Oltre il “Drink-porn”?

Finalmente! Posso dirlo: non sono solo.

Non sono solo nel sostenere che le grandi eno-manifestazioni, con la moltitudine dei banchetti d’assaggio e la relativa cornucopia di vini, pur certo divertenti per noi appassionati, sono però una aberrazione rispetto al vero scopo finale del vino, che sarebbe poi la bevuta a tavola, in accompagnamento al cibo.
Non a caso ho coniato la definizione di drink-porn

Ne risulta di conseguenza il mio parere assai scettico sulle degustazioni in batteria, dove esimi critici (e semplici peones, come il sottoscritto) si esprimono su decine e decine di prodotti, dedicando a ciascuno pochi secondi e uno sputacchio.

Tutte cose di cui sono sempre più convinto e di cui ho già parlato, ad esempio quando ho incontrato Flavio Roddolo e le due volte in cui ho discusso di entropia durante le degustazioni seriali, e che ora Vittorio Rusinà declina in maniera più compiuta con un post sul blog collettivo “Gli amici del bar”.

Oltretutto la discussione capita nel momento in cui Filippo Ronco parla di una certa stanchezza della formula del banco di assaggio, e può essere un ottimo spunto di discussione per chi si occupa di organizzare degustazioni in maniera professionale.

p.s. un grazie a Vittorio, oltre che per l’articolo, anche e soprattutto per aver avuto l’idea di accaparrarsi e far girare cibo durante la DDB: io c’ero e ho molto gradito

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Balter Brut Riserva 2006

Secondo assaggio per Balter, dopo la prova del Brut “base”.

Alla commercializzazione delle circa 35.000 bottiglie l’anno di Brut, dal 1995 è stata aggiunta una limitata quantità di Riserva (circa 3000 bottiglie); si tratta di una produzione con ambizioni rilevanti, visto per creare questa miscela di 80% chardonnay e 20% Pinot nero, l’uva viene vendemmiata manualmente, fatta fermentare parte in acciaio e parte in rovere piccolo, e poi lasciata maturare sui lieviti per ben 72 mesi.

Balter RiservaDenominazione: Trento DOC
Vino: Brut Riserva
Azienda: Balter
Anno: 2006
Prezzo: 25 euro

Colore giallo paglierino, quasi oro, con bolle fini ma (piccolo campanello d’allarme) non troppo numerose e persistenti.
Olfattivo estremamente tenue di pasticceria, con accenno tropicale e, curiosamente, una punta di tostato-affumicato: scoprirò poi che parte dell’affinamento si svolge in legno piccolo.

In bocca entra bello pieno, con bolle molto fini e per nulla aggressive, forse persino troppo delicate. La freschezza è discreta, cosi come la sapidità e la lunghezza; in realtà spicca un grande equilibrio, che peraltro avevo riscontrato anche nell’assaggio del Brut.

Qualche dubbio sulla presenza un po’ eccessiva del legno, sul finale lievemente amaro e, all’inizio della bevuta, anche sul dosaggio: in genere prediligo prodotti molto “dritti” e avvertivo di un eccesso di ruffianeria.
Con il passare dei sorsi mi sono ricreduto, non è certo un vino tagliente ma tutto sommato mi pare che anche in questo caso si sia ricercato, e trovato, l’equilibrio. Forse un filo di dolcezza viene dal legno?
A suo grande grande pregio, a fine assaggio la bocca resta ottimamente pulita, senza dolcezze appiccicose o acidità strizza gengive.

Tirando le fila, un vino magari non entusiasmante ma di buona armonia, dal quale però francamente mi aspettavo una complessità maggiore, in ragione dei 72 mesi sui lieviti: ne comprendo l’ottima base, temo leggermente penalizzata da un uso non ottimale del legno (o forse occorre ancora attenderlo in bottiglia, in modo da ottimizzare l’affinamento?).

Piccola nota di demerito: non c’è data di sboccatura, e non trovo indicazioni sul dosaggio.

Il bello: L’equilibrio e la “base” importante dei 72 mesi sui lieviti
Il meno bello: poca complessità

p.s. dopo un ora dall’apertura è uscito un lieve floreale e il vino ha acquistato maggiori eleganza e complessità.

p.p.s. Franco Ziliani ha un altro riscontro (ma è un diverso millesimo), sicuramente più affidabile del mio, in cui non ci sono accenni a tostature ma semmai ad ossidazione.

Queste due ultime note mi fanno venir voglia di provare una seconda bottiglia, in modo da verificare le sensazioni. Vedrò di procedere…

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Dalle stelle alle stalle: Summer Beer Festival

Dalle stelle alle stalle: passare in pochi giorni e in pochi chilometri dalla teutonica perfezione organizzativa di Terroir Vino a Genova all’indefinibile Summer Beer Festival di Chiavari regala la straniante sensazione della realizzabilità dei viaggi spazio-temporali.

In poche parole, è un periodo in cui ho poco tempo, quindi decido di farci un salto sabato pomeriggio: alle 16 e 20 circa sono all’ingresso. Ci siamo io, la tensostruttura e la polvere, mentre elementi magari poco coreografici ma abbastanza essenziali come il tizio alla cassa e quelli che dovrebbero spillare risultano non pervenuti.
Temendo di aver capito male gli orari, mi guardo attorno: tutti i volantini e i cartelli sostengono (come le info su internet) che l’apertura avrebbe dovuto essere alle 16.

Faccio un giro e mi ripresento verso le 16 e 45.
E’ ancora tutto deserto, ma ci sono due ragazzi della Compagnia della Birra che iniziano a mettere a posto i banchi di servizio e un tizio che, mosso a compassione, prova ad aprire la cassa per me, senza successo.
Mi dicono che siccome il giorno precedente la gente è arrivata in massa verso le 20, hanno deciso di aprire dopo…

Sono senza parole, di solito mi incazzo per i canonici 15-30 minuti accademici di ritardo nelle serate e nelle cene di degustazione, ma addirittura veder posticipata l’apertura di una manifestazione di qualche ora è davvero una prima assoluta.

Voglio fare i complimenti ai responsabili della solerte organizzazione, che mi pare comprendesse anche i soliti bicchieri di plastica e il prezzo di 4 (quattro) euro per ogni birra.
I responsabili da elogiare risulterebbero essere tali “Storico, Modà Cafè, Vinoria e Crystal, in collaborazione con Arte Group e la Compagnia della Birra”.
A ciascuno il suo: da quel poco che mi è dato sapere la Compagnia c’entra poco, essendo stata contattata solo per fornire un paio di persone per i laboratori e per le spiegazioni.

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Terroir Vino 2013: basta che non sia l’ultimo

C’è poco da dire, Terroir Vino è il mio appuntamento preferito per quanto riguarda il drink-porn smodato (click qui per spiegazioni sulla definizione); confesso di essere mosso da un certo affetto: dopotutto è stata la prima manifestazione enoica cui ho partecipato, la prima in cui sono stato cazziato da un produttore, la prima in cui ho imparato ad usare le sputacchiere…

Al netto delle questioni sentimentali, occorre aggiungere che TV è organizzato bene, benissimo, addirittura per me è l’esempio di come si dovrebbe svolgere un incontro di questo tipo: tanti produttori ospitati in una struttura bella, agibile, spaziosa e fresca, con aree relax dotate di divani, facile da raggiungere in auto (si riesce persino a parcheggiare, pagando salato, ovvio) o con i mezzi, con torte di verdura e panini che girano incessantemente da metà mattina fino a conclusione e con qualche interessante appuntamento collaterale (le Degustazioni Dal Basso) che aiuta a spezzare la serialità degli assaggi.

Su questi fronti, niente di nuovo (per fortuna), se non una leggera brezza di crisi: all’ingresso invece di libricino e penna veniva consegnata solo una mappa, sicuramente erano presenti meno espositori (anche se non saperei quantificare quanti meno), e temo di aver notato anche meno visitatori al pomeriggio, ma potrei sbagliare.
Soprattutto, su vari canali internet mi pare di aver colto momenti di stanchezza (meglio, direi di scazzo) del patron Filippo Ronco, che minaccia di trasformarsi il prossimo anno nel Moloch che sacrifica la sua stessa creatura.

Ecco, al netto dei soliti appunti temo poco interessanti su quanto ho bevuto (mi sono goduto specialmente lo Zero di Pojer & Sandri, che finalmente mi sembra un ottimo vino fatto e finito, lo splendido Pas Dosé di Haderburg, indistintamente tutti gli spumanti di Letrari e quelli per me inediti di Opera, i sempre notevoli Barbaresco dei Produttori e gli idrocarburici Timorasso di Mariotto) e tralasciando i complimenti per la Degustazione Dal Basso cui ho partecipato (“Eroi della Barbera, i luoghi e le persone”, molto interessante, forse solo un filo poco coinvolgente, con tre relatori bravi ed appassionati, ma ad occhio non abituati a parlare e stuzzicare il pubblico), dicevo, a parte tutto quanto sopra, mi preme spendere qualche riga per stimolare Ronco a non sbaraccare un evento che, oltre a non avere pari in Liguria, a mio avviso ha pochi concorrenti tout court).

Ovvio che Ronco farà quello che è più giusto per lui, io non ho idea se i problemi stiano in un entusiasmo diminuito, o siano di natura finanziaria, o forse ricadano nella necessità di focalizzarsi su altri progetti o magari in un po’ tutte queste cose assieme, e dopotutto chi sono io per dare l’egoistico consiglio di non smettere, ma mi permetto di suggerire di cercare collaborazione da parte sia di professionisti che di amatori, magari modificando leggermente la formula per rendere più appetibile l’appoggio di qualcuno dei soggetti interessati. Anche una dimensione minore dell’evento sarebbe accettabilissima, così come capirei un legame più marcato a VGM, sempre mantenendo gli standard qualitativi cui siamo stati abituati.

Insomma, Filippo nun ce lascià!

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Le mille luci in cantina

In fondo non era così imprevedibile pensare che l’autodistruttivo yuppie protagonista de “Le mille luci di New York”, cocainomane frequentatore di locali alla moda negli anni ’80, con la maturità si sarebbe convertito ai più borghesi piaceri delle bottiglie di gran nome, fascino e relativo prezzo.

Stiamo parlando ovviamente del personaggio senza nome creato nel 1984 da Jay McInerney per il suo folgorante esordio “Bright Lights, Big City” (“Le mille luci di New York”, nella poco felice traduzione italiana), simbolo del post-minimalismo americano assieme agli altrettanto notevoli esordi di Bret Easton Ellis e Tama Janowitz.
Romanzo agilissimo, in cui si sviscerava l’ambiguità della vita sfavillante e disperata dei giovani arrembanti e carrieristi nei rutilanti anni ’80, tratteggiava con metodo il fastidio misto a sottile piacere della vita metropolitana dissoluta, repressa nei sentimenti e annegata nella solitudine pubblica.

Autore: Jay McInerney
Titolo: I piaceri della cantina
Editore: Bompiani
Prezzo: 18,50 Euro

I Piaceri della cantinaE proprio di McInerney lo scorso anno è andata in stampa la traduzione italiana de “I piaceri della cantina”, una raccolta di brevi articoli sul vino, scritti in origine per il New York Times.
Il formato antologico se da un lato è il limite del volumetto (non c’è una vera e propria trattazione organica, un pensiero forte, una tesi da svolgere), dall’altro è anche motivo di agilità, rendendo possibile ad esempio la lettura disordinata dei capitoli

Si intuisce che McInerney è un appassionato autodidatta che, grazie alla sua agiatezza, ha giovato di ottimi assaggi e altrettanti viaggi e, leviamoci il dente dicendolo subito, che è bravo davvero!
Infatti sforna pagine acute, precise ma alleggerite da accenni ironici e da qualche aneddoto e citazione, senza annoiare coi tecnicismi o con estenuanti analisi organolettiche, ma allo stesso tempo evitando di scadere nel banale: un sonoro schiaffo in pieno volto alla stragrande maggioranza degli eno-scrittori professionisti, di solito pedantemente in bilico tra il didascalico sport dell’intarsio del capello e il lisergico affastellare dei descrittori.
Insomma, si vede chiaramente che McInerney gioca un altro campionato, e scorrere quelle pagine dopo il quotidiano spulciare dei blog enoici dà la sensazione di assistere a Germania-Brasile subito  dopo essersi sorbiti novanta minuti di controlli sbagliati, rimpalli e calcioni in un derby di Terza Categoria regionale…

Altro punto a favore per noi lettori italiani, una visione internazionale del fenomeno vino: si parla certo di Francia e Italia (e comunque di Europa), ma ci sono tanta Australia, Nuova Zelanda, soprattutto tantissimi (troppi?) Stati Uniti, e comunque non non si cerca la verità apodittica sullo scibile vino (per l’Italia, per dire, si parla tra gli altri di Soave e Friulano ma non di Barolo e Barbaresco) e, essendo stato scritto prima del 2006, manca la contemporanea ossessione su biologico e biodinamico (certo, se ne accenna, ma vivaddio con distacco).

Qualche esempio dei temi che ho trovato più godibili: si battono strade tutto sommato laterali con un bel capitolo su Bandol, si insiste spesso sul Riesling, si rivelano personalità di produttori statunitensi inedite e incomprensibili per noi europei, ci sono il profilo Alsaziano di Olivier Humbrecht e quello.mitico di Michel Chapoutier, si spande amore per un grosso calibro delle bolle come Salon così come per molti Champagne artigianali. C’è persino una piccola incursione nel passato dell’autore, non propriamente alieno alle droghe ricreative, quando si racconta delle virtù assenzio…
Una pagina curiosa è quella in cui si accenna al concetto statunitense di vino come performance: produzioni “one-shot” reperibili esclusivamente una tantum (filosofia recentemente mutuata dal mondo della birra: avessimo letto prima il libro avremmo potuto essere facili profeti).

Insomma, un volume dalla prospettiva esageratamente personale, godibilissimo per i neofiti e in una certa misura informativo anche per chi pensa di saperne di più, che riscatta con una prosa stellare alcuni passaggi discutibili.  Oltretutto, contrariamente a quanto ho letto da qualche parte, credo anche utile a sfatare tanti luoghi comuni sugli americani: in più parti si trovano ad esempio parole non accondiscendenti sulle superconcentrazioni e sulla robustezza dei vini, e si celebra l’ossessione terroiristica della Borgogna…

Il bello: la scrittura! La propettiva differente da quella cui siamo abituati
Il meno bello: troppe pagine dedicate a prodotti extra-europei (in particolare i garagisti USA) che non conosciamo e non potremo mai reperire

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Riesling Wehlener Sonnenuhr Spatlese 2010, Dr. F. Weins-Prüm

Era da troppo tempo che non scrivevo di Riesling, quindi…

Rieccoci nuovamente in Mosella ad assaggiare un vino prodotto con uva proveniente da uno dei vigneti simbolo di questa zona, Wehlener Sonnenuhr, come ci era capitato in passato.
Stavolta l’azienda è Dr F Weins-Prüm, dal nome di uno dei tanti produttori discendenti di Sebastian Alois Prüm, il più famoso dei quali è sicuramente J.J. Prüm.

Lo anticipo subito: questo è uno di quei classici casi di infanticidio, un vino di questa foggia meriterebbe almeno altri 5-7 anni di affinamento prima di essere messo in tavola, ma qualche volta capita che non hai voglia di aspettare, o semplicemente ti capita la bottiglia e sei curioso…

Dr. F. Weins-Prüm Wehlener Sonnenuhr Riesling spatleseDenominazione: Riesling Spatlese
Vino: Wehlener Sonnenuhr
Azienda: Dr. F. Weins-Prüm
Anno: 2010
Prezzo: 21 euro

Colore giallo paglierino brillante, molto carico, si intuisce la corposità già solo osservandolo.
L’olfattivo è intenso, elegante, quasi penetrante, ricco di agrumi, fiori bianchi, spezie; comunque tutti profumi molto freschi.

In bocca è molto grosso, quasi denso, e resta in equilibrio precario tra la grande dolcezza e una acidità notevole. Oltre a quanto prometteva al naso, l’assaggio regala una sorta di marmellata di albicocca, un velo di mineralità pietrosa e un accenno di carbonica residua.

Sicuramente intenso e discretamente lungo, già così è un bel bere, personale e divertente, ma di certo, avendo più pazienza del sottoscritto, maturerà mascherando meglio la spiccata dolcezza con accenti minerali ben più evidenti di quelli odierni.

Il bello: l’olfattivo ricco, complesso, intenso
Il meno bello: l’eccessiva gioventù che non permette un equilibrio ottimale

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Rosé Cuvée del Frati 2009, Ca’ dei Frati

Mea culpa: sono sempre troppo scettico per quanto riguarda i vini metodo classico prodotti al di fuori delle zone tradizionalmente vocate (Champagne, ça va sans dire, Franciacorta, Trento… già l’Oltrepo Pavese mi sembra una roba esotica… ). Si tratta di sensazioni indotte dalla tradizione di certi territori, ma, temo, anche dalla mera quantità di bottiglie prodotte e dal sapiente marketing.
Nel caso di questo Rosé Cuvée del Frati della azienda Ca’ dei Frati di Sirmione il mio scetticismo si moltiplica, trattandosi di bolle rosa (una tipologia che assaggio raramente, a causa di qualche delusione), per giunta prodotte da vitigni non tradizionalmente alfieri della spumantizzazione (Groppello, Marzemino, Sangiovese e Barbera): sono troppo sincero se dico che temevo l’effetto “facciamo già altri vini, buttiamo dentro delle bolle e vediamo che succede”?

cuvee_dei_fratiDenominazioneVSQPRD
Vino: Rosé Cuvée del Frati
Azienda: Ca’ dei Frati
Anno: 2009
Prezzo: 15 euro

Al solito, velocemente i dati tecnici: uve provenienti da Desenzano del Garda, vinificazione in acciaio, malolattica non svolta, 24 mesi sui lieviti.

Intanto il colore è interessante: un bel buccia di cipolla scarico ma luminoso, e la bolla è fine anche se magari non particolarmente copiosa e non molto continua.

Il naso è lieve (c’è un tostato appena avvertibile, contornato da bitter, fragola e rosa), mentre la bocca è piena senza comunque essere potente; più sapido che acido, sicuramente ben fresco e molto equilibrato, con un accenno di tannino; il dosaggio mi sembra ben bilanciato, per nulla fastidioso. Lunghezza discreta, qualche pecca nella complessità.

Quanto sopra per un vino molto facile, non nervoso e verticale ma rotondo (per quanto possa esserlo un metodo classico non stucchevole), dalla bolla non aggressiva, delicato ma gustoso, e con nessuna amarezza finale.
Lo vedo semplice anche nell’abbinamento: direi antipasti di salumi, piatti a base di pesce, preparazioni di carne non troppo strutturate.

Sboccatura indicata in retro etichetta (ma solo l’anno, non il mese: uffa) e buon rapporto qualità prezzo.

Il bello: piacevole, versatilità nell’abbinamento
Il meno bello: semplice, poco sorprendente sia al naso che in bocca

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Tenuta Grillo: Baccabianca 2006

Secondo assaggio per le bottiglie comperate durante la mia visita presso Tenuta Grillo.
Rimando al post precedente per le considerazioni generali e passo subito a raccontare il vino: stavolta si tratta del Baccabianca, un “orange wine” prodotto da Cortese in purezza, lieviti indigeni, senza filtrazione (e si vede) e con lunga macerazione (oltre un mese, mi pare di ricordare, e si vede e si sente).

BaccabiancaDenominazione: Vino da Tavola
Vino: Baccabianca
Azienda: Tenuta Grillo
Anno: 2006
Prezzo: 16 euro

“Orange”, dicevamo: ed in effetti è ambrato, leggermente velato, opalescente.
Portandolo al naso si avvertono una leggerissima volatile (ma è solo un cenno di freschezza), il caramello e una punta di ossidazione (ossidazione “nobile”, se mi è concesso, nel senso che non è fastidiosa, ma aggiunge complessità), accompagnati da floreale ed erbaceo così delicati da risultare inattesi in un vino dall’aspetto non certo gentile.

In bocca è estremamente intenso, ci sono calore, buona freschezza e sapidità, e si avverte una tannicità abbastanza rilevante per un vino bianco, per quanto macerato.
Buon corpo e finale lungo, ma un filo monocorde, come del resto un po’ tutta la bevuta di un vino sicuramente interessante, rustico ma piacevole da bere, cui manca forse uno spunto di dinamismo, di mutevolezza.

Data la struttura non banale e la stoffa non fine, consiglio un abbinamento con cibi non troppo delicati: nel mio caso ha funzionato bene con un vitello tonnato dalla salsa fin troppo “strong”. Raccomando di non servirlo freddo, in modo da non indurire il tannino.

Il bello: intensità di sapore, per nulla banale
Il meno bello: sorso un po’ monocorde

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