Zibaldone minimo dei lemmi enogastronomici, parte seconda: il mito della mineralità

Non credo sia un caso che il lemma “mineralità” non sia presente né sul dizionario Gabrielli, né in quello Treccani…
Certo, esiste il più concreto Minerale agg. [dal lat. mediev. mineralis; v. miniera] ed è proprio questo l’oggetto del mio contendere odierno.

Per tagliare corto: se avessi potuto intascare un euro per ogni volta in cui ho ascoltato qualche enofanatico condire le sue valutazioni con questo termine (io stesso non sono del tutto innocente), potrei finalmente mettere in cantina qualche magnium di Krug: la mineralità declinata in tutto il suo rosario di pietra focaia, gesso, idrocarburo, polvere da sparo e chi più ne ha più ne metta, è chiaramente il mantra del momento, e se poi viene associata all’altrettanto à la page “biodinamico” ecco che lo winelover può finalmente raggiungere vette orgasmiche.
Certo sarebbe curioso verificare quanti di questi appassionati si siano sottoposti a sedute intensive di olfazione di selci, fiammiferi e taniche di cherosene, in modo da poi poterne confrontare i sentori con quelli emessi da un calice di Barolo, ma sorvoliamo…

La storia della mineralità nel vino è la chiara dimostrazione di come la gran parte di critici e appassionati del settore enologico siano dei conformisti aggrappati alla moda del momento, capaci di bersi acriticamente qualsiasi panzana e poi di ripeterla a pappagallo con la massima convinzione. Ad esempio la favoletta (immaginifica, certo) che un suolo ricco di composti particolari (classicamente vulcanico, o ricco di gesso o quarzo) sia in grado di trasporre queste caratteristiche al vitigno e da questo al mosto e infine al vino.

Ma andiamo per ordine, partendo però da un punto fermo: le eventuali molecole minerali presenti nel vino sono inodori in quanto non volatili. Questo è quanto dice la scienza, e potremmo fermarci qui.
Ma, non bastasse, possiamo ricostruire l’assurdità della tesi secondo la quale una vite piantata in un terreno ricco di un particolare minerale sarebbe in grado di assorbire molecole di questo elemento, trasferirle nell’acino e quindi lasciarle intonse nel vino, dopo tutte le trasformazioni apportate dalla fermentazione.
Anche fosse vero, e trascurando quanto scritto in precedenza riguardo il fatto che si tratta di sostanze non odorose, la concentrazione di minerali nell’uva (ad esempio potassio, zinco, rame, calcio, magnesio) è così irrisoria (si parla di decine di parti per milione o anche molto meno) da essere ben lontana dalla soglia di percettibilità umana.
E’ curioso poi che i divulgatori di questa “cinghia di trasmissione” si concentrino solo sulla mineralità e non teorizzino il passaggio anche di altri sentori, pure essi presenti in sabbia, limo o argilla.

Ancora più interessante è rilevare la confusione relativa a cosa i degustatori intendano per “mineralità”, in realtà una sorta di bidone-raccoglitore di sensazioni olfattive e gustative estremamente soggettive, tutte quante non riconducibili ai più classici e concreti “floreale”, “fruttato”, “speziato”, legate comunque alla componente culturale individuale, quindi con significati diversi per persone diverse: si passa dai sentori di idrocarburo e alla salinità per arrivare fino alla pietra focaia, alla gomma bruciata e allo zolfo, mettendo assieme descrizioni che oggettivamente hanno poco in comune l’una con l’altra; infatti molti ricercatori ipotizzano che chi parla di mineralità stia in realtà sentendo qualcosa che non sa descrivere.

L’obiezione ovvia è che la nostra esperienza sembra dimostrare che certi minerali abbiano un odore: pensiamo ad esempio di annusare un sasso estratto da un ruscello di montagna; in realtà quello che percepiamo scaturisce da trasformazioni attivate dall’acqua, che causano il rilascio di composti organici presenti sulla superficie della pietra, quindi è quantomeno discutibile ricondurre queste sensazioni al “minerale” ed è certamente errato abbinarle ad un legame diretto con la composizione del terreno.
I descrittori che comunemente si associano al “minerale”, sono comunemente avvertiti, come spiega il professor Attilio Scienza, in vini capaci di notevole invecchiamento, con alta acidità e provenienti da zone fredde e molto luminose con fotoperiodo ampio e luce dalla particolare gamma energetica, tutte condizioni che stimolano la formazione di particolari tioli (composti organici).

Questo bel articolo, ricco di fonti accademiche documentate, ripercorre la storia dell’uso del termine: si scopre che fino a qualche anno fa ben poche regioni vitivinicole venivano associate alla mineralità, men che mai quelle più calde (proprio il contrario di quel che accade oggi), tanto è vero che il termine era assente sia nel libro di Peynaud “Il gusto del vino” sia nella Ruota Sensoriale di Ann Noble, rispettivamente del 1983 e 1984.
Si legge anche di un notevole cambiamento di approccio riguardo il Sauvignon bianco del distretto di Marlborough, Australia: negli studi sulle vendemmie del 2003-4 non si trovava menzione del termine “minerale” o dei suoi descrittori, le analisi del 2007 giudicavano i vini con un alto livello di percezione minerale come poco rispondenti alla tipicità e al varietale, mentre nel 2011 una elevata mineralità era associata ad una alta tipicità; in meno di un decennio la percezione comune è totalmente cambiata: non male per un argomento, come il vino, che vanta tradizioni e ritualità millenarie!
Lo stesso studio suggerisce inoltre che, in questo specifico caso australiano, il montare di percezioni minerali potrebbe essere dovuto alla massiccia adozione di chiusure a vite che avrebbero incrementato sensibilmente le note riduttive, decodificate dai degustatori come sentori appunto “affumicati” o “minerali”, e che comunque la sensazione minerale sia associata ad una maggiore acidità percepita.

Ricapitolando, è sicuramente vero che il terreno (così come il clima, il vitigno e l’opera dell’uomo) influenza gli aromi del vino, e che in certi vini troviamo ricordi di zolfo o idrocarburo, ma di certo l’uso del termine “mineralità” nell’esame olfattivo è abusato e anzi, molto spesso, del tutto errato. Soprattutto è scientificamente errata la correlazione tra i sentori minerali presenti nel bicchiere e la composizione del terreno sul quale sono state coltivate le uve, associazione che, per inciso, è un tasto molto battuto anche dai produttori, in quanto volano di esaltazione di un’altro dei dogmi attuali, quello del “terroir”, su cui ci sarebbe molto da discutere… Magari in un prossimo articolo.

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Sarà che è la moda del momento, forse.

Il punto è che il mondo dell’enogastronomia, da parte dei protagonisti come pure da quella dei semplici appassionati, rigurgita spesso un tale entusiasmo dal rasentare l’imbarazzo, e se da un lato (quello di chi deve vendere) lo si può capire, meno giustificabili risultano quelle povere vittime della sindrome di Stoccolma che si sentono in dovere di spalancare la porta del loro personale patheon a osti e contadini.

Ma fin qui pazienza.
Quel che davvero resta indigesto (del resto, di alimentazione stiamo parlando) è il grado di formalismo, la necessità di giocarsi un linguaggio forzatamente aulico, intriso di alate metafore, per discettare di un piatto di pastasciutta e un bicchiere di rosso.

Per questo, e per evitare di ricascarci pure io con tutte le scarpe e con tanto di calice e forchetta, ho deciso di vergare a imperitura memoria il mio personalissimo dizionario dei termini innominabili in ambito enogastonomico.

Iniziamo.


Degustazióne s. f. [dal lat. tardo degustatio -onis]

Parrà strano, detto da uno che ha sostenuto con profitto l’esame per poter vantare il pomposo titolo di Degustatore Ufficiale AIS (e per farlo ha pure pagato, pensa che roba); ma io ‘sto termine non lo sopporto; cioè, fatemi capire: voi degustate?

Non ci credo: semmai gustate, o mangiate e bevete, o al limite divorate, assaggiate, assaporate, pasteggiate, spiluccate, ingurgitate, brindate, sorseggiate, tracannate. Eccetera.

A me il termine “degustare” fa sempre venire in mente quei personaggi insopportabili, che, in compagnia di amici, fidanzate e semplici conoscenti, si sentono in dovere di roteare bicchieri come fossero dei lazos ed annusare piatti come un cane lasciato senza guinzaglio durante la festa del tartufo ad Alba, per poi tranciare con la massima serietà un giudizio inappellabile (e soprattutto non richiesto) su pietanze e liquidi testé ingeriti.

Degustazione

Non solo: appena leggo la sequenza di lettere d-e-g-u-s-t-a-r-e, mi parte un film nel cervello che ha per protagonisti attempati nobili parrucconi dell’ancien regime riuniti a mensa in qualche affrescato e stuccatissimo salone degli specchi di Versaillesiana memoria. Sorseggiano azzimati la zuppa e alternano al silenzio brevi discussioni su esecuzioni di sovversivi, caccia e tauromachia; quando esce la portata principale non applaudono ma, piuttosto, in segno di gioia fanno tintinnare i loro gioielli (cit.).

“Degustare” implica un tale grado di barocchismo da mandare fuori scala l’indice del mio noiosometro; dunque, dall’alto dell’autorità da me stesso conferitami, ne decreto l’immediata abolizione.
Così è stabilito, la seduta è tolta.

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