Vini naturali: addendum

Solo un piccolo post di servizio per dirmi soddisfatto del fatto di non essere isolato nella mia posizione su vini naturali, biologici e biodinamici: leggo oggi sul blog Primobicchiere riflessioni e collegamenti ad altri autori che sono sulla mia stessa stessa lunghezza d’onda.
Non che il mio pensiero sia particolarmente originale, sia chiaro, ma fa sempre piacere trovarsi in buona compagnia, e si spera che le idee sensate e razionalmente fondate si diffondano sempre di più.

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“Fosfato diammonico, Dicloridrato di tiamina, Anidride solforosa, Bisolfito di potassio, Carbone per uso enologico, Gelatina alimentare, Proteine vegetali ottenute da frumento o piselli, Colla di pesce, Ovoalbumina, Tannini, Caseina, Caseinato di potassio, Diossido di silicio, Bentonite, Enzimi pectolitici, Acido lattico, Acido L tartarico, Carbonato di calcio, Tartrato neutro di potassio, Bicarbonato di potassio, Batteri lattici, Acido L-ascorbico, Azoto, Anidride carbonica, Acido citrico, Acido metatartarico, Gomma d’acacia (gomma arabica), Bitartrato di potassio, Citrato rameico, Solfato di rame, Pezzi di legno di quercia, Alginato di potassio, Solfato di calcio”.

Queste sopra sono le sostanze autorizzate nell’uso nella produzione biologica di vino, secondo il regolamento di Esecuzione 203/2012 della Commissione Europea dell’8 marzo 2012.
Così, tanto per far capire cosa si intende quando si parla di “vino biologico” secondo la legge.

BiologicoDetto questo, il vino “biologico”, “biodinamico”, “naturale”, è sempre più sulla bocca dei consumatori, in parte come conseguenza di una ricerca più generale di stili di vita salutari (vedi i vari negozi “bio”), in parte per la recente moda dei cibi “di qualità” (il successo di Eataly ne è il simbolo), ma anche come fuga da una certa massificazione del gusto.
Sono infatti passati i tempi in cui si poteva incappare in vini cattivi: le moderne pratiche enologiche hanno fatto in modo che in enoteca, ma anche al supermercato, si possano trovare la stragrande maggioranza di bottiglie tecnicamente ineccepibili, a prezzo però di una netta mancanza di identità: i procedimenti standardizzati generano vini esenti da difetti ma scarsamente identitari.

Della biodinamica abbiamo parlato in precedenza, e del biologico abbiamo detto in apertura. Il tutto ricade nel grande cappello del “vino naturale”, locuzione abbastanza fumosa, perché pur non esistendo neppure una definizione “ufficiale” (anzi, per gli enotecari è persino pericoloso usare il termine), in Italia si contano ormai diverse (troppe) associazioni di produttori che ambiscono di potersi fregiare dell’espressione in voga. Andrea Scanzi, uno dei massimi osservatori del fenomeno, ha spiegato tutto con una frase: “i vinoveristi hanno più partiti che bottiglie. In confronto, la sinistra extraparlamentare è coesa”.
Se poi aggiungiamo che, in perfetto spirito italiano, spesso tra i vari consorzi e associazioni non corre buon sangue, si capisce quanto possa essere poco comprensibile la situazione per i consumatori.

Alla fine, il minimo denominatore comune è quello del massimo rispetto possibile della natura durante la coltivazione della vigna (no ai fitofarmaci ed ai concimi chimici, per esempio) e il rifuggire dalle pratiche spericolate in cantina (in sostanza, produzioni più tradizionali ma condotte con consapevolezza moderna, ad esempio con estremo rigore per igene e travasi, senza addizioni di sostanze magiche e senza interventi dell’enlogo-guru di turno).
Ne risultano vini certamente meno massificati nel gusto, non globalizzati nell’aspetto e all’olfatto, a volte magari più scorbutici, sicuramente di resa meno costante ma di certo più personali e unici.

Tutte cose ragionevoli, visto che oggi, al di là delle mode (che ieri imponevano il vino fruttatissimo o barricato e oggi dettano le nuove parole d’ordine di acidità e mineralità), è in atto un mutamento del gusto degli appassionati: data per scontata la qualità minima sindacale, il bevitore moderno cerca nel bicchiere una piccola avventura, la capacità di distinzione da altre mille bevute, l’identità di una zona di produzione, la personalità di un vignaiolo. Cose che un vino prodotto con tecniche modernamente standardizzate e con vitigni internazionali difficilmente si possono ottenere.

Certo, non sempre le cose vanno lisce, perché il rifiuto di tecniche ben consolidate porta talvolta (sempre meno spesso, per la verità) a bottiglie se non difettate, perlomeno borderline (in questi casi, si dice pietosamente “difficili da capire”).
La drastica diminuzione di questi incidenti va a tutto vantaggio del consumatore che può così accedere con una certa tranquillità a prodotti interessanti e piacevolmente diversi, più digeribili e prodotti nel rispetto dell’ambiente.

A parte quanto sopra, credo occorra fare la tara a tutte le istanze di naturalità ostentata, e ricordare che il vino è una manipolazione dell’uomo: resta scolpita nel granito la massima di Francesco Paolo Valentini, uno dei campioni della qualità del vino in Italia: “l’uva naturalmente diventa aceto, io sono un produttore di vini artigianali“.
Per parte mia, credo che al di là delle metodologie di produzione, il vino debba essere ben fatto e piacevole; certo, se il vignaiolo non ha usato solforosa e la bottiglia è fantastica, tanto meglio, ma un vino che puzza non ha giustificazione anche se prodotto con uve bio.

Chiudo esprimendo un certo fastidio perché al carro del fenomeno, creato e tirato da agricoltori coscienziosi, mi pare si stiano attaccando anche i personaggi che vedono solo una nuova opportunità di business: se tutto è “naturale” (e con una legislazione come quella riportata in apertura è proprio così), nulla lo è, se non i vini di quei vignaioli che credono davvero nella qualità del loro prodotto e nella salvaguardia del loro ambiente, e se ne infischiano delle certificazioni e dei bollini.

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L’oroscopo in vigna: biodinamica for dummies

Rudolf SteinerRudolf Steiner si è occupato di filosofia, di pedagogia, di esoterismo, di sociologia, di antropologia, di musicologia.
Rudolf Steiner è morto nel 1925.

Scrivo questi dati per ricordare a quale distanza socio-temporale facciamo riferimento quando parliamo di biodinamica: Rudolf Steiner è infatti l’ispiratore di questo metodo di coltivazione.
Un tempo nel quale, per fare alcuni esempi, Herry Ford aveva da poco inserito la catena di montaggio nel suo processo produttivo, il cinema diventava sonoro, nasceva il partito comunista cinese di Mao Tse-tung e Mussolini diventava capo del governo.
Un tempo in cui un uomo, Steiner appunto, poteva aver studiato matematica e fisica e poi diventare curatore delle opere di Goethe, credere alla reincarnazione, inventarsi una “arte del movimento” chiamata Euritimia, dirsi sicuro della vita su Saturno, formulare le basi di una medicina alternativa detta antroposofica.
Eccetera eccetera (tanti eccetera).
Per inciso, la medicina antroposofica (che ovviamente non ha alcun riconoscimento da parte della scienza medica) è una di quelle teorie squinternate che, per dirne una, cura il tumore con l’estratto di vischio…

Ora, il povero Steiner era uomo del suo tempo, sicuramente colto, ma dire che tante delle idee alla base delle sue teorie siano, al meglio, obsolete, se non del tutto prive di qualsiasi fondamento scientifico o del tutto strampalate dovrebbe essere una banalità. Invece…

Invece una delle parole d’ordine dell’enomondo attuale è “biodinamico”, un termine figo, quindi molto più voga dell’ormai assodato “biologico”. Peccato siano in pochi tra i consumatori a sapere davvero cosa ci sia dietro alla parolona magica.

Prima di procedere a spiegare, vorrei raccontare un aneddoto: lo scorso anno sono stato in Trentino a visitare un Noto Produttore biodinamico; grandi vini, ottima ospitalità, cantina meravigliosa.
Ad un certo punto vengo fatto entrare nella barricaia e c’è una musica accesa; l’addetto alle visite mi racconta che il suono e le vibrazioni accompagnano l’affinamento dei vini. Vabbè.
Poco dopo mi fanno notare con orgoglio che sui muri ci sono dei piccoli tubi: i cavi della corrente elettrica passano all’interno di questi e sono “annegati” in un gas inerte per minimizzare l’influsso dei campi elettromagnetici.
Vabbè.
Un istante dopo, non posso fare a meno di notare a pochi metri di distanza una antenna ripetitore per telefono DECT. Non vado oltre per non insultare l’intelligenza del lettore.

Dunque, cosa è la agricoltura biodinamica?
Brevemente e per accenni: un metodo di coltura “fondato sulla visione spirituale antroposofica del mondo”, in cui più ogni sostanza è diluita, più ha effetto sugli organismi con cui viene a contatto. Per migliorare la qualità del terreno vengono così creati dei “preparati” (in diluizione tale da, secondo le leggi della chimica, non aver più nessuna parentela con la sostanza di partenza) poi usati o per il compostaggio o spruzzati sulle piante, non prima però di essere stati conservati dentro a parti di corpi animali (es. corna svuotate di vacche che abbiano già partorito!).
Date le premesse non stupisce che si dia grande importanza alla astrologia (sì, proprio gli oroscopi), che si parli di “forze cosmiche e spirituali” e di “energia vitale” della materia.
Senza proseguire oltre, rimando chi volesse approfondire a questo bel articolo di Dario Bressanini.

Con questo non voglio demonizzare la agricoltura biodinamica: la sua ideazione precede lo sviluppo della agricoltura biologica e ne incorpora molti aspetti pregevoli, come ad esempio la pratica del sovescio e il non uso di fitofarmaci, fertilizzanti, erbicidi e pesticidi di sintesi.
Sono sicuro ci siano moltissimi vignaioli che abbracciano questa filosofia misticheggiante come estrema riverenza nei confronti della natura dei loro terreni, convinti di ottenere in questo modo prodotti migliori e più sani possibili, e sono anche convinto che ci riescano, visto che, in quanto veramente innamorati della campagna se ne occupano al meglio, con tutte le loro forze e la loro passione.
Sono sicuro che i risultati ci siano; altrettanto sicuramente si ottengono non grazie alla biodinamica, ma nonostante essa.

Infastidisce semmai che, accanto a bravi (e mi permetto, ingenui) contadini convinti della efficacia di questa stregoneria e ad altri più razionali (che dei suddetti esoterismi prendono razionalmente solo la piccola e parte sensata), ci sia chi usa il termine magico per farne un business, confidando nella impreparazione della massa, affascinata da una parola che suona più bio del biologico.

A tramutare la superstizione in affare ci sono di sicuro alcuni produttori pronti a seguire la moda del momento (ieri erano le barrique, dunque via di trucioli nel mosto e di “vino del falegname”, oggi tira “il naturale” e allora perché non sfoderare le corna di mucca?), ma non solo: Demeter, la associazione preposta a certificare i produttori biodinamici guarda caso, ha un tariffario per chi vuole fregiarsi del bollino…

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