Terroir Vino 2012

Pur patendo ancora i postumi di Pasturana ho inforcato gli occhiali da sole per occultare almeno parte dei disastri alcolici del sabato e, dirigendomi ai Magazzini del Cotone di Genova per Terroir Vino (TV, d’ora in poi), ho detto quello che si dicono quelle signore perennemente a dieta: “vabbè dai, ormai che ho spazzolato tutto il cabaret delle paste è inutile rifiutare anche la meringata. Da domani basta”.

Era la mia terza presenza a TV, finalmente con in tasca il certificato da pinguino. Ricordo che la prima volta entrai con tante belle idee sul mondo del vino, in particolare su come finalmente potevo mascherare da seduta didattica la preoccupante attitudine a dedicare una giornata all’etilismo. Ricordo anche che TV, a noi neofiti, desse l’impressione di una manifestazione più accessibile delle altre, meno rivolta agli addetti ai lavori o agli appassionati so-tutto-io. La prima volta non si scorda mai: l’esordio fu infatti molto istruttivo. Mi approcciai al tavolo di un produttore di grido della Franciacorta, chiesi di assaggiare un vino, e poi un secondo; a questo punto venni gelidamente cazziato dall’espositore per aver sbagliato l’ordine di servizio della degustazione. Ecco, quel momento di pubblico imbarazzo mi aprì definitivamente le porte della percezione su molti dei riti e delle gerarchie consolidate dell’enomondo.

La cronaca. Il posto (mi rifiuto di scrivere “location”) è meraviglioso, e la bella giornata di sole esalta ancora di più la clamorosa vista sul porto; c’è spazio a sufficienza, il condizionamento funziona e in un salone attiguo ci sono i divanetti  per poter fare “decompressione” di tanto in tanto. L’organizzazione è teutonica: all’ingresso, oltre a bicchiere e portabicchiere di ordinanza, ti danno un libricino con la mappa degli espositori e i relativi vini, passano di continuo camerieri con vassoi di torte di verdure e panini per asciugare lo stomaco e le sputacchiere non sono mai traboccanti. Su tutto aleggia la presenza del moghul Filippo Ronco, che, incravattato e agghindato in completo blu da bancario (dress code curioso per un alfiere dell’informalità e del duepuntozero), si aggira ubiquo a sovrintendere.

Pubblico misto: accanto a carneadi come me con zaino e blocchetto in mano, molti volti noti. Avvistata anche coppia marito-moglie, ciascuno prendere appunti sul proprio iPad: o tempora o mores! Per fortuna pochi gli esemplari di eno-fenomeni, ma qualche genio che cercava lui stesso di spiegare al produttore il suo (del produttore) vino l’ho trovato: temo sia impossibile selezionarli e abbatterli all’ingresso. Notevole la totale assenza di membri di spicco di AIS.

Ho avuto l’impressione ci fosse meno gente rispetto alle precedenti visite e mi pare ci fosse anche una presenza più sobria degli espositori (per capirci, meno ragazze-immagine ai tavoli). Sicuramente ho notato meno sbandamenti alcolici e meno bicchieri rotti a fine pomeriggio. Vi risparmio la litania dei meglio e dei peggio assaggi, appunto alla rinfusa solo qualche nome: la perfetta eleganza e finezza del Bricco delle Viole dei Vajra, la fresca sapidità del Colfondo di Bele Casel, la composta aromaticità del moscato giallo di Lageder, il gioioso fruttato dello Zero di Pojer&Sandri, la concentrata potenza dei Taurasi del Cancelliere, la bella storia del Ciso, sorprendentemente balsamico.

Punto interrogativo della giornata, la Degustazione dal Basso (d’ora in poi DdB) cui ho partecipato: devo ancora decidere se sia trattato di una minchiata (scusate l’eufemismo) o di un evento quasi riuscito. Vado a spiegare: le DdB sono, per come le definisce l’ideatore, “vini e territori raccontati in modo conviviale e comprensibile, da persone comuni ma competenti e soprattutto “vicine”, per nascita o scelte di vita, al luogo che scelgono di raccontare”. Bello. Ho pagato i 20 sacchi necessari (che davano diritto anche all’ingresso a TV) e ho prenotato questa: “I principali Terroir Champenois raccontati da Mike Tommasi attraverso una degustazione orizzontale di bollicine francesi di grande interesse: Vallée de la Marne, Côte des Blancs, Montagne de Reims, Côte des Bar”. Sono stati serviti cinque champagne: P.Agrapart-Minéral 2005, B.Lahaye-Rosé de Macération, O.Horiot-Sève Rosé de Saignée en Barmont 2007, B.Tarlant-Cuvée Louis, F.Boulard-Petraea XCVII-MMVII, F.Pouillon-2XOZ. Molto buono il primo, fine e minerale, così così i due rosè (il primo dei due parte male, poi, lasciandolo nel bicchiere, si riprende e guadagna un lieve tocco di arancia. Il secondo, che avrebbe un piacevole accenno di bitter, resta incagliato in qualcosa di non compiuto al naso). Terzo e quarto vino mi sono sembrati immensi. Entrambi lunghissimi e cremosi, il Tarlant, oltre a un lieve affumicato, finalmente mi permette di capire il significato delle lisergiche “note di pasticceria”, mentre il Boulard (vinificato in solera) offre grande complessità senza sacrificare la piacevolezza. Meravigliosi. Difficile da giudicare il Pouillon: ha un bel naso di chinotto ma con 32 g/l di dosaggio ricade in una tipologia forse difficile da capire a noi comuni mortali. Purtroppo durante non si è parlato delle varie zone di produzione, da quanto ho capito i vini non erano tipici rappresentanti dei rispettivi terroir, la degustazione non è stata minimamente guidata e la carta geografica fornita ai partecipanti era francamente risibile.

Aggiungerei, ma è una nota di colore, che le ragazze al servizio si sono esibite in una serie di aperture delle bottiglie col bottoche neppure a Piedigrotta la notte di Capodanno. Dopo la terza o quarta esplosione con fontana a corollario, il Ronco con decisione ha preso in mano la situazione ponendo fine all’imbarazzante episodio. C’era un relatore ma la degustazione si è retta sulle osservazioni dei partecipanti stessi. Il fatto che tutto sommato la cosa abbia in qualche modo funzionato credo sia incidentalmente dovuto alla presenza tra gli astanti di tecnici e addetti ai lavori come Mario Pojer, Luca  Ferraro, Dan Lerner (e altri che non ho riconosciuto, ma che sicuramente erano dei tecnici del settore). Francamente, per chi non fosse già esperto, la divulgazione è risultata quantomeno estemporanea e frammentaria. Non ho idea se questa sia la formula di tutte le DdB, credo e spero di no. Nel caso, forse, sarebbe meglio selezionare il pubblico, richiedendo diploma in enologia o titolo di studio equivalente.

Per chiudere, la camminata per recarsi al treno che mi riporterà a casa si snoda in parte in una zona molto popolare (eufemismo); direi che forse è una delle poche volte in cui presentarsi in pubblico con passo malfermo e bicchiere al collo non faccia sentire troppo fuoriluogo. Bello, ma da domani basta.

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Pasturana 2012

Sulla via per Terroir Vino ho tenuto il fegato in allenamento portandolo al più classico dei raduni birrari italiani, la tre giorni di Pasturana, una tranquilla e ordinata cittadina di mille abitanti (siamo nell’alessandrino, zona di Gavi), nella quale, grazie uno di quei fenomenali paradossi spazio-temporali che talvolta animano la profonda provincia italiana, da dieci anni si organizza uno dei più rinomati e divertenti festival dedicati alla birra di qualità italiana.

Piccola digressione, ci tengo a far notare che ho scritto di qualità per evitare l’uso del termine artigianale: birrariamente abusato e poco ricco di significato. Un tempo, agli albori della scena dei microbirrifici italiani, si parlava di birra non filtrata e non pastorizzata, ma ultimamente, caduto il dogma della non filtrazione, si punta di più su altri aspetti: non è la stessa identica bevanda delle multinazionali, è prodotta con cura, passione e ingredienti di qualità, è prodotta in quantitativi limitati e via emozionando ma non specificando.
In definitiva, visto che è difficile spendere il termine “artigianale” sulla base dei volumi prodotti (ci sono esempi di birrifici statunitensi che sfornano gazillioni di ottima craft beer, degli ingredienti usati (proprio noi italiani siamo maestri nel impreziosire il mashing con pepe rosa, zenzero, zafferano e mille altri stranofacendoli) e dei processi di produzione, preferisco basarmi solo sul risultato organolettico del prodotto finito: “birra di qualità”.

Tornando a noi: Pasturana è uno strano ibrido mutante, a metà tra la strapaesana sagra della salsiccia e la ricercatezza di Slow Food: per dire, ci sono le tavolate comuni con le panche e i piatti di carta e accanto i laboratori del gusto proprio di Slow Food condotti dal maestro Kuaska, il concerto rock della cover-band i turno e molti birrai che passano a farsi un bicchiere.

Il top dello svacco è che la manifestazione si svolge accanto a un bel campo da calcio (di quelli di una volta, con l’erba vera e non sintetica) sul quale è possibile campeggiare liberamente. E la gente, per sfuggire al sacrosanto etilometro, campeggia: famiglie con i bambini che giocano a pallone e biker che tra due ore vomiteranno l’anima, camper e tendine lillipuziane di quelle che si montano da sole lanciandole in aria… insomma l’atmosfera è rilassata, senza incravattati e senza pregiudizi.

Tra tanti pregi, i difetti son sempre quelli da che io ho memoria: il cibo un po’ così, i bicchieri di plastica, la temperatura di servizio uniformemente glaciale, le code per il cibo e per i bagni, la spillatura non sempre perfetta… ma, diamine, siamo qui per divertirci in primis, e solo poi per le pippe sulla esegesi organolettica del fermentato di malto.

Il pubblico presente è pure lui un Giano bifronte, coprendo tutta la gamma zenith-nadir del caso: dai super-appassionati che si sono fatti ore di auto per esserci, si conoscono tutti fra loro, forgiati da anni di cameratesca carboneria birraria, si portano da casa il bicchiere di vetro per godere meglio e smanettano sullo smartphone per aggiornare i loro beer ratings, ai ragazzotti che si affollano per prendere una ciocca colossale (sicuro) e per quagliare con qualcuna delle giovani addette alle spine (magari).

In mezzo a questo magnifico calderone ci sono le protagoniste, le birre.
In cartellone una quindicina di birrifici per trenta birre, a rappresentare, tra gli altri, storici quarti di nobiltà della scena brassicola italiana (Baladin,Montegioco), solide certezze (Maltus FaberToccalmatto) e giovani rampanti (ExtraomnesBrewfist).

Dichiaro subito inadeguatezza e rozzeria: in cuor mio credo che solo la visione coatta di una settimana di Porta e Porta possa essere più noiosa e inutile dei punteggi (82 questo, 83 quello: dai, fammi ridere) e della psichedelica giungla dei descrittori, per questo mi limiterò a qualche accenno.
Disclaimer: ai festival birrari non si sputa, vivaddio, si manda giù tutto di buon grado. Questo piccolo ma significativo aspetto, se certo contribuisce al gioioso clima raccontato poco sopra, immagino non sia un buon viatico per la completezza e la lucidità della descrizione delle bevande.

In generale, per quanto ho potuto provare (non si sputa, ricordate?) qualità discreta: nessun grosso difetto ma anche nulla che abbia fatto gridare al miracolo e molte produzioni penalizzate dalla serata fredda e ventosissima che osteggiava il raggiungimento della temperatura corretta delle birre.
Le note di quello che più ho apprezzato: la mia bevuta della serata è stata la T.I.P.A. di Pausa Caffè (birrificio torinese forse poco sugli scudi e non troppo assiduo nei commenti degli aficionados): una bella e classica IPA da 6,7 gradi, dal colore carico e corpo medio a sostenere un luppolo importante ma non sfacciato, semmai elegante (leggo sul sito: East Kent Golding, quindi un nobile europeo).

La piacevolezza della semplicità è ben rappresentata dalla Blond di Extraomnes (microbirrificio di Marnate, capeggiato dal ben noto Luigi “Schigi” d’Amelio): chiara come lascia intuire il nome, 4,4 gradi, corpo leggero ma non acquosa, secchissima, fresca di un agrumato dissetante, con una leggera speziatura e un amaro ben presente ma che non supera i livelli di guardia. Come si dice in questi casi: da berne a secchi; sicuramente ideale per l’estate.

Per coloro cui piacciono i cazzotti amari, i pesi massimi delle IBU, c’era la Spaceman di Brewfist, giovane ma affermato birrificio lodigiano, creatore di questo instant classic della scena brassicola italiana: si tratta ancora di una IPA (tra gli stili più modaioli del momento) da 7 gradi, densa, volutamente esagerata, resinosamente amarissima ma non monocorde.

Sempre da Brewfist, professionisti dell’estremo ma non solo, ancora una mazzata: la Imperial porter X-ray. Nera impenetrabile, appena un filo di abboccatura e poi tonnellate di tostature (cioccolato, caffè, orzo) e anche una bella manciata di luppoli a bilanciare. Detta così sembra una mappazza, e forse lo è, ma lasciata scaldare si beve bene.

Curiosamente interessante la Due Mondi del Croce di Malto di Trecate, una collaboration beer (altro trend attuale) realizzata con lo storico Birrificio Italiano. Due Mondi di nome e di fatto: lo stile di partenza dichiarato è quello tedesco delle doppelbock, quindi gradazione rilevante (siamo a 7,7 dichiarati) e corpo ben presente, maltosità pronunciata e un certo grado di tostatura. Fin qui siamo nei canoni, ma la Due Mondi a tutto questo aggiunge una buona dose di luppolo americano, aromatico e amaricante e notevole secchezza a rendere il tutto più facilmente bevibile. Da provare il prossimo inverno.

Nota finale di merito per l’organizzazione di Pasturana: al mattino prima delle 8, per coloro che si risvegliavano e dovevano riprendersi dall’hangover, magari per mettersi in auto e far ritorno a casa, c’era il servizio bar aperto con caffè e cappuccino. Ringraziamo sentitamente.

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