Tenuta Il Falchetto Brut

La scorsa settimana ad Acqui Terme ho gironzolato qualche minuto nella bella Enoteca Regionale per scampare al caldo formidabile del pomeriggio, e mi è stato proposto il Brut della Tenuta Il Falchetto, una azienda di Santo Stefano Belbo che, a giudicare da quanto leggo sul sito, gestisce un bel po’ di ettari e si dedica alla produzione di una vasta gamma di bottiglie, tutte comunque legate a vitigni del territorio, a parte Chardonnay e Pinot Nero.

Denominazione: VSQ
Vino: Brut
Azienda: Tenuta il Falchetto
Anno: –
Prezzo:18 euro

La scheda tecnica dice solo che si tratta di Chardonnay e Pinot Nero con almeno tre anni sui lieviti, nulla di più…
Purtroppo il vino, pur senza difetti e gradevole, non mi ha lasciato grandissime impressioni; sicuramente positiva la parte visiva, con un bel paglierino illuminato da catenelle fitte e sottili, ma già portando il calice al naso emergono note di panificazione troppo predominanti che sotterrano il resto dello spettro, lasciando una impressione un po’ monocorde.

L’assaggio poi conferma le perplessità a causa di una bolla un po’ grossolana e di una acidità che, seppure ben presente, resta relativamente slegata dal resto del sorso, che in definitiva risulta poco dinamico e interessante.
Anche il dosaggio mi ha dato idea di essere leggermente troppo invadente.

Quindi nessun difetto, ma neppure elementi particolari di distinzione, e soprattutto la bevuta è leggermente faticosa.

Il bello: nessun difetto, prezzo corretto per un metodo classico con almeno tre anni sui lieviti

Il meno bello: dosaggio un po’ invadente, bevuta leggermente faticosa

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Champagne Brut Reserve, Béreche et fils

Quando stappo una bolla e vedo un bel tappo a fungo, largo, svasato e chiaro, capisco che sarà una bella serata, perché ormai sono certo del dogma: il tappo un po’ rachitico, stretto e scuro è foriero di una bottiglia non difettata, ma incapace di esprimersi ai massimi livelli.

E allora il tappo parla, e ci dice che questa sarà una ottima serata.

La famiglia Béreche produce dal 1847 e dispone di quasi 10 ettari coltivati senza trattamenti sistemici ed erbicidi in varie parcelle situate in Montagne de Reims e Vallée de la Marne; la fermentazione non fa uso di lieviti selezionati, non si effettua la malolattica, vinificazione e affinamento avvengono per la gran parte in legno grande di rovere e i vini riposano sui lieviti da due a sei anni.

champagne-brut-reserve-bereche-et-filsDenominazione: Champagne AOC
Vino: Brut Reserve
Azienda: Béreche et fils
Anno: –
Prezzo: 35 euro

Nello specifico, questo Brut Reserve è una cuvee classica: un terzo ciascuno dei tre vitigni tipici della champagne e 7 g/l di dosaggio (ma non si sentono affatto, anzi lo avrei battezzato come extra brut).

All’inizio i profumi quasi stordiscono con il corale di agrume, minerale (sasso, gesso) e floreale: esplosivi ma non volgari. Poi inizi ad assaggiare e scopri una bolla delicata, avvolgente e un vino che, pur in un quadro di equilibrio generale perfettamente riuscito, si muove deciso nello spazio della freschezza, della verticalità.
Soprattutto, la facilità di bevuta non si accompagna alla semplicità del sorso: l’assaggio, sottile ma per nulla anemico, arricchisce quanto rivelato al naso con una bella intensità e un accenno di frutta secca (nocciola, mallo di noce).

Quindi un vino fresco, bevibile, ricco al naso e in bocca, equilibrato, di discreta lunghezza e per giunta anche capace di mascherare benissimo il grado alcolico (la bottiglia finisce in un amen).

Lo direi versatile, da aperitivo ma anche come ottimo accompagnamento di antipasti e primi piatti fino a media complessità e intensità.
Sboccatura fortunatamente indicata in retroetichetta: settembre 2014.

Miglior champagne bevuto da un sacco di tempo: se questa non è la classica bottiglia fortunata e irripetibile ne voglio una cassa, grazie.

Il bello: verticale ma equilibrato, ricco e bevibilissimo

Il meno bello:  a voler cercare proprio un difetto, la lunghezza è buona ma non fenomenale

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Metodo Interrotto, Furlani

Non avevo neppure mai sentito parlare della Cantina Furlani, ma il consiglio di un amico unito al mio apprezzamento per le bolle trentine hanno fatto breccia e ho provveduto all’acquisto.

Cerco qualche informazione sulla bottiglia appena portata a casa e sul produttore ma trovo davvero poche note: un sito di questo tenore nel 2015 è quantomeno indice di poca lungimiranza…

Da quanto capisco, la Cantina dispone di sei ettari di terreno vicino Trento, coltivati con varietà autoctone ed internazionali, ed appartiene al “giro” dei produttori “naturali”, con conduzione biodinamica, rifiuto dei prodotti di sintesi in vigna, affidamento ai lieviti autoctoni, nessun controllo della temperatura in vinificazione, nessuna aggiunta di solforosa e nessuna filtrazione.

furlaniDenominazione: VSdQ
Vino: Metodo Interrotto
Azienda: Furlani
Anno: –
Prezzo: 16 euro

La bottiglia in questione è composta per l’80% da chardonnay e il rimanente da pinot nero, con due anni di riposo sui lieviti.
Un accenno al tappo a corona: non mi scandalizzo, anzi per certi versi è meglio, eliminando alla radice i problemi di sentori di TCA, ma da un vino di una certa importanza con un prezzo di gamma medio bassa ma comunque non regalato, mi aspetto qualcosa di più professionale.

Il ciclo di produzione è quasi quello di un “normale” Metodo Classico, non fosse che viene omessa la fase di sboccatura, quindi non c’è aggiunta di liquore di dosaggio e solforosa: questo ovviamente rende il bicchiere opalescente, lattiginoso, con un aspetto tipicamente da metodo ancestrale o da rifermentato sur lie. Oggettivamente bruttino a vedersi.

La bolla non è da manuale, mantiene una buona finezza ma è ma un po scarsa e l’olfattivo è sempliciotto: floreale e accenni aggrumati, nulla di più.
Il sorso non è male: abbastanza pieno e di discreta lunghezza, ma manca un po’ di acidità, di tensione: si sente qualche accenno dolcino eccessivo, ed è abbastanza sorprendente data la assenza di dosaggio. Per fortuna in chiusura non fa capolino alcun richiamo amaro.

Spumante semplice, di non troppe pretese, non troppo rustico e con una sua dignità; direi una valida alternativa al prosecco per un antipasto disimpegnato.

Il bello: semplice ma gradevole

Il meno bello:  manca la spinta acida acida

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Pas Dosé 2009, Rizzi

Gli spumanti prodotti in Piemonte, siano o meno sotto denominazione Alta Langa, sono una tipologia su cui a  mio avviso si tende troppo spesso a sorvolare con una alzata di spalle: nel mio piccolo mondo di assaggi ho spesso incontrato bottiglie di buon livello vendute a prezzi corretti.
Non fa difetto neppure questo Pas Dosé, messo a punto da un importante produttore di Treiso, ovviamente noto per i suoi Barbaresco: Rizzi.

Denominazione: VSDQ
Vino: Pas Dosé
Azienda: Rizzi
Anno: 2009
Prezzo: 20 euro

Il vino è a base chardonnay con apporto di nebbiolo e pinot nero e viene prodotto ovviamente con il Metodo Classico, facendo uso di lieviti selezionati su cui riposa per ben 56 mesi.
Nella stessa giornata lo ho assaggiato dapprima nel pomeriggio, durante una degustazione di Barbaresco, versato da una magnum sboccata da circa tre mesi, ed era sicuramente un bel bere, poi la sera: convinto della validità del prodotto ne ho portato a casa una bottiglia di formato standard con sboccatura di circa un mese, forse troppo recente (a proposito, complimenti per la precisa indicazione in controetichetta, con data completa di giorno, mese e anno).

I miei appunti parlano di giallo verdolino con bolla copiosissima e piacevolmente esuberante che solletica senza essere fastidiosamente dura, di uno spettro olfattivo abbastanza classico (fiori e frutta tropicale, comunque molto fresco) e di un sorso piacevolmente teso ma equilibrato, senza le acidità stellari, strappagengive di certi non dosati, con un finale senza traccia di fastidiose scie amare.

Segnalo che il vino della magnum aveva una compiutezza maggiore, in particolare a livello olfattivo; ad ogni modo: ottima bevuta a prezzo tutto sommato corretto.

Il bello: bella spinta acida ma ottimo equilibrio del sorso

Il meno bello: in questo caso, bottiglia forse troppo giovane

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Solo Uva

Mia colpa certamente, ma non mi sono del tutto chiari gli intenti del progetto TerraUomoCielo: sul sito si dice testualmente che “segue dalla produzione fino alla vendita, aziende agricole produttrici di vino”.
Non capisco se si tratta di un protocollo commercial-agro-enologico che i partecipanti si impegnano a seguire, se c’è un aspetto consulenziale che entra in campo, o se più semplicemente si tratta di una sorta di mission, di unità di vedute, delle aziende protagoniste.
Di certo la denominazione racchiude una manciata di (piccoli) produttori, principalmente franciacortini: Camossi, Colline della Stella, Arcari&Dainesi, Ferdinando Principiano (per quanto riguarda la spumantistica) e Solo Uva.

solouvaDenominazione: Franciacorta DOCG
Vino: Brut
Azienda: Azienda Agricola Solo Uva
Anno: –
Prezzo: 22 euro

E’ proprio a firma di questo ultimo marchio (l’Azienda Agricola Solo Uva) il prodotto che ho assaggiato in questi giorni. Andrea Rudelli gestisce un ettaro e mezzo a Chardonnay ad Erbusco, dal quale ricava 10.000 bottiglie di una sola tipologia di metodo classico dalle caratteristiche tecniche piuttosto particolari: la fermentazione viene bloccata (grazie al freddo) nel momento in cui il mosto ha ancora gli zuccheri residui necessari ad ottenere la sovrapressione in atmosfere e i gradi alcolici richiesti.
A questo punto, per la rifermentazione in bottiglia, si aggiungono solo i lieviti (sui quali ci sarà un riposo di 30 mesi) e non è necessario nessun “liquore di tiraggio”; ovvia conseguenza, la scelta di non aggiungere dosaggio prima della messa in commercio.

Ne deriva un prodotto che ha l’ambizione di sfruttare la capacità tecnica di gestire il metodo classico in modo innovativo al fine di ottenere un vino spumante il più naturale possibile, da uve raccolte nella piena maturità fenolica e senza zucchero aggiunto in alcuna fase.

Questi gli intenti, ma quali sono i risultati nel bicchiere?
Il vino è dorato con qualche ricordo verdolino e con bolla perfetta per copiosità e finezza.
Se c’è una volta in cui si può sfoderare senza tema di smentita il classico “floreale e fruttato” è questo: al naso sono ricordi di fiore primaverile e di frutta piuttosto intensi, cui si aggiunge una traccia di caramella inglese. Il tutto risulta molto giovane e fresco senza tracce di lieviti e di legni.
La somma finale è un po’ eccessiva: piacevole ma poco complessa e un tantino “gridata”.

Il sorso è educato, nel corpo come nella bolla ma anche nella freschezza e sapidità, che in verità risultano lievemente latitanti: manca un po’ di mordente, il vino è piacevole ma poco verticale, sembra un po’ seduto pur senza denunciare dolcezze poco consone ad un metodo classico (che peraltro mi pare dichiari soli 2 grammi/litro di zuccheri residui). Nessun finale amaro e lunghezza discreta.
In etichetta sono indicate raccolta 2012 e sboccatura 2014.

Vino piacevolmente “diverso”, da riprovare più avanti: a mio modesto avviso il produttore ha margini per mettere meglio a punto il processo e ottenere risultati ancora più centrati;
al momento il bicchiere è in mezzo al guado, indeciso tra un prodotto semplice, ricco di aromi e indicato come aperitivo e qualcosa di più ambizioso, per il quale mancano sicuramente un po’ di grinta e magari anche una po’ di struttura e di complessità gusto-olfattiva.

Il bello: piacevole semplicità fruttata e floreale

Il meno bello: manca un po’ di grinta

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Giulio Ferrari Riserva del Fondatore 2001, Cantine Ferrari

Riepilogando: sono un appassionato di vini bianchi, in particolare di Metodo Classico, e non ho pregiudizi rispetto a quanto metto nel bicchiere (perlomeno cerco di non averne); detto questo, o forse proprio per questo, trovo abbastanza stucchevole la cantilena secondo la quale non sarebbe possibile confrontare Champagne e Franciacorta, Tranto DOC e Oltrepò Pavese…

Certo, terreno e latitudine non hanno nulla in comune, per non parlare dei numeri e dell’esperienza di coloro che il vino lo fanno, ma io sono un consumatore, non un enologo o uno storico, e valuto quello che tracanno.
Mi pare abbastanza ovvio che il “modello di riferimento” di tutti (quasi) coloro che producono Metodo Classico sia lo Champagne, e che la prova di assaggio evidenzi enormi somiglianze tra vini creati con questa metodologia (e vorrei vedere… la tecnica e i vitigni impiegati sono i medesimi, e in questo caso la tecnica conta eccome: gli spumanti sono vini estremamente “costruiti”).

Quanto sopra per giustificare il fatto che, nonostante la vulgata corrente lo ritenga una bestemmia, quando assaggio un Metodo Classico italiano mi abbandono per un attimo ad una piccola astrazione mentale, cercando di riportare quello che ho nel bicchiere alla terra di Francia, zona Reims, cedendo alla tentazione del paragone con Champagne di prezzo analogo.

Nel mio personale (modestissimo) cartellino, gli italiani si difendono bene sino ad una certa fascia di prezzo (diciamo spannometricamente fino ai 30 / 40 euro?), aiutati dall’handicap dei costi di importazione francesi. Oltre quella soglia, temo che molto spesso i cugini dalla erre moscia abbiano la meglio.

Certo, ci sono casi e casi,  e quello di oggi è uno di quelli in cui un Metodo Classico italiano di prezzo importante riesce a ottimamente figurare accanto a bottiglie transalpine comparabili.

La mia esperienza con “il Giulio” ha anche un aneddoto curioso: agli albori della mia frequentazione col mondo del vino mi ritrovai ad una degustazione, presenti molti nomi importanti; mi fiondai subito sulle bolle (ovvio), e il primo o il secondo vino della giornata fu proprio la Riserva del Fondatore. Tutti gli altri spumanti in degustazione impallidirono al confronto e la cosa mi impressionò decisamente.
Mi è poi capitato di assaggiarlo altre volte, e di farne fuori un paio di bottiglie di diverse annate, e mai sono stato deluso… certo, il prezzo…

Giulio-Ferrari-Riserva-del-Fondatore-2001Denominazione: Trento DOC
Vino: Riserva del Fondatore
Azienda: Cantine Ferrari
Anno: 2001
Prezzo: 60 euro

Poche note tecniche: chardonnay al 100% dal vigneto Maso Pianizza, 500 metri sul livello del mare esposti a sud-sud/ovest, circondato da boschi; raccolta manuale, fermentazione in acciaio e ben dieci anni di affinamento. Tecnicamente possiamo parlare di un extra-brut (il dosaggio lo porta a meno di 6 grammi/litro di residuo).

Poco da dire su un prodotto del genere: è una crema dorata,  di un brillante perfetto, con bollicine ideali per sottigliezza e lucentezza. Lo spettro olfattivo non è esplosivo, ma non è questo quello che cerchiamo in un Metodo Classico: importa che la finezza e la complessità siano encomiabili: fiori, agrumi, panetteria, accompagnati da una sottesa nota di vaniglia e di affumicato.

Il sorso è pieno, ricco, succoso… soprattutto è magnifico l’equilibrio che nasconde l’alcol, che bilancia perfettamente sapidità e acidità e che rende la bevuta sontuosa ma allo stesso tempo agilissima.

Vino ideale a tutto pasto, ma anche come aperitivo o come bevuta solitaria, difficile trovargli un ambito non consono (giusto i dolci, dai!).

Il bello: lo bevi come vuoi e con cosa vuoi: non puoi sbagliare
Il meno bello: le prix, ça va sans dire

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Giacosa Extra Brut 2006

Ho scritto recentemente qualcosa  riguardo i metodo classico Piemontesi, e sono contento di poter continuare a parlare di ottime impressioni con un altro prodotto che non avevo mai assaggiato, il Giacosa Extra Brut.
Certo, il caso è curioso: nonostante l’etichetta riporti il nome di una icona del vino di Langa (Giacosa, appunto), le uve, pinot nero in purezza, provengono dall’Oltrepò Pavese…  Prendiamola come la dimostrazione della grande capacità di vinificare di casa Giacosa e anche come prova della notevole attitudine della regione lombarda nella coltivazione di questa non facile tipologia.

giacosaDenominazione: –
Vino: Extra Brut
Azienda: Giacosa
Anno: 2006
Prezzo: 25 euro

Visivamente perfetto: giallo paglierino con bolle sottili, continue e numerose e bella spuma persistente.
L’Olfattivo è deciso, vibrante di minerale e lieviti, poi c’è il floreale, e il muschio, sottobosco umido, senza frutta tropicale o agrumi. Diretto, molto maschio.

L’ingresso è deciso ma senza aggressività, decisamente secco ma senza accenti amarognoli, pieno, gustoso e intenso, fresco e dotato di bella sapidità. Squillante, vivo e comunque di grande equilibrio, nonostante la drittezza riesce ad esprimere una certa rotondità. Ottima lunghezza.
Lasciandolo esprimere a qualche grado in più acquista profondità e ricchezza.

Uno dei migliori metodo classico pinot nero in purezza assaggiati quest anno; certo, la domanda è che senso abbia la denominazione dimostra le potenzialità dell’oltrepò pavese

Il bello: pienezza gustativa
Il meno bello: nulla da segnalare

 

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Festival Franciacorta Genova 2014

FranciacortaAll’ingresso ti danno il libricino, che oltre a tutti i dati sul Franciacorta, dagli uvaggi, al metodo di produzione, passando per tipologie e modi di consumo, riserva una pagina per ciascuno dei 32 produttori, divisa equamente a metà per ognuno dei due vini in degustazione, con nome, millesimo e uvaggio e lo spazio per annotare le impressioni.

Ecco, quello che più colpisce del Festival Franciacorta (alla sua prima edizione a Genova) è la cura nei dettagli: quella sopra raccontata è una comodità impagabile nelle sessioni di degustazione delle varie manifestazioni, occasioni in cui hai il bicchiere in una mano, la giacca nell’altra, qualche depliant sotto l’ascella, la penna dietro l’orecchio eccetera, e per prendere un appunto devi fare i contorsionismi da fachiro indiano alcolizzato.

Le altre carinerie nei confronti dei visitatori vanno dalla brochure in formato sia cartaceo che elettronico (su chiavetta usb), al gadget portachiavi, dalla location spaziosa e luminosa (i Magazzini del Cotone presso il Porto Antico, dove si svolge solitamente anche Terroir Vino) al catering semplice ma appetitoso, dalla ricca fornitura di acqua in bottigliette ai banchi di assaggio ciascuno con la presenza del produttore e di un sommelier qualificato con tanto di termometro per verificare la temperatura di servizio.
Difficile chiedere di meglio per 15 euro di ingresso (10 per i soci AIS, Fisar, ONAV ecc.)! Il confronto con la mia visita a Vinum di pochi giorni prima è davvero impietoso…

Franciacorta

Per un appassionato di bollicine come il sottoscritto è stato un pomeriggio di festa più che di analisi degustative, inoltre, giocando in casa, ho avuto modo di incontrare tanti volti noti, sia tra il pubblico che tra i colleghi sommelier al servizio; mi limito a qualche nota veloce e sparsa sulle cose più interessanti.
Non posso non iniziare da Bersi Serlini: la signora Chiara mi ha accolto come sempre in maniera splendida e mi ha fatto assaggiare un nuovo prodotto che ho gradito molto per freschezza, vivacità o originalità: il Brut Anteprima, dalla vivacità spiccata declinata in una mela verde croccantissima. Un bidone intero per l’estate, please.

Sarebbe facile parlare bene dell’Annamaria Clementi Riserva 2005 di Cà del Bosco, così come del Pas Operè 2007 di Bellavista, ma anche inutile, vista la fama.
Preferisco quindi spendere due righe per qualche outsider (perlomeno per me) come Chiara Ziliani, che sia nel Brut che nel Saten mostrava due vini con piacevoli ed intensi accenti di lievito, il Rosé di Cortebianca, strutturato e selvatico, la delicatezza floreale del Saten 2010 de Il Mosnel, la personalità e la buona persistenza del Demetra Brut di Mirabella, la unicità dei sentori di pesca bianca del Saten di Montenisa, la verticalità carica e decisa del Brut 2009 di Vezzoli.

Piccole delusioni: Uberti, con qualche sentore scomposto sia nel Brut Francesco I che nel Comari del Salem, e Monterossa, che mi è sembrato un po’ grossolano in entrambi i vini. Spero di cambiare le mie impressioni con un prossimo assaggio.

Impressioni finali: buona qualità media, un po’ troppi vini certamente ben fatti ma senza una personalità spiccata, ma c’erano 62 prodotti in degustazione e di certo un non esperto come il sottoscritto a metà batteria inizia a perdere le capacità palatali e un po’ di concentrazione.

Che dire, se non i complimenti per la superba organizzazione e la speranza di rivedere il Festival Franciacorta dalle mie parti anche il prossimo anno (o anche prima: non mettiamo limiti alla provvidenza). Se la manifestazione fa tappa dalle vostre parti, non fatevi sfuggire l’occasione.

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Monsupello Nature

Storica azienda situata in quel territorio un po’ misconosciuto e un po’ bistrattato che è l’Oltrepò Pavese, Monsupello è una delle più solide e storiche realtà spumantistiche (e non solo) italiane. Personalmente lo ritengo uno di quei marchi cui rivolgermi quando ho voglia di bolle di qualità certa ad un prezzo adeguato.

Enclave del pinot nero italiano, l’Oltrepò Pavese gode di poca fama rispetto alle potenzialità, forse a causa di un consorzio poco visibile o della incapacità di “fare sistema” in maniera adeguata delle aziende più importanti (penso ad esempio a quel che è stato realizzato da una ottima mentalità imprenditoriale in Franciacorta).

Sia quel che sia, Monsupello, con i suoi 50 ettari sforna ogni anno duecentomila bottiglie, buona parte delle quali destinate a sei tipologie di metodo classico, una delle quali è il Nature oggi in assaggio.
La metodologia di produzione è classica: pressatura soffice, fermentazione in acciaio a temperatura controllata, poi la composizione della cuvè (90% pinot nero, 10% chardonnay), il tiraggio e il riposo di almeno 30 mesi sui lieviti.

monsupelloDenominazione: DOCG Oltrepò Pavese
Vino: Nature
Azienda: Monsupello
Anno: –
Prezzo: 19 euro

Giallo dorato con curiosa sfumatura ramata, bello e particolare; bolle fini, continue, numerosissime. L’olfattivo è di crosta di pane, frutta secca e qualche ricordo boschivo di matrice pinot nero. Non particolarmente complesso o intenso ma piacevole.

L’attacco è intenso, con il sorso deciso: il pinot nero riempie la bocca e scalpita. L’acidità e soprattutto la sapidità sono muscolose e senza compromessi ma non fastidiose. Ovviamente l’equilibrio è spostato verso le durezze in modo deciso: siamo in presenza di un metodo classico non dosato e si sente.
Il corpo è importante e il finale ha persistenza media, senza fastidiosi accenti amari. Sboccatura 2013.

Sicuramente un vino da pasto, da affiancare facilmente a salumi da sgrassare, magari provenienti dalle medesime zone di produzione, per un abbinamento certo scontato ma di sicura efficacia.

Il bello: olfattivo non troppo ricco
Il meno bello: selvatico, dritto, ispido ma gradevole

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Bolle dal paradiso: Haderburg

HaderburgD’accordo, non conta nulla e importa a pochi, ma se potessi assegnare il premio per l’azienda agricola (intesa come vigneti, posizione, panorama e tutto quel che ne consegue) più bella e coreografica mai visitata, il titolo verrebbe assegnato alla Azienda Agricola Haderburg. No contest, vittoria per ko tecnico.

Certo, immagino che la vittoria sia stata favorita dall’aver raggiunto le alture circostanti Salorno (più precisamente: Località Pochi) in questo mese di Aprile cui la primavera un po’ strampalata regala montagne con neve in gran quantità fino ancora a 1300 metri, bianchissimi meli in fiore in tutta la Piana Rotaliana, erba dal verde abbacinante e 26 gradi di temperatura, ma effettivamente la location (come dicono quelli moderni) ha pochi rivali.

HaderburgPochi concorrenti ha anche l’accoglienza della famiglia Ochsenreiter: con il Vinitaly in pieno svolgimento abbiamo comunque tentato il colpaccio chiamando il mattino per prenotare una visita di lì a pochi minuti. Pensavo ad una pernacchia, invece ci è stato risposto che qualcuno (nella fattispecie il gentile figlio del titolare Alois) è sempre presente in azienda e ci avrebbe accolto volentieri.

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Haderburg Detto fatto, in pochi minuti si sale in auto da Salorno fino alla collina che ospita il podere Haderburg, abbarbicato a circa 400 metri di altitudine sul confine meridionale dell’Alto Adige, a dominare l’immensa distesa di vigneti e alberi da frutta che circonda il corso dell’Adige, con le Alpi in secondo piano che incorniciano il tutto.
In una tersa e fiorita giornata primaverile come quella in cui sono incappato il panorama è difficilmente eguagliabile.

L’azienda, i cui prodotti più noti sono indubbiamente i metodo classico, vinifica dal 1977 e ormai da molti anni si è convertita a regime biodinamico; i cinque ettari e mezzo di vigneti a pergola modificata del maso Hausmannhoff, piantati su terreno fangoso e argilloso rivolto a Sud-Ovest, sono quelli da più tempo di proprietà della famiglia e servono a produrre le bottiglie più prestigiose; ci sono poi altri tre ettari in Valle Isarco, dedicati a Müller-Thurgau, Pinot grigio, Riesling, Sylvaner, Gewürztraminer e Kerner.

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La gamma dei vini spumanti mi era già ben nota (ne ho parlato ad esempio qui e qui), ma un ripasso non fa mai male: il Brut base (85% chardonnay, 15% pinot nero, 24 mesi di affinamento sui lieviti, no malolattica) è un prodotto sincero, che non tradisce mai e dal prezzo sicuramente corretto; il Pas Dosé (85% chardonnay, 15% pinot nero, 36 mesi sui lieviti, no malolattica) secchissimo e nervoso, aggiunge sapidità e pienezza; il Rosè (60% pinot nero, 40% chardonnay, 24 mesi sui lieviti) gode di uno straordinario colore e presenta piacevoli e intensi richiami ai piccoli frutti di bosco.

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Il top di gamma è l’Hausmannhof 2004 (100% chardonnay, affinamento di un anno in piccole botti di legno, non svolge la malolattica e poi 8 anni sui lieviti; in precedenza erano 10, se non vado errato), per il quale vale la pena spendere qualche parola in più: bel giallo dorato, luminoso, con bollicine sottili (forse non numerosissime) che in bocca si rivelano sorprendentemente morbide, per nulla graffianti e persino troppo addomesticate.
Olfattivo di buona intensità, ricco di pasticceria e fiori maturi.
Il primo sorso è leggero e poi cresce di intensità nella parte centrale e finale dell’assaggio.
Estremamente scorrevole: l’acidità c’è ma è ben mascherata e in generale è difficile discernere la varie componenti: tutto concorre ad una sicura rotondità, mai piaciona o noisamente morbida, ma sempre elegante e composta.
Bella chiusura, senza amarezze e con discreta lunghezza: resta un piacevole ricordo sapido.
Ottimo vino, dal prezzo comunque importante, al quale (se mi è consentito muovere un appunto), chiederei un po’ di spunto brioso in più.

Non avevo mai assaggiato i vini fermi, e l’impressione generale è sicuramente di prodotti di buon livello, con una punta di eccellenza per il Pinot Nero Riserva Hausmannhof (affinamento per 12 mesi in barriques nuove e altrettanto tempo in legno già usato): la sera precedente al ristorante avevamo bevuto questo stesso vino nel millesimo 2004 restandone fortemente colpiti per rotondità e freschezza ma anche finezza del tannino e per la buona persistenza. Il 2010 (al momento molto giovane) promette altrettanto: ne ho prese un paio di bottiglie da lasciare in cantina qualche anno.
Convincente il Pinot Nero: più semplice e immediato rispetto alla Riserva, dimostra comunque grande freschezza e facilità di bevuta.9 Molto interessante il passito Perkeo (Gewürztraminer e Petit Manseng): acidità notevole, gradazione non eccessiva e corpo piacevolmente scorrevole lo rendono per nulla stucchevole nonostante la dolcezza e l’aromaticità spiccata.
Il vino che ho trovato meno convincente è il Riesling: poca personalità, corpo sfuggente, olfattivo un po’ banale.

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