Rivella, Langa d’antan

Come fai a non innamorarti dei vini di Teobaldo Rivella?
Sarà per quel nome di battesimo d’antan (che fa pari con quello impresso nella ragione sociale: “Serafino”), oppure per la calda e semplice accoglienza che ti riserva con la sorridente moglie Maria? O magari per il discorrere gentile ma schietto, lontano dal consueto birignao stipato di parole d’ordine di moda nell’eno-mondo?
Forse per tutti questi motivi e di sicuro per molti altri ancora, ma ridurre il gradimento ad una generica empatia per il produttore sarebbe ingiusto nei confronti dei prodotti della manualità e dell’ingegno di questo vignaiolo: i suoi Barbaresco Montestefano e Dolcetto.

Per ordine: dopo aver bevuto uno strepitoso Montestefano 2004 è arrivato il momento di far visita al signor Rivella: quale migliore occasione di andar per Langa di un torrido weekend di fine luglio, quando la mancanza di precipitazioni e le temperature africane stanno lasciando a secco mezza Italia e gli spostamenti automobilistici si trasformano in perenne ingorgo a passo d’uomo?

Tutto passa quando sali sulla collina che porta al Montestefano, una conca ripida, stipata di filari, su cui argine sorge la villetta dei Rivella, annunciato da una sobria targa di riconoscimento; neppure il tempo di trovare il campanello che il signor Teobaldo esce di casa e viene a salutare.

Ho già espresso i miei sentimenti sulle visite in cantina, spesso di una noia imbarazzante: del resto chi può sinceramente appassionarsi alla vista di una linea di imbottigliamento o ad una catasta di cartoni da sei bottiglie?
E del resto non sono tipo da illuminazioni mistiche al cospetto del produttore del vino del cuore: non amo i miti e considero le persone come tali, lavoratori che svolgono più o meno bene una professione e non guru cui abbeverarmi di saggezza. Se a questo si aggiunge che mi ammorbano mortalmente le discussioni su lieviti selezionati, dimensione delle botti e terroirismi vari, si capisce come forse farei meglio a starmene a casa invece di macinar chilometri per incontrare un vignaiolo.

Ci sono però dei casi in cui la visita si rivela piacevole e contribuisce al gradimento e all’approfondimento di un prodotto, ed è facile intuire che questo è stato uno di quelli.
Non serve mica niente di speciale, solo un uomo che ha voglia di sedersi a tavola con te e parlare e sorridere mentre si bevono assieme due bicchieri di vino, che sarebbe poi il motivo per qui questo liquido lo abbiamo inventato.
Certo, è utile se la persona in questione ha qualcosa da raccontare, oltre che le sterili questioni tecniche sulla annata siccitosa, i circa trenta giorni di macerazione sulle bucce del prodotto di punta, le vigne di cinquanta anni o (finalmente qualcuno che lo dice) l’importanza del fattore umano, dicesi “manico”, nell’equazione del terroir.

Quel qualcosa da raccontare, nel mio caso, è stato l’aggancio ideale con un altro di questi vignaioli a misura di visitatore, quel Flavio Roddolo di cui ho già avuto modo di raccontare. L’elemento che mi ha portato ad accostare due personaggi a prima vista diversi (uno nella zona del Barolo, barbuto e un po’ trasandato, solitario e a prima vista burbero, l’altro a Barbaresco, abbronzato e in forma, sposato e affabile) è il rapporto con il mondo esterno.
Entrambi non hanno un sito e neppure una mail, Teobaldo addirittura mi conferma che alcuni distributori stranieri tengono un fax solo per lui; per tutti e due si capisce che fare il contadino e seguire certi ritmi più che un lavoro è una esigenza di vita: quando chiedo a Rivella se negli anni ha auto la possibilità di espandersi oltre a suoi due ettari, mi risponde che occasioni ne ha avute eccome, ma che a lui piace curare tutto in prima persona e avere i sui tempi piuttosto che arricchirsi. Non manca una frecciata ad colleghi della zona che hanno fatto altre scelte, definite legittime, ma che che non possono più dirsi “artigiani”.

Proseguiamo scambiando qualche opinione sui ristoranti della zona (per la cronaca, mi raccomanda La Coccinella, Battaglino e L’antica Torre), sui vini francesi (ottimi ma cari, e i vini di Langa sono destinati a seguire lo stesso percorso) mentre finiamo i bicchieri.
Il Dolcetto (tipologia che frequento poco) mi sembra uno dei migliori mai bevuti: leggermente speziato, non aggressivo tannicamente e con un finale che nel giro di un paio di anni, quando raggiunge il suo apice gustativo, sfodera un finale gradevolmente mandorlato.
Il Barbaresco ha semplicemente un rapporto qualità-prezzo favoloso, ma è un ottimo vino tout-court, anche lasciando da parte la questione economica: nonostante la riottosità e l’irruenza del nebbiolo, già all’uscita sul mercato è gradevole perché amalgamato e non scomposto, se poi si ha la pazienza di attenderlo una decina di anni come ad esempio il 2004 di cui si diceva in apertura, si beve una bottiglia di vigore ma setosa, con tutte le sfaccettature del caso, dalla violetta al sottobosco.

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Chateauneuf du Pape 2013 – Chateau Maucoil

A Châteauneuf-du-Pape mi sono fermato solo alcune ore, due anni fa.
E’ una bella cittadina ricca di storia e atmosfera, e soprattutto sembra ancora viva, abitata da persone che lavorano sul posto, contrariamente a quel che accade a troppi borghi antichi somiglianti ormai ad un ibrido tra un museo, Eurodisney e un bazar di cianfrusaglie per turisti.
Ricordo di essere capitato nel paese una domenica mattina; appena sceso dall’auto mi sono imbattuto in un negozietto di vini e alimentari, titolare una vecchietta che stava in piedi a malapena ma che stappava bottiglie con vigoria, gestendo con una certa amabile rudezza una degustazione improvvisata con una decina di presenti. Per buon peso, accanto ai vini, un cestino di formaggi e salumi strepitosi.

Detto questo, della denominazione conosco troppo poco per fingermi esperto, anche perché ne vengo da anni di (stupida) fissazione sul monovitigno, e ovviamente la AOC in questione è una delle più incasinate per quel che riguarda l’assemblaggio: tradizionalmente erano ammessi tredici varietali, dal 2009 si è arrivati a ben diciotto.
Se a questo si aggiunge che la zona è altamente produttiva, che quando parliamo del CdP vinificato in rosso stiamo trattando di un vino che richiede lunghi se non lunghissimi invecchiamenti per esprimersi al meglio, e che i prezzi medi non sono propriamente abbordabili, si capisce come sia difficile per i non esperti come me farsi una idea significativa della Appellation.

Ad ogni modo, a volte è bello anche fare qualche tentativo non dico casuale, ma governato dall’istinto: è su queste basi che ho comperato dal solito Vinatis questa bottiglia del produttore Chateau Maucoil e la ho bevuta in fretta, senza dar retta alla ragione, che richiedeva di dimenticarla in cantina per un paio di lustri.
Si tratta del prodotto di base, vinificato con uve da vigne giovani e da terrendi differenti; l’assemblaggio vede la prevalenza di Grenache e poi Syrah, Mourvèdre e Cinsault.

Denominazione: AOC Chateneuf du Pape
Vino: Chateauneuf du Pape
Azienda: Chateau Maucoil
Anno: 2013
Prezzo: 27 euro

Bello alla vista: di un rubino non troppo denso, molto luminoso e ovviamente molto giovane; il mio occhio inesperto avrebbe giurato su una percentuale importante di syrah.
L’olfattivo è già adesso di gran complessità: lo spettro si estende dal vinoso del vino giovane, al rosmarino, alle spezie, fino all’ematico.

Lo ribadisco: di fatto è un vino ancora giovane, lo dimostra l’ingresso in bocca di grande freschezza, ma è anche vero che il sorso regala con intensità netti sentori di frutta rossa matura e un tannino delicatissimo.
Il corpo è medio e la lunghezza è di livello; l’alto grado alcolico (14,5) è ben poco avvertibile.

Bel vino, molto bevibile nonostante la potenza e, ovviamente, dotato di notevole potenziale di invecchiamento

Il bello: Godibilissimo già da subito, grandi possibilità di evoluzione

Il meno bello: nulla da segnalare

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