Cheese 2015: e infatti ci siamo rivisti…

“Temo che ci rivedremo nel 2015”: così concludevo il mio piccolo sfogo di due anni fa a proposito di Cheese.
E’ lampante, già lo sapevo che nonostante tutte le mie riserve sulle orde di visitatori poco accorti, sui magheggi di marketing di Slow Food, sulla assurdità delle olive ascolane e della piadina romagnola accanto ai presidi africani, a Bra ci sarei tornato nel 2015.

cheese 2015E infatti eccomi qui, a raccontare le solite cose e a commentare le medesime immagini; certo, la minestra la si può condire con qualche nuovo aneddoto come quello del gruppo di romani: uno di loro fende la calca per inforcare finalmente una briciola di Stilton, la divora, ne agguanta un altro pezzetto e lo porge ad uno dei compari, urlando: “Aoh, senti che bono”. Risposta dal fondo: “No, no, io mica me fido a magnà stà robba”. E qui sarebbe più dignitoso chiudere, ma non posso non ricordare che, stavolta, c’erano anche i furgoni dello street food.
Ci si domanda che ci azzecchino con i formaggi, e pazienza, ma un minimo di controllo su cosa debba essere uno street food ci vorrebbe, ad esempio un cartoccio con alcune (poche) polpettine di carne appena dignitose, venduto a 7 euro di sicuro non lo è.

Chiudo con la mia piccola guida per la sopravvivenza a Cheese 2017:

  • se possibile, vai al venerdì (lo so, idea originale…)
  • se, come per me, il venerdì ti è impossibile, perlomeno arriva al mattino presto. I banchi aprono alle 10, entro le 9.30 si riesce a parcheggiare quasi in città, evitando l’autobus
  • prepara prima una lista di cose che vuoi assaggiare e che ti interessa approfondire e più o meno attieniti a quella, perlomeno per le prime due ore, le uniche nelle quali la folla non è ancora a livelli da prima fila nel prato durante il concerto di Jovanotti. Il cazzeggio indiscriminato ai banchi lascialo per dopo
  • evita di metterti in coda per qualsiasi cibo dopo le 12. Mangia prima o moooolto dopo
  • ricorda che puoi entrare in macelleria, comperare un metro di salsiccia di Bra, poi andare dal panettiere all’angolo e farti un panino gourmet ad un terzo del prezzo richiesto agli stand
  • porta uno zainetto per mettere gli acquisti; riempilo a casa con una bottiglia d’acqua (ho detto bottiglia, non bottiglietta)
  • in ogni caso, alle 15 sbaracca: hai mangiato e bevuto come un orso, hai camminato e sgomitato per ore, inutile proseguire

p.s. menzione doverosa per lo stand di Ales and Co: ho bevuto diverse birre, tutte di ottimo livello, ma in particolare una Mosaic di The Kernel strepitosa per quanto era fresca e fragrante.

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Champagne Brut Le Mont Aigu, Jack Legras

Con questa bottiglia termino una interessante carrellata di champagne di piccoli produttori acquistata da L’Etiquette, e prima di parlare del vino, mi concedo una breve considerazione sull’esperienza: ho comperato sei prodotti di cinque diversi recoltant, tutti  a me sconosciuti, con l’unica accortezza di “pescare” bottiglie referenziate come Gran Cru (una scelta piuttosto banale e, se vogliamo, provinciale, ma in mancanza di altre indicazioni ho perlomeno avuto la certezza di portare a casa vinificazioni ottenute da uve maturate in zone di prestigio).

In sintesi, non posso che dirmi felice e stupito dell’esperienza: ad un prezzo per ciascuna bottiglia compreso tra i 23 e i 26 euro (iva esclusa, trasporto escluso: l’ideale è fare a mezzo con uno o due amici, in modo da diluire le spese che comunque non sono particolarmente onerose) è corrisposta una qualità media ben più che soddisfacente. Alcune bottiglie ottime, alcune buone e nessuna meno che discreta, e se certe volte i miei giudizi sono sembrati non entusiasti è solo perché la denominazione Champagne e la qualificazione Grand Cru (e i relativi comuni di provenienza) sono talmente mitizzati da costringere ad aspettative altissime.
La mia conclusione è che almeno i tre quarti di questi prodotti assaggiati sono stati nettamente superiori a tutti i metodo classico italiani appartenenti alla medesima fascia di prezzo da me conosciuti… Direi un bel risultato per una scelta sostanzialmente casuale!
Unici problemi, la scarsissima se non nulla reperibilità e (temo) una certa incostanza qualitativa: dopo ogni bevuta ho provato a spulciare internet per avere riscontri alle mie sensazioni e qualche volta ho registrato giudizi piuttosto differenti.

Le bottiglie precedenti:

Brut Grand Cru Cuvèe Prestige, Savès

Champagne 100% Pinot Noir Brut Grand Cru, Guy Thibaut

Champagne Grand Cru Cuvée Marie Catherine Extra Brut, Francois Billion

Champagne Grand Cru Carte d’Or, Camille Saves

Champagne Grand Cru Cuvée 555, Voirin-Jumel


 

L’azienda Jack Legras è situata in pena Cote de Blancs, possiede 2,4 ettari e produce appena 28000 bottiglie per anno.
La cuvée più importante è questo “Le Mont Aigu”, chardonnay al 100% da una unica parcella (per tre quarti vino dell’anno e il rimanente da riserva), fermentato e vinificato in acciaio, usando lieviti selezionati e svolgimento della malolattica. L’affinamento è di 24 mesi sui lieviti e il dosaggio è di 4 g/l

legrasDenominazione: Champagne
Vino: Le Mont Aigu Brut Grand Cru
Azienda: Jack Legras
Anno: –
Prezzo: 25 euro

Colore molto brillante e bolle tra le più sottili, continue e morbide mai viste e assaggiate; l’olfattivo è delicatissimo, di pasticceria, fiori bianchi e con ricordi di gesso. Elegante.

La bevuta mi regala uno champagne strano: rilevo una acidità decisa ma composta, forse più salino che acido, e una netta ambivalenza gustativa, quasi due facce, che vanno da un ingresso in bocca piuttosto timido, estremamente garbato e in punta di piedi, fino a poi prendere vita se si ha la pazienza di protrarre la permanenza nel cavo orale.
L’apertura è coerente con il naso ma dopo qualche istante in bocca ingrana la marcia della pienezza, aggiungendo agrume e zafferano e distanziandosi dai riconoscimenti olfattivi.

Certo, resta così delicato (e non particolarmente lungo) da essere raccomandato come aperitivo, coi cibi si perde un po’, ed è un peccato.

Il bello: finissimo, leggero, delicato, bevibile
Il meno bello: manca un po di carattere

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Brut Grand Cru Cuvèe Prestige, Savès

Penultima bottiglia della ormai famosa cassa ordinata da L’Etiquette, e seconda bottiglia (diversa) per il produttore Camille Saves: la volta precedente si trattava del Grand Cru Carte d’Or, stavolta del Brut Cuvèe Prestige (sempre Grand Cru); rimando al primo post per le note sul produttore.

camille-saves-prestige_1393700939Denominazione: Champagne
Vino: Brut Grand Cru Cuvèe Prestige
Azienda: Camille Saves
Anno: –
Prezzo: 25 euro

Si tratta di una cuvèe ottenuta al 65% da Chardonnay Bouzy e 35% Pinot Nero, tutti provenienti da Bouzy.
Il vino fermenta senza uso di lieviti selezionati, per fermentazione e affinamento (ben 57 mesi sui lieviti) vengono utilizzati contenitori in acciaio, la malolattica non viene svolta ed il dosaggio è di 9 gr/l.

La trasparenza è paglierina pallida, solcata da bolle sottili che poi in bocca si riveleranno un filo aggressive, mentre lo spettro olfattivo è piuttosto limitato: accenni di fieno, agrume e un lontano ricordo di noce.

L’assaggio regala grande acidità ma poca complessità e limitati sono anche calore, corpo e lunghezza.
Ne risulta un sorso gradevole ma nulla più, nel quale la grande verticalità non è sorretta da una adeguata spalla gustativa.

Forse è un vino non del tutto completo, ancora in divenire, per ora di certo gradevole come semplice aperitivo ma nulla più, quindi tutto sommato un po’ deludente; di sicuro è notevolmente inferiore al “fratello” Carte d’Or

Il bello: grande freschezza
Il meno bello: troppo semplice

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Champagne 100% Pinot Noir Brut Grand Cru, Guy Thibaut

Ennesimo Grand Gru dalla cassa di cui ho già parlato. Stavolta la bottiglia è di Guy Thibaut, un piccolo produttore (due soli ettari) di Verzenay, uno dei villaggi fondamentali della zona della Montagne de Reims, particolarmente vocata al pinot nero

Il sito è particolarmente parco di informazioni al riguardo di questa cuvée, se non che è stata elaborata con la migliore selezione aziendale di uve pinot nero, fermentate in acciaio grazie a lieviti selezionati e poi fatta affinare per 24 mesi in acciaio e legno.
La malolattica viene svolta e vengono aggiunti 6 grammi/litro di dosaggio; la produzione è irrisoria: appena 1000 bottiglie l’anno.

guyDenominazione: Champagne
Vino: Pinot Noir Brut Grand Cru
Azienda: Guy Thibaut
Anno: –
Prezzo: 21 euro

Nel bicchiere è di un bel paglierino carico, quasi dorato, e il primo impatto olfattivo è di burro e zucchero a velo, poi frutta di bosco ed erbaceo, nel complesso molto morbido, delicato e aggraziato.
Altrettanto “ruffiano” l’ingresso in bocca, che ruota attorno ad una carbonica gentile e a poco calore, per poi rivelare solo in seguito la freschezza necessaria, che resta sui lati della bocca senza aggredire.

Il corpo è pieno ma non robusto (non lo direi un pinot nero in purezza, non ne avverto la prepotenza espressiva), il vino ha buona lunghezza e l’assaggio è divertente grazie alle interessanti sfaccettature e profondità dei sapori, persino lievemente aromatici; certo, tra le maglie compare qualche morbidezza piaciona, ma in realtà il dosaggio non risulta mai invadente e soprattutto domina il grandissimo equilibrio; non avverto nessun finale ammandorlato, a differenza di quanto riscontrato da alcuni recensori su internet: la bevibilita è assassina.

Il bello: bevibilissimo, elegante, divertente
Il meno bello: forse manca appena un pizzico di acidità: reperibilità irrisoria

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Il business della poesia

Non smette di ronzarmi nelle orecchie l’ultima frase di questo bel articolo del Newyorker sul modo di comunicare il vino: “At the end of the day, we’re selling poetry”. Che è poi un modo elegante e altisonante per raccontare il fallimento della presunzione di oggettività della degustazione.

Nel post si mette in luce la mutazione della descrizione dello stesso vino (Château Haut-Brion) da parte del noto critico James Suckling: da una singola, semplice frase (quando effettuata nel 1992) a ben sette frasi, intricate di richiami al tabacco, cioccolato al latte e cedro, nel 2009.
L’esempio è esemplificativo di un trend: in realtà le note di degustazione immaginifiche sono una invenzione relativamente moderna: ai tempi di Roma e antica Grecia e fino al diciannovesimo secolo ci si limitava a vergare dei giudizi di valore sul vino, tralasciando quasi completamente la descrizione organolettica.

Il lessico della moderna critica enologica è stato recentemente influenzato in maniera determinante da Ann Noble, chimica sensoriale presso il Department of Viticulture and Enology della Università di Davis California, che nel 1984 pubblicò la “Ruota dei sapori”, una rappresentazione circolare di descrittori, organizzati in categorie, da utilizzare nel raccontare gli aromi del vino (per la cronaca, il termine “minerale” non era presente).

L’intento della Noble era proprio quello di incoraggiare l’uso di termini specifici ed analitici e di fornire un lessico comune, ma dopo decenni possiamo concordare che lo sforzo non ha sortito gli effetti sperati: le descrizioni di un vino sono quasi sempre cariche di riferimenti non tanto ai “gusti” del prodotto, quanto ad elementi che nella nostra immaginazione individuale sembrano bene adattarsi a lui. Non solo: una ricerca dimostra che i vini più costosi ottengono quasi sempre narrazioni ricche di descrittori più specifici e di termini più pomposi a parità di significato.

La Guild of Sommeliers ha pubblicato un lavoro con il quale si suggerisce di utilizzare il nome dei composti chimici responsabili dei particolari odori del vino, quindi ecco “pirazine” e “tioli” al posto di “erbaceo” e “frutto della passione”.
Tentativo interessantissimo, ma lo stesso redattore della pubblicazione è ben
consapevole che questa metodologia toglie gran parte della poesia alle descrizioni, poesia che è poi uno dei principali veicoli commerciali del vino: “At the end of the day, we’re selling poetry.”

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