Cuvée Oenophile 2008 Premier Cru, Pierre Gimonnet

La famiglia Gimonnet è uno dei vigneron storici della Champagne, potendo vantare ben 28 ettari in Cote de Blancs, suddivisi in vigneti Premier e Grand Cru che raggiungono anche i 75 anni di età.

Denominazione: Champagne
Vino: Cuvée Oenophile
Azienda: Pierre Gimonnet
Anno: 2008
Prezzo: 35 euro

Una delle etichette più interessanti della maison è questo non dosato datato 2008, Chardonnay al 100%, Classificato Premier Cru anche se la maggioranza delle uve viene da vigneti in zona Grand Cru.
Trattandosi di millesimato viene ovviamente prodotto solo in annate particolarmente favorevoli.
La metodologia di produzione vuole la vendemmia manuale, l’uso di temperatura controllata, lo svolgimento della malolattica e una lievissima filtrazione prima dell’imbottigliamento.

Parlando di un metodo classico che è maturato sui lieviti per anni, ci si aspettano tostature, accenni di frutta secca, magari un filo di ossidazione. Tutto sbagliato, e si capisce già dal colore paglierino tenue, vivacissimo.

All’olfazione difatti arrivano praticamente solo gesso e limone, ciò nonostante la complessità e notevole, giacché questi due elementi si articolano in mille declinazioni, sempre in maniera sottile, aggraziata e ficcante; se esiste il famigerato minerale qui è il caso di spenderlo.
Col passare dei minuti si aggiunge al bouquet anche il fiore bianco, ma sostanzialmente si resta sempre nella traccia di un vino fresco e teso.

L’assaggio è coerente: la bolla è sottile e fitta, realmente cremosa, così come l’acidità è potente ma fortunatamente non strappagengive.
Inequivocabilmente champagne e senza dubbio Chardonnay, inconfondibile con altri metodo classico talmente è netta la fresca impronta di gesso, che neppure per un istante accenna al finale amaro.
Bella lunghezza, non manca neppure di struttura ed eccelle in energia e verticalità.
E’ banale predirgli una vita ancora lunga e consigliarlo con crudi di pesce o per aperitivi.

Uno champagne dal sorso senza compromessi, non c’è cenno di terziarizzazioni, nessun ingentilimento o ruffianeria da legno o da dosaggio importante, nessun rimando al cognac, al tartufo o ad altre evoluzioni che spesso caratterizzano alcuni champagne maison (che peraltro tanto ci piacciono: si tratta di interpretazioni diverse della denominazione, entrambe con pari dignità): qui si gioca  un campionato diverso, quello nel quale un vino del 2008 è tesissimo e sembra prodotto ieri e punta al massimo della purezza possibile per la denominazione.

Il bello: La tensione, la purezza e la verticalità

Il meno bello: nulla da segnalare

Articoli correlati:

Antica Osteria Magenes, Barate di Gaggiano

Come si individua il limite tra sperimentazione sterile, un po’ fine a se stessa o (peggio) messa in campo per stupire con effetti speciali, e la sana volontà di rompere gli schemi per cercare di stimolare e proporre nuove esperienze?
Naturalmente stiamo parlando di ristorazione, e il dubbio è sorto dopo un passaggio alla Antica Osteria Magenes, alle porte di Milano.

Già in partenza il ristorante si pone in maniera ambivalente, con una proposta che oscilla tra tradizione e sperimentazione: la carta presenta alcuni piatti classici (ad esempio cotoletta e risotto giallo) accanto a suggestioni più esotiche (penso alla Spirale di foie gras, uva fragola, robiola di capra, fave di cacao, o ai Ravioli di mortadella, ostriche, nocciole e shiso), e soprattutto una serie di menu (quattro) tematici ma a sorpresaa tema, che lasciano mano libera allo chef.
Il motivo di questa apparente schizofrenia è la storia del locale, che nasce appunto come osteria e poi evolve dopo l’ingresso in cucina e in sala dei figli dei proprietari storici.

In una situazione del genere la cosa migliore è affidarsi ad uno dei percorsi di degustazione, in modo da ricavare una panoramica più ampia possibile sulle idee di cucina dello chef. Nello specifico ho deciso per il menu “A-mare”.
Le portate sono state molte e varie, e non ha molto senso farne l’elenco, visto che mi pare di capire che la proposta sia piuttosto variabile: in alcuni casi i sapori sono piacevolmente decisi (ricordo in particolare una sorta di fagotto di pasta scotta (volutamente) ripiena di vongola, la arachide soffiata con wasabi), mentre con altri si resta tutto sommato indifferenti (il finto pomodoro ripieno vegetale), ma questo è normale all’interno di un percorso piuttosto lungo (anche troppo, circa tre ore) e variegato.

Lascia semmai più perplessi una certa tendenza alla spettacolarizzazione poco votata al risultato finale (due per tutti: il frattale di anice camomilla, miele e lamponi, che pure è molto buono ma che per poter creare il suo effetto ottico è arduo da raccogliere dalla scodella, e il cioccolato bianco, frutta e bottarga, nel quale per dare un tocco di giusta sapidità al dolce si è optato per il “famolo strano” del pesce, a mio modestissimo modo di vedere piuttosto fuori luogo) e l’incongruenza sulla dimensione delle portate, alcune così lillipuziane da renderne difficile la decrittazione gustativa, per poi presentare quasi in chiusura di cena, quando si è inevitabilmente quasi sazi, due piatti dalle porzioni molto più generose del necessario (un risotto e un polpo).
Sia chiaro che non parliamo della classica lamentela del recensore di TripAdvisor che lamenta di dover far seguire un successivo passaggio in pizzeria per calmare l’appetito, al contrario da Magenes si esce ovviamente più che sfamati, semmai non sarebbe male rimuovere un paio di passaggi in modo da rimpolpare leggermente i rimanenti e compattare anche i tempi di servizio.

Note a contorno della cena: la bella sala elegante, senza sfarzi pacchiani ed illuminata in maniera estremamente intelligente, risulta un po’ troppo rumorosa, il servizio è professionale e non ingessato, il pane è di buon livello ma non eccessivo come varietà.
Bella la carta dei vini, con incursioni di interessante personalità anche in Francia e dai ricarichi corretti.
Conto finale non banale ma tutto sommato adeguato.
Buona esperienza, che potrebbe essere migliorata decidendo di arginare spettacolo e di tecnica in favore di un superiore saldo di concretezza.

Articoli correlati:

Rivella, Langa d’antan

Come fai a non innamorarti dei vini di Teobaldo Rivella?
Sarà per quel nome di battesimo d’antan (che fa pari con quello impresso nella ragione sociale: “Serafino”), oppure per la calda e semplice accoglienza che ti riserva con la sorridente moglie Maria? O magari per il discorrere gentile ma schietto, lontano dal consueto birignao stipato di parole d’ordine di moda nell’eno-mondo?
Forse per tutti questi motivi e di sicuro per molti altri ancora, ma ridurre il gradimento ad una generica empatia per il produttore sarebbe ingiusto nei confronti dei prodotti della manualità e dell’ingegno di questo vignaiolo: i suoi Barbaresco Montestefano e Dolcetto.

Per ordine: dopo aver bevuto uno strepitoso Montestefano 2004 è arrivato il momento di far visita al signor Rivella: quale migliore occasione di andar per Langa di un torrido weekend di fine luglio, quando la mancanza di precipitazioni e le temperature africane stanno lasciando a secco mezza Italia e gli spostamenti automobilistici si trasformano in perenne ingorgo a passo d’uomo?

Tutto passa quando sali sulla collina che porta al Montestefano, una conca ripida, stipata di filari, su cui argine sorge la villetta dei Rivella, annunciato da una sobria targa di riconoscimento; neppure il tempo di trovare il campanello che il signor Teobaldo esce di casa e viene a salutare.

Ho già espresso i miei sentimenti sulle visite in cantina, spesso di una noia imbarazzante: del resto chi può sinceramente appassionarsi alla vista di una linea di imbottigliamento o ad una catasta di cartoni da sei bottiglie?
E del resto non sono tipo da illuminazioni mistiche al cospetto del produttore del vino del cuore: non amo i miti e considero le persone come tali, lavoratori che svolgono più o meno bene una professione e non guru cui abbeverarmi di saggezza. Se a questo si aggiunge che mi ammorbano mortalmente le discussioni su lieviti selezionati, dimensione delle botti e terroirismi vari, si capisce come forse farei meglio a starmene a casa invece di macinar chilometri per incontrare un vignaiolo.

Ci sono però dei casi in cui la visita si rivela piacevole e contribuisce al gradimento e all’approfondimento di un prodotto, ed è facile intuire che questo è stato uno di quelli.
Non serve mica niente di speciale, solo un uomo che ha voglia di sedersi a tavola con te e parlare e sorridere mentre si bevono assieme due bicchieri di vino, che sarebbe poi il motivo per qui questo liquido lo abbiamo inventato.
Certo, è utile se la persona in questione ha qualcosa da raccontare, oltre che le sterili questioni tecniche sulla annata siccitosa, i circa trenta giorni di macerazione sulle bucce del prodotto di punta, le vigne di cinquanta anni o (finalmente qualcuno che lo dice) l’importanza del fattore umano, dicesi “manico”, nell’equazione del terroir.

Quel qualcosa da raccontare, nel mio caso, è stato l’aggancio ideale con un altro di questi vignaioli a misura di visitatore, quel Flavio Roddolo di cui ho già avuto modo di raccontare. L’elemento che mi ha portato ad accostare due personaggi a prima vista diversi (uno nella zona del Barolo, barbuto e un po’ trasandato, solitario e a prima vista burbero, l’altro a Barbaresco, abbronzato e in forma, sposato e affabile) è il rapporto con il mondo esterno.
Entrambi non hanno un sito e neppure una mail, Teobaldo addirittura mi conferma che alcuni distributori stranieri tengono un fax solo per lui; per tutti e due si capisce che fare il contadino e seguire certi ritmi più che un lavoro è una esigenza di vita: quando chiedo a Rivella se negli anni ha auto la possibilità di espandersi oltre a suoi due ettari, mi risponde che occasioni ne ha avute eccome, ma che a lui piace curare tutto in prima persona e avere i sui tempi piuttosto che arricchirsi. Non manca una frecciata ad colleghi della zona che hanno fatto altre scelte, definite legittime, ma che che non possono più dirsi “artigiani”.

Proseguiamo scambiando qualche opinione sui ristoranti della zona (per la cronaca, mi raccomanda La Coccinella, Battaglino e L’antica Torre), sui vini francesi (ottimi ma cari, e i vini di Langa sono destinati a seguire lo stesso percorso) mentre finiamo i bicchieri.
Il Dolcetto (tipologia che frequento poco) mi sembra uno dei migliori mai bevuti: leggermente speziato, non aggressivo tannicamente e con un finale che nel giro di un paio di anni, quando raggiunge il suo apice gustativo, sfodera un finale gradevolmente mandorlato.
Il Barbaresco ha semplicemente un rapporto qualità-prezzo favoloso, ma è un ottimo vino tout-court, anche lasciando da parte la questione economica: nonostante la riottosità e l’irruenza del nebbiolo, già all’uscita sul mercato è gradevole perché amalgamato e non scomposto, se poi si ha la pazienza di attenderlo una decina di anni come ad esempio il 2004 di cui si diceva in apertura, si beve una bottiglia di vigore ma setosa, con tutte le sfaccettature del caso, dalla violetta al sottobosco.

Articoli correlati:

Chateauneuf du Pape 2013 – Chateau Maucoil

A Châteauneuf-du-Pape mi sono fermato solo alcune ore, due anni fa.
E’ una bella cittadina ricca di storia e atmosfera, e soprattutto sembra ancora viva, abitata da persone che lavorano sul posto, contrariamente a quel che accade a troppi borghi antichi somiglianti ormai ad un ibrido tra un museo, Eurodisney e un bazar di cianfrusaglie per turisti.
Ricordo di essere capitato nel paese una domenica mattina; appena sceso dall’auto mi sono imbattuto in un negozietto di vini e alimentari, titolare una vecchietta che stava in piedi a malapena ma che stappava bottiglie con vigoria, gestendo con una certa amabile rudezza una degustazione improvvisata con una decina di presenti. Per buon peso, accanto ai vini, un cestino di formaggi e salumi strepitosi.

Detto questo, della denominazione conosco troppo poco per fingermi esperto, anche perché ne vengo da anni di (stupida) fissazione sul monovitigno, e ovviamente la AOC in questione è una delle più incasinate per quel che riguarda l’assemblaggio: tradizionalmente erano ammessi tredici varietali, dal 2009 si è arrivati a ben diciotto.
Se a questo si aggiunge che la zona è altamente produttiva, che quando parliamo del CdP vinificato in rosso stiamo trattando di un vino che richiede lunghi se non lunghissimi invecchiamenti per esprimersi al meglio, e che i prezzi medi non sono propriamente abbordabili, si capisce come sia difficile per i non esperti come me farsi una idea significativa della Appellation.

Ad ogni modo, a volte è bello anche fare qualche tentativo non dico casuale, ma governato dall’istinto: è su queste basi che ho comperato dal solito Vinatis questa bottiglia del produttore Chateau Maucoil e la ho bevuta in fretta, senza dar retta alla ragione, che richiedeva di dimenticarla in cantina per un paio di lustri.
Si tratta del prodotto di base, vinificato con uve da vigne giovani e da terrendi differenti; l’assemblaggio vede la prevalenza di Grenache e poi Syrah, Mourvèdre e Cinsault.

Denominazione: AOC Chateneuf du Pape
Vino: Chateauneuf du Pape
Azienda: Chateau Maucoil
Anno: 2013
Prezzo: 27 euro

Bello alla vista: di un rubino non troppo denso, molto luminoso e ovviamente molto giovane; il mio occhio inesperto avrebbe giurato su una percentuale importante di syrah.
L’olfattivo è già adesso di gran complessità: lo spettro si estende dal vinoso del vino giovane, al rosmarino, alle spezie, fino all’ematico.

Lo ribadisco: di fatto è un vino ancora giovane, lo dimostra l’ingresso in bocca di grande freschezza, ma è anche vero che il sorso regala con intensità netti sentori di frutta rossa matura e un tannino delicatissimo.
Il corpo è medio e la lunghezza è di livello; l’alto grado alcolico (14,5) è ben poco avvertibile.

Bel vino, molto bevibile nonostante la potenza e, ovviamente, dotato di notevole potenziale di invecchiamento

Il bello: Godibilissimo già da subito, grandi possibilità di evoluzione

Il meno bello: nulla da segnalare

Articoli correlati:

Pinot Nero Riserva Hausmanhof 2010, Haderburg

Questa era una bottiglia comperata dal produttore e messa via in attesa di valutarne la maturazione, ma alla fine quanto vuoi aspettare non potendo godere né di una cantina adatta a lunghi invecchiamenti e neppure di una riserva di etichette infinite cui attingere? (Senza parlare poi della carenza della proverbiale pazienza di Giobbe…).

Quindi, via allo stappo, tanto le informazioni di rito sul produttore le ho già buttate giù in occasione della visita.

Denominazione: Alto Adige DOC
Vino: Pinot Nero Riserva Hasumanhof
Azienda: Haderburg
Anno: 2010
Prezzo: 25 euro

Colore scarico, come giusto per il vitigno, più vivace a centro bicchiere ma già lievemente aranciato sull’unghia.
Naso non troppo complesso ma con un bel fruttato di lampone in evidenza, senza esagerazione e con un minimo accenno balsamico.

In bocca si conferma molto lineare, l’acidità è buona ed è ben bilanciata da un leggero calore alcolico, decisamente non fastidioso. Torna il frutto, mentre il tannino è appena accennato e il vino chiude con una discreta lunghezza.

Vino piacevole e per il quale è difficile un giudizio esaustivo: da un lato la base è ottima e lascia pensare che l’evoluzione futura possa portare a vette superiori, dall’altra è vero che già sette anni sono passati e si intravede qualche invecchiamento al colore che lascia temere la necessità di consumare in tempi brevi.
Ne ho ancora una bottiglia: vedremo

Il bello: bevuta gradevolissima

Il meno bello: manca un po’ di complessità

Articoli correlati:

Barolo 1997, Paolo Scavino

“Grande annata” o perlomeno tale è classificata la 1997 sui vari almanacchi, quindi perché resistere se il prezzo a scaffale è abbordabile?

Scavino ha ovviamente sede nella Langa del Barolo, dove la famiglia controlla ben 29 ettari locati in vari cru sparsi sul territorio dei comuni di Barolo, La Morra, Novello, Serralunga, Verduno, Roddi e Castiglione Falletto.

Denominazione: Barolo DOCG
Vino: Barolo
Azienda: Paolo Scavino
Anno: 1997
Prezzo: 35 euro

La bottiglia in questione è il prodotto base, il classico e tradizionale “no cru”, oggi un po’ bistrattato, da quando ad andare di moda sono le microvinificazioni focalizzate alla analisi quasi isterica della parcella più minuscola…

Tappo integro, per fortuna, e subito si rivela un colore ancora perfetto, perfino troppo vivo e luminoso (merito di un po’ di barrique?), con appena un minimo accenno granata all’unghia.

Il naso è deciso, quasi prepotente, con uno sbuffo alcolico evidente (frutta matura sotto spirito); poi arrivano note di caffè che dopo poco virano sul cioccolato e chiudono con qualche refolo di balsamico. Interessante ma non memorabile

Sorso nettamente caldo: come prevedibile dall’olfattivo il grado alcolico si sente tutto; per fortuna c’è comunque ancora grande acidità ad accompagnare un tannino levigato ma ben presente.
Assaggio con un gran frutto surmaturo, di notevoli intensità e robustezza. Lunghezza solo discreta.

Alla fine la bevuta non è affatto sgradevole ma un resta poco espressiva, troppo monolitica, quasi tetragona: fa della robustezza la sua arma più potente ma oltre a quella c’è poco altro.

Vino curioso: nonostante i 20 anni di invecchiamento non mostra ancora quei caratteri di terziarizzazione che ci si sarebbe aspettati: per certi versi la bottiglia sembra marmorizzata ad uno stato di giovinezza eccessiva per poter essere goduta a pieno.
Certo, dopo tutto questo tempo credo sia difficile sperare in evoluzioni ulteriori.

Il bello: robusto, intenso

Il meno bello: poco espressivo,  manca la maturità

 

Articoli correlati:

Pouilly Fume 2015, Guy Saget

Gli eno-appassionati lo sanno, con il sauvignon il “dibbattito” è garantito: Sancerre o Pouilly Fumè? Comunque solo in Francia, e in Italia al massimo in Alto Adige o Friuli, non parliamo poi di Australia o Nuova Zelanda…
Al netto del fatto che qualche mese fa ho partecipato ad un bel seminario AIS proprio sui vini di questa tipologia provenienti dalla terra dei Kiwi e non è stato proprio possibile uscirne mantenendo la classica convinzione che da quelle parti escano solo bombe di frutta, una volta assaggiati alcuni dei campioncini di finezza proposti.

Detto questo, c’è poco da fare: con gran parte dei Sauvignon non riesco ad entrare in intima confidenza, e questa bottiglia è una di quelle per le quali resto perplesso, eppure si tratti di una interpretazione tutt’altro che disprezzabile.

Parlo del Pouilly della azienda Guy Saget, che vinifica un po’ tutte le tipologie presenti nella valle della Loira (dal Muscadet al Vouvray, passando per Cremant, Mentou, Chinon eccetera).
Ovviamente Sauvignon al 100%, con una vinificazione molto standardizzata: acciaio, temperatura controllata e lieviti selezionati, immagino a tutela della aromaticità e freschezza intrinseche del vitigno.

Pur nella piacevolezza innegabile, l’intensità aromatica troppo spesso pare sovrasti le altre qualità del vino, paradossalmente rendendolo monocorde nonostante il caleidoscopio degli aromi.
Curiosamente, lo stesso mi accade molto più raramente con il riesling, chissà perché.

Ciò detto, occorre ammettere che questa bottiglia ha molte frecce al suo arco; anzitutto la fastidiosa nota di vegetale verde che spesso infesta il souvignon è tutto sommato contenuta, e non perviene il sinistro descrittore “pipì di gatto.

Denominazione: Pouilly Fumè
Vino: Pouilly Fumè
Azienda: Guy Saget
Anno: 2015
Prezzo: 18 euro

La colorazione, come scontato, vira su toni paglierino-verdolino, mentre gli aromi si esprimono piuttosto intensi nello spettro erbaceo-floreale, ma tutto sommato sono garbati; l’ingresso in bocca viaggia su ottima acidità, e associa al floreale qualche scampolo di frutto della passione.
Corpo mica tanto esile e alcol abbastanza ben mascherato (ma avvertibile appena la temperatura sale), lunghezza nella media.
Difficile dire se abbia qualche prospettiva di evoluzione: temo che al calare della freschezza possa crollare l’intera impalcatura..

Non un campione di complessità e di finezza, ma di sicuro gradevole per un aperitivo diverso o in accompagnamento a crostacei o a cibi leggermente speziati.

Il bello: gradevolezza anche per i “non esperti”

Il meno bello: manca complessità

Articoli correlati:

Millesime 2006, Laherte

Su questo vino ci sono voluto tornare sopra dopo averne bevuto una bottiglia entusiasmante durante una cena al Caffè La Crepa; al secondo passaggio (stavolta domestico) il vino si conferma ottimo, magari un filo meno strepitoso: sarà o bottiglia, il venir meno dell’effetto sorpresa o magari l’ambientazione diversa?

Non mi dilungo su Laherte: vigneron della Cote des Blancs tra i più affidabili, con bottiglie mai banali e in particolare con un ottimo rapporto qualità-prezzo

Denominazione: Champagne
Vino: Millesime 2006
Azienda: Laherte Freres
Anno: 2006
Prezzo: 45 euro

Ad ogni modo, i fatti; dorato, con apertura paradigmatica per uno champagne millesimato con vari anni sul groppone: lo stappo è uno sbuffo sottovoce, e la bolla è altrettanto lieve, addomesticata, finissima e fittissima che più delicata non si potrebbe.
E il naso! Che spettacolo di evoluzione: una leggera ossidazione con ricordi di cognac accompagnano lo iodato alla mandorla tostata e alla crema.

Prima dell’assaggio, un po’ di timore che l’affinamento possa essere stato eccessivo ma non è il caso: l’acidità non solo c’è, ma è anche potente e gestisce alla grande un intenso sapore di frutta secca frammisto al classico agrume.

Per me una gran bottiglia, certo, occorre mettersi d’accordo, devono piacere le bolle datate, con tutte le loro caratteristiche.
L’unico limite? manca un po’ di persistenza, ma a queste cifre sarebbe troppa grazia.

Il bello: Gran vino gastronomico, indicatissimo per coquillage in particolare

Il meno bello: Manca un pochino di persistenza

Articoli correlati:

Tavel 2015, Chateau de Segries

Avanti con le bottiglie dell’ordine “francese“: siamo ancora nella zona del Rodano, dalle parti di Avignone, e la denominazione è quella del rosato per eccellenza, Tavel.
Il produttore, Chateau de Segries è una conduzione familiare da quasi cento anni di circa 58 ettari, tutti nella regione.

Denominazione: AOC Tavel
Vino: Tavel
Azienda: Chateau de Segries
Anno: 2015
Prezzo: 17 euro

Qualche dato sul vino: si tratta di un uvaggio di grenache (50%), cinsault (30%), syrah (10%) e clarette (10%) che prende il colore grazie alla permanenza sulle bucce per una notte. La fermentazione avviene poi a temperatura controllata.

Alla vista è di un bel color rosa acceso, luminoso, lampone, e difatti i frutti di bosco coerentemente tornano alla mente subito alla prima olfazione, in particolare la fragolina, accompagnata da un lieve accenno di caramella charms.
L’assaggio è invece più robusto,  una volta saputo che il vitigno principe è la grenache non si stenta a crederlo: non è il tipico rosato anemico e anonimo, e pur non riscontrando pesantezza qui ci sono calore e corpo, bene accompagnati da una freschezza importante che agevola il sorso.

Vino piuttosto semplice ma godibilissimo, il piccolo e curioso paradosso di una bottiglia robusta (per un rosato) e assieme gradevolmente ruffiana.
Sicuramente da accompagnamento da cibo, più che per aperitivo: direi carni bianche e salumi, ma anche qualche cibo etnico, con speziature decise.

Il bello: fresco, bevibile nonostante il corpo

Il meno bello: nulla da segnalare

Articoli correlati:

Cotes du Rhone Rouge 2012, Guigal

Lo scorso anno ho fatto una veloce puntata nella zona del Rodano, Sud e Nord: prima o poi ne parlerò qui sul sito, per ora basti dire che non ho grandi scoperte da rivelare: certo conoscevo “la teoria” (uve, AOC ecc.), ma sono andato quasi totalmente digiuno dal punto di vista della conoscenza dei produttori e delle degustazioni.

La conclusione (banale, lo riconosco) è che la zona è immensa, con un numero di produttori e di stili infinito e che in particolare dalla zona meridionale a quella settentrionale passa un continente di differenze.
Fatto sta che è facile passare da vini di grande qualità (e prezzo altrettanto importante) ad altri piuttosto standardizzati.

A parte quanto sopra, devo dire che il Syrah e il Viogner (vitigni di riferimento al Nord) possono essere uve estremamente ruffiane, capaci di dare vita a bottiglie interessanti anche a prezzi civili.
In questo contesto sguazza un grande produttore (e negociant) come Guigal, che offre una gamma importante di vini a coprire un gran numero di denominazioni dal Nord a Sud lungo il grande fiume, dai prestigiosi Cote Rotie ed Hermitage ai più modesti Cotes du Rhone.

Visto che comunque il marchio è di quelli riconosciuti come “sicuri”, perché non provare un prodotto dal prezzo adatto a tutte le tasche, un Cotes du Rhone appunto?
Detto fatto, nell’ordine a Vinatis ho incluso questa bottiglia: un blend classico di 50 % Syrah, 45 % Grenache e 5% Mourvèdre.
Il vino fermenta a temperatura controllata, una parte affinata in legno.

Denominazione: AOC Cotes du Rhone
Vino: Cotes du Rhone Rouge
Azienda: Guigal
Anno: 2012
Prezzo: 10 euro

Il colore è profondo, spesso, materico, impenetrabile con unghia di rubino brillante, mentre all’olfatto arriva lafrutta rossa, scura e matura accompagnata ad una lieve speziatura.
In bocca è caldo, ampio, di corpo, con una giusta freschezza e un tannino dolce appena accennato.

In sostanza, la bottiglia si rivela per quel che pensavo: una interessante introduzione al Rodano ad un prezzo corretto, non un campione di finezza o una eccellenza, ma un buon vino di media robustezza, gastronomico, che si beve bene con le carni e che comunque chiede di essere consumato pasteggiando

Il bello: ottimo prezzo, buon vino gastronomico

Il meno bello: nulla da segnalare

Articoli correlati: