriva un blend di salmastro, di eucalipto e di “puzzetta nobile”. Un filo di volatile? Forse, ma così, appena accennata, è solo il veicolo degli aromi.

Assaggio più canonico rispetto al naso, comunque robusto, caldo, pieno, intenso, anche se magari non particolarmente lungo. Vino mediterraneo, a partire dal colore intenso fino a finire con aneliti di frutta secca che raccontano suggestioni siciliane  e spagnole.
Esige una temperatura non bassa e qualche cibo adeguato, sia come struttura che come latitudine: nel mio caso ha ben gestito una pasta con salsa di cozze, porri e patate

Il bello: l’intenso animo mediterraneo

Il meno bello: prezzo non banale; mi risulta una grande variabilità da bottiglia a bottiglia

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François de Tournon 2013, Delas Freres

Partiamo con con la seconda bottiglia dall’ordine di Vinatis: si tratta di un prodotto della azienda Delas Freres, un produttore storico, presente sul mercato da fine ottocento, che dal 96 ha subito una fusione con la maison champagnistica Deutz.

I vini di Delas coprono molte denominazioni della Cote della Côtes du Rhône: in questo caso parliamo di un Saint-Joseph, denominazione che si sviluppa per una cinquantina di chilometri sulla riva destra del Rodano, su terreni e microclimi di varia tipologia (leggendo le note di produzione ho scoperto che addirittura copre 26 comuni nel dipartimento dell’Ardeche e tre in quello della Loira).
Proprio a causa di questa eterogeneità propone vini con caratteristiche piuttosto varie; il vantaggio è che i prezzi, a differenza di quanto accade con “vicini di casa” più prestigiosi come Hermitage e Cote Rotie, sono abbordabili con una qualità media (per quanto mi è capitato di assaggiare) di buon livello.

Denominazione: AOC  Saint-Joseph Rouge
Vino: François de Tournon
Azienda: Delas Freres
Anno: 2013
Prezzo: 18 euro

Le uve di questo vino non provengono da territori di proprietà (l’azienda ha Domaine ad Hermitage e Crozes-Hermitage) ma da conferitori di fiducia, ovviamente sono syrah al 100% e la produzione è di circa 20.000 bottiglie l’anno.

La raccolta è manuale, con due giorni di macerazione a freddo e poi fermentazione in cemento a temperatura controllata e affinamento in legno.

Nel bicchiere è di un bel rosso rubino,  carico e intenso che lascia presagire un vino di spessore, impressione confermata dall’olfatto che apre con la classica frutta rossa sotto spirito ma poi aggiunge un leggero ematico, qualche pennellata di spezia tipica del vitigno (il pepe) e il cassis. Nel complesso è piacevole e piuttosto riconoscibile come provenienza.

Sorso caldo, in cui emerge la liquirizia, vibrante e teso grazie ad una decisa freschezza che ben si amalgama all’alcol che si fa sentire  e ad una certa morbidezza. Chiudono l’assaggio un corpo deciso e  un tannino estremamente setoso. Vien voglia di capire dove può arrivare con un lustro in più sul groppone, tanta è la materia che propone…

Nel complesso il bicchiere finisce presto, in particolare a tavola con i classici accompagnamenti di carne (bistecche al sangue, stracotti in umido, insomma in generale dove ci sia succulenza) e formaggi

Il bello: gradevolmente voluttuoso, ma deciso

Il meno bello: nulla da segnalare

 

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Le Page 2015, Domaine De Rocheville

Lo scorso mese ho fatto un ordine di bottiglie francesi presso Vinatis: il sito mi è sembrato fornito e con prezzi nella media (comprese le spese di spedizione). Avendo voglia di un excursus su vini nuovi, la mia scelta è caduta su prodotti a me sconosciuti, con prezzo inferiore ai 15 euro (a volte sotto i 10, in un solo caso ho toccato i 27) e con buoni punteggi sulle varie guide. Come altri siti, Vinatis al primo acquisto regala un buono da 10 euro, in più si hanno altri 5 euro nel caso di iscrizione alla mailing list dichiarando i propri interessi e un euro per ogni recensione.

Un poco alla volta vedrò di segnalare ciò che di valido ho stappato, per ora mi piace riportare la spedizione tempestiva e ben imballata e la cortesia di Vinatis, che dopo una mail in cui ho fatto loro presente una bottiglia non fallata ma per nulla performante (in modo che potessero verificare il lotto ed evitare delusioni ad altri clienti), mi ha accreditato l’importo senza alcuna richiesta.

Uno dei vini che ho acquistato è questo Samur Champigny, ovviamente 100% cabernet franc, che mi incuriosiva particolarmente,  visto che si tratta di un vitigno piuttosto poco praticato in Italia, particolarmente in purezza.

Denominazione: AOC Samur Champigny
Vino: Le Page
Azienda: Domaine De Rocheville
Anno: 2015
Prezzo: 10 euro

il Domaine De Rocheville si trova a Parnay in Loira, nel cuore della denominazione, ed è un progetto piuttosto recente (2013); i vini prodotti sono quelli tipici della regione: bianchi a base Chenin e appunto rossi da Cabernet Franc come questo Le Page, che viene descritto come un vino giovane, vivo, ricco di aromi, da tutto pasto e capace di qualche anno di invecchiamento.

La scheda di produzione spiega di una resa di 55 quintali per ettaro, di vinificazione con temperatura controllata e di sei mesi di affinamento in acciaio.

Versandolo si nota subito un bel colore rubino acceso e un corpo medio: già l’aspetto sembra confermare la propensione ad una bevuta facile e spensierata.
Gli aromi sono intensi e netti: principalmente quelli propri del vitigno, quindi richiami al vegetale del peperone e uno zic di balsamico, poi ciliegia e frutti di bosco (il lampone): un bel naso ricco e godibile.

Il sorso è caldo e asciutto, estremamente secco e con un bel tannino deciso. Torna il fruttato e una chiusura amarognola non fastidiosa. Discreta persistenza.

Un bel compagno di mangiate, in particolare carni alla brace o al forno: io lo ho abbinato appunto ad un cosciotto di anatra al forno con mele e patate e grattata di scorza arancia, ma può fare la sua figura anche con formaggi di media stagionatura o salumi.

Il bello: bei profumi  e prezzo correttissimo

Il meno bello: sorso un po’ meno interessante rispetto al naso

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Brut Vintage 2008, Roederer

Questo doveva essere lo champagne di Capodanno, o meglio lo è stato, peccato che non abbia risposto alle attese dettate dal blasone (e, forse più importante, dal listino).

Non tedio con i dettagli sulla storica maison di Reims: chi fosse interessato può facilmente leggere tutto quanto è riportato sull’esaustivo sito o cavarsela con queste mie brevi note (https://www.centobicchieri.com/roederer-brut-premier/).

Denominazione: Champagne
Vino: Brut Vintage
Azienda: Roederer
Anno: 2008
Prezzo: 70 euro

La scheda di produzione parla di un assemblaggio per il  70% di Pinot nero e il 30% di Chardonnay, e per un terzo circa usando vini vinificati in legno.
La malolattica non viene svolta. Il dosaggio è di 9 g/l.

Neppure vale più la pena dettagliare l’aspetto visivo: praticamente tutti gli champagne provati nell’ultimo anno riconducono alla perfezione formale: colore paglierino, bolle micrometriche e fitte, grande luminosità.

Le differenze arrivano semmai a partire dai sensi che tutto sommato più ci interessano: olfatto e gusto. In questo caso il vino si approccia con note di grande austerità: lo spettro olfattivo si articola in particolare sul versante iodato e prosegue con accenni di frutta secca, chiudendo con un piccolo sussurro floreale. Il tutto estremamente discreto e sottotraccia.

L’assaggio prosegue sulla stessa falsariga: discrezione e sorso serrato, con pochissime concessioni alla voluttà. Ingresso molto secco, asciutto nonostante il dosaggio dichiarato e con la freschezza sugli scudi.
Anche in bocca ritorna la sensazione salmastra, con una chiusura che si ferma giusto un passo prima dell’accenno amarognolo.

Bottiglia di certo non godibile in autonomia: per essere gustata necessita di piatti da accompagnare (carni bianche), e che devo essere sincero non mi ha soddisfatto del tutto, va bene la drittezza e la sottrazione dei fronzoli, ma qui si rasenta il monastico: a questi prezzi mi piacerebbe un po’ più di espressività

Il bello: lo iodato e la verticalità

Il meno bello: eccessiva austerità. Prezzo importante

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Perlé Bianco 2006, Ferrari

Arrivo ultimo dopo i grandi: i siti “importanti” questo Perlé Bianco lo hanno già recensito, forti dell’invito di casa Ferrari, che con varie degustazioni ha proposto in assaggio il vino a quelli che contano.

Nel mio piccolo, io la bottiglia la ho comperata e ne sono anche felice, visto che ritengo Ferrari la migliore casa spumantistica italiana by far, sia per la costanza qualitativa che per l’ottimo livello medio di tutta la gamma, sia per l’eccellenza dei vini di punta.

Detto questo, resta la curiosità irrefrenabile di assaggiare un vino nuovo, 100% Chardonnay, coltivato a 400-700 metri di quota e con affinamento di oltre 100 mesi sui lieviti.

Denominazione: Trento Doc Riserva
Vino: Perlé Bianco
Azienda: Ferrari
Anno: 2006
Prezzo: 35 euro

Alla vista è perfetto, con il suo paglierino vivo e luminoso, reso splendente dalle catenelle di un perlage da manuale, tanto è sottile e fitto.
Gli aromi sono intensi ma suadenti: spicca l’agrume (cedro) su un sottofondo di fiori bianchi, un accenno di talco, un ricordo iodato e uno zic di biscotti al burro (una sosta in legno? Pare di no).

In bocca arriva subito quello che apprezzo negli spumanti di Ferrari: l’equilibrio perfetto, che in questo caso si accompagna ad una complessità notevole, soprattutto senza cenno alcuno di fatica per il lungo affinamento.
Questo è un vino giovane, in cui freschezza e sapidità sono pronunciate (per fortuna) ma armonicamente bilanciate da un dosaggio tanto leggero (4,5 g/l) quanto decisivo.

Le bollicine non pungono, anzi sono una crema che regala un lieve massaggio al cavo orale, mentre il calore alcolico pressoché inavvertibile invita a nuovi sorsi; il finale è lungo, disteso e, come dubitarne, esente da qualsiasi scia amara.

Gran vino, e alla faccia di tutti coloro che dicono che certi paragoni non hanno senso e non si possono fare, io lo dico: questa bottiglia è a livello di ottimi champagne blanc de blancs di prezzo superiore.

Abbinamento? Quelli tipici da Metodo Classico: antipasti (Parmigiano, salumi), primi di pesce (risotto con gli scampi), magari anche qualche carne bianca.

Il bello: L’armonia complessiva

Il meno bello: Nulla da segnalare

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