Ri-tentar non nuoce: torna un festival birrario a Genova

Francamente non avrei mai pensato che qualcuno avrebbe mai avuto il coraggio di ritentare: dopo il flop storico del IBF Genova (e il mezzo flop di Birre al Parco) torna un festival di birra in città.

Non contando le varie manifestazioni organizzate (male) da distributori e locali, ormai da anni la scena birraria genovese ha subito varie fasi di trasformazioni; si partiva da basi pionieristiche magari piccole ma solide: la presenza in città di un comunicatore di eccezione come Kuaska, l’apporto fondamentale della Compagnia della Birra, che con Massimo Versaci (poi creatore di Maltus Faber) organizzava i primi viaggi in Belgio, i contributi di storici homebrewer (Max Faraggi, Mauro Queirolo), tre locali che in tempi non sospetti investivano in qualità (Irish pub, O’Connor, Pub del Duca)…

Ad un certo punto qualcosa si è arenato: Kuaska ha iniziato a gravitare sempre meno su Genova, i locali storici hanno cambiato in parte gestione e ad organizzare meno serate a tema, la birra “artigianale” (termine che non vuol dire nulla e che odio di cuore) è diventata mainstream e si è insinuata in qualche ristorante, bar ed enoteca insospettabile.
Insomma, da provinciale che non ha mai frequentato granché “il giro giusto” ho notato comunque un raffreddamento dello spirito “di frontiera” che aveva animato i primi tempi.

Da qualche tempo, una nuova fiammata: hanno aperto alcuni nuovi locali dedicati al mondo della birra, sta per iniziare un corso sulle birre acide e mi pare di capire che questi tizi di Papille Clandestine si siano appassionati al tema.

Stiamo a vedere che succede: intanto i nomi annunciati al Genova Beer Festival sono di buon livello e la formula del gettone ad un euro per 10cc è quella che preferisco (in realtà speravo anche in un carnet da 10 assaggi con un po’ di sconto ma non si può aver tutto…).

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Slow Fish, Big Cash

Cinque Euro per un calice di Berlucchi, non ho altro da aggiungere Vostro Onore!

Certo, come dice il sito “per partecipare a Slow Fish non occorre acquistare un biglietto, l’ingresso è gratuito!”, e ci mancherebbe: hai diritto di aggirarti gratuitamente fra i food-truck che friggono le acciughe e i tendoni che propongono birra (ovviamente entrambi a pagamento), hai facoltà di bighellonare tra stand che ad esempio offrono due-pezzetti-di-pane-due con sopra un pezzetto di palamita a soli due euro. Eccetera.

sf1Va bene, ci sono i dibbbbattiti e le lezioni e gli slogan roboanti su “Cambiamo rotta per salvare il mare e nutrire il pianeta”, ma se a questi accosti i 5 euro (più due sf2per il prestigioso micro-calice e relativa elegantissima tasca portabicchiere) per sorseggiare un Franciacorta in piedi, senza lo straccio di un grissino, permetti che mi sento un po’  preso per il culo?

Ma mica è finita: per degustare il sushi letterario dello chef ospite Moreno Cedroni venno via 120 Euro, quando  invece lo stesso (o perlomeno analogo) menu, nel suo ristorante di Portonovo lo paghi 85 carte (ah, certo, a Genova ci sono in accompagnamento i vini di Guido Berlucchi…).

Dirai che la qualità si paga, tanto più se te la portano sotto casa, ma si dà il caso che a me la sorte degli stand abbia riservato un arancino inspido, una linguna salatissima e una tiella ustionante fuori però ancora congelata dentro. Tutto a pagamento, s’intende, e tutto a seguito di doverosa coda chilometrica. D’altronde siamo “slow” o no?

Chiuderei parlando della partecipazione: una la folla debordante ed ignara dei buoni propositi relativi al risanamento degli oceani, che che si avventa per un granello di formaggio o una crosta di pane e olio in assaggio, per poi, rigorosamente dotata di portafoglio in mano, dilettarsi in attese e spintoni al fine di accaparrarsi il diritto ad uno spiedino da rosicchiare appoggiati ad un palo della luce, con i piedi pestati dai tizi in coda per la birra.

Agli amici di Slow Food vien da chiedere se forse una manifestazione con un (modesto) biglietto di ingresso per selezionare il pubblico realmente interessato, qualche espositore francamente inutile in meno e un minimo di controllo su prezzi e qualità dei prodotti in vendita, non potrebbe essere più rispettosa delle sbandierate intenzioni rispetto a questa sorta di sagra della salsiccia (o meglio, del gambero)…

Temo mi si possa rispondere che espositori e organizzatori sono, giustamente, felici così: Slow Fish, Big Cash.

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La Voglia Matta, Genova

A volte sospendi il giudizio, perché è chiaro che non sarebbe corretto: è quello che mi è successo la prima volta che ho mangiato a La Voglia Matta, a Genova Voltri.
Era lo scorso anno, a pranzo, ed è stato chiaro fin da subito che si trattava della classica giornata storta, partita male fin da subito con il calice offerto che aveva qualche difetto e poi proseguita sulla falsariga di una medietà poco rilevante.

logoCi sono tornato, e posso dire di essere contento di essermi astenuto, ché la cena non è stata affatto disprezzabile.
Andiamo per ordine: sul posto (la famigerata “location”) c’è poco da dire, è un vicolo ben poco significativo di una zona di Genova un tempo sicuramente meravigliosa ma adesso massacrata dal porto, dall’incuria, dai cavalcavia della autostrada… Per fortuna è meglio l’interno, piuttosto curato, con qualche spunto di colorata fantasia mai troppo sopra le righe. Unici difetti: le luci poco calibrate e l’acustica: quando il locale (comunque diviso in due sale non enormi) si riempie, il rumore è fastidioso.

La proposta culinaria (che presenta chiaramente qualche velleità di innovazione) si basa principalmente sul pesce e si articola in maniera interessante in una bella selezione alla carta e in diversi menu degustazione, che a me piacciono perché permettono di assaggiare più piatti seguendo un percorso coerente deciso dallo chef.
Bella la carta dei vini, che evita di affogare in un mare di referenze e di annoiare con le solite etichette ben note, esibendo un ricarico corretto.
Proprio sui vini ho un appunto: ho scelto uno Chenin Blanc della Loira che non conoscevo. Ora, lo so che lo chenin blanc è versatile e si può trovare fermo, spumantizzato, dolce eccetera, ma se in carta non c’è  nessuna indicazione al riguardo, e la persona cui lo ordino non dice nulla, e io sto scegliendo un vino a tutto pasto, mi aspetto si tratti di un vino secco. Non è stato così, e ho ricevuto un (ottimo) vino dolce… Bastava una domanda: “E’ un vino dolce, è sicuro di quello che ha scelto?”.

Decido per un menu basato sul pesce povero e inizia la cena: buoni il pane e i grissini preparati sul posto e ottimo il prosecco colfondo offerto (chi ha versato ha omesso il nome del produttore, purtroppo).
Non mi dilungo sui singoli piatti, trovo non abbia molto senso. Di certo si avverte la volontà di proporre qualcosa di diverso, di rispettare la materia prima (che mi è sembrata di livello) e di lavorare con passione; altrettanto certamente si avverte in maniera trasversale a quasi tutte le portate la mancanza di un piccolo spunto in più, sia esso un pizzico di sale, un giro di pepe, un giro d’olio, una grattata di zenzero… insomma, di un piccolo spunto a completare un piatto comunque ben fatto, tanto più se la base è appunto “povera” e, immagino per questioni di pescato, sei costretto ad usare lo sgombro in più di un piatto.
Unica preparazione completamente sbilanciata è stato lo sgombro marinato nell’aceto: l’aceto copriva in maniera assoluta il pesce, annullandone ogni aromaticità; notevoli invece il carpaccio e il tataki. Non amo particolarmente i dolci, ma ho trovato gradevolissimi sia il biancomangiare alle mandorle che il millefoglie, nessuno dei due stucchevole.

Il servizio è stato cortese e professionale, e il conto sicuramente correttissimo. Da rivedere i tempi di preparazione: sono entrato alle 20 in punto e sono uscito dopo altre due ore e mezza, decisamente troppo.
Trovo qualche analogia con uno dei miei ristoranti preferiti a Genova, Voltalacarta: stessa volontà di ricerca, stessi mezzi un po’ risicati e medesima attenzione al prezzo finale. In questo caso decisamente meglio la carta dei vini, ma un punticino in meno alle portate, proprio a causa di quella mancanza di spunto di cui ho scritto più sopra.

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Festival Franciacorta Genova 2014

FranciacortaAll’ingresso ti danno il libricino, che oltre a tutti i dati sul Franciacorta, dagli uvaggi, al metodo di produzione, passando per tipologie e modi di consumo, riserva una pagina per ciascuno dei 32 produttori, divisa equamente a metà per ognuno dei due vini in degustazione, con nome, millesimo e uvaggio e lo spazio per annotare le impressioni.

Ecco, quello che più colpisce del Festival Franciacorta (alla sua prima edizione a Genova) è la cura nei dettagli: quella sopra raccontata è una comodità impagabile nelle sessioni di degustazione delle varie manifestazioni, occasioni in cui hai il bicchiere in una mano, la giacca nell’altra, qualche depliant sotto l’ascella, la penna dietro l’orecchio eccetera, e per prendere un appunto devi fare i contorsionismi da fachiro indiano alcolizzato.

Le altre carinerie nei confronti dei visitatori vanno dalla brochure in formato sia cartaceo che elettronico (su chiavetta usb), al gadget portachiavi, dalla location spaziosa e luminosa (i Magazzini del Cotone presso il Porto Antico, dove si svolge solitamente anche Terroir Vino) al catering semplice ma appetitoso, dalla ricca fornitura di acqua in bottigliette ai banchi di assaggio ciascuno con la presenza del produttore e di un sommelier qualificato con tanto di termometro per verificare la temperatura di servizio.
Difficile chiedere di meglio per 15 euro di ingresso (10 per i soci AIS, Fisar, ONAV ecc.)! Il confronto con la mia visita a Vinum di pochi giorni prima è davvero impietoso…

Franciacorta

Per un appassionato di bollicine come il sottoscritto è stato un pomeriggio di festa più che di analisi degustative, inoltre, giocando in casa, ho avuto modo di incontrare tanti volti noti, sia tra il pubblico che tra i colleghi sommelier al servizio; mi limito a qualche nota veloce e sparsa sulle cose più interessanti.
Non posso non iniziare da Bersi Serlini: la signora Chiara mi ha accolto come sempre in maniera splendida e mi ha fatto assaggiare un nuovo prodotto che ho gradito molto per freschezza, vivacità o originalità: il Brut Anteprima, dalla vivacità spiccata declinata in una mela verde croccantissima. Un bidone intero per l’estate, please.

Sarebbe facile parlare bene dell’Annamaria Clementi Riserva 2005 di Cà del Bosco, così come del Pas Operè 2007 di Bellavista, ma anche inutile, vista la fama.
Preferisco quindi spendere due righe per qualche outsider (perlomeno per me) come Chiara Ziliani, che sia nel Brut che nel Saten mostrava due vini con piacevoli ed intensi accenti di lievito, il Rosé di Cortebianca, strutturato e selvatico, la delicatezza floreale del Saten 2010 de Il Mosnel, la personalità e la buona persistenza del Demetra Brut di Mirabella, la unicità dei sentori di pesca bianca del Saten di Montenisa, la verticalità carica e decisa del Brut 2009 di Vezzoli.

Piccole delusioni: Uberti, con qualche sentore scomposto sia nel Brut Francesco I che nel Comari del Salem, e Monterossa, che mi è sembrato un po’ grossolano in entrambi i vini. Spero di cambiare le mie impressioni con un prossimo assaggio.

Impressioni finali: buona qualità media, un po’ troppi vini certamente ben fatti ma senza una personalità spiccata, ma c’erano 62 prodotti in degustazione e di certo un non esperto come il sottoscritto a metà batteria inizia a perdere le capacità palatali e un po’ di concentrazione.

Che dire, se non i complimenti per la superba organizzazione e la speranza di rivedere il Festival Franciacorta dalle mie parti anche il prossimo anno (o anche prima: non mettiamo limiti alla provvidenza). Se la manifestazione fa tappa dalle vostre parti, non fatevi sfuggire l’occasione.

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Cosa mi combini, Oscar! E, in appendice, la cena al ristorante “Il Marin”

Per sgomberare il campo da equivoci dichiaro subito che ritengo Natale Farinetti detto Oscar un grande imprenditore, una risorsa per l’Italia, uno che vede lontano (sganciarsi dal settore dell’elettronica di consumo per inserirsi in quello del cibo e delle bevande di alta qualità è forse ovvio oggi ma di certo non lo era quando lo ha fatto lui).

logo-eataly1Ciò detto, ho molte riserve sul piccolo (ma neanche tanto) impero Eataly: a prescindere dallo sfavorevole rapporto qualità/prezzo dei “ristorantini”, non è bellissimo trovare in vendita accanto allo slogan degli “Alti cibi”, sotto il cappello filosofico di “sostenibilità, responsabilità e condivisione” e della “possibilità di offrire a un pubblico ampio cibi di alta qualità a prezzi sostenibili”, prodotti quantomeno discutibili (es. il pesto senza aglio, la birra Peroni, la pasta Barilla sugli scaffali di Eataly New York, tutta la pletora di creme e cremine per viso e corpo vendute a prezzi da strabuzzo degli occhi, eccetera), ma capisco che il supermercato occorre riempirlo e che i margini di profitto abbiano le loro esigenze, quindi non mi scandalizzo di certo.

Vado oltre: pur non piacendomi per nulla, accetto persino il voler spostare l’asticella del (legittimo) marketing sul piano etico, ma quando si arriva a certi eccessi retorici non può non scapparmi una risata.
La prima volta in cui avevo percepito chiaramente l’abbattimento del muro del ridicolo era stata quando Oscar, in combutta con Illy, aveva risolto in pochi decisionisti istanti il problema previdenziale che attanaglia il Belpaese; l’ultima volta nei giorni scorsi, quando ho ricevuto una mail di Eataly.
Apro la mail e mi accoglie una foto di Obama e Putin che si stringono la mano; istanti di smarrimento (“che c’azzeccano i presidenti col supermercato”), poi gli occhi scivolano sull’oggetto del messaggio: “Noi di Eataly vi invitiamo a pranzo” per poi scendere sul delirante testo: “… noi la pensiamo come il Papa: la guerra è sconfitta dell’umanità. Lui giustamente propone il digiuno come preghiera del corpo contro la guerra. Noi di Eataly ammiriamo questo gesto potente che unisce i religiosi di tutto il mondo con i laici che ripudiano la guerra. Vogliamo però aggiungere che il mangiare insieme può rappresentare un altro valore forte, rivolto alla convivialità e al superamento dei conflitti. Ci piace immaginare di poter invitare Putin e Obama ad un pranzo qui da noi, dove di fronte ad ottimo cibo i due possano trovare il modo di parlarsi”.
Sono senza parole! Immagino che al prossimo giro Oscar, per vendermi un vasetto di marmellata, si attrezzi a risolvere la questione palestinese, oppure chissà metta mano al problema  mediorientale per farmi iscrivere ad uno dei suoi corsi di cucina…

A margine, una doverosa appendice sul ristorante “vero” di Eataly Genova, Il Marin.
C’ero stato la prima volta a Febbraio, sono tornato la settimana scorsa, e per quel che mi riguarda in entrambi i casi ho trovato la migliore cucina di Genova, by far.

Certo, restano alcuni limiti strutturali (l’arredamento discutibile, l’ingresso che costringe all’attraversamento del supermercato, i tavoli “di design” senza tovaglie), ma altri sono stati superati (maggiore professionalità al servizio, con una ottima direttrice di sala).
Odio prendere appunti o scattare foto quando ceno, quindi vi beccate qualche ricordo confuso, anche perché non posso aiutarmi con il menu pubblicato sul sito, che non è per nulla aggiornato (dai Oscar! Questo è da correggere immediatamente): pregevole cortesia sia in fase di prenotazione che all’arrivo sulla scelta del tavolo all’esterno o all’interno, encomiabile l’aperitivo realmente offerto e non aggiunto al conto, molto bene i tempi di servizio (io ho preso un menu degustazione da varie portate, chi era con me solo due piatti più dolce, e comunque c’è stata armonia e nessuna attesa eccessiva), bella la presentazione al tavolo del carrello del pescato del giorno.
I piatti che ho apprezzato maggiormente: le acciughe fritte ripiene offerte a inizio pranzo, ottimo l’antipasto di crudi di mare, strepitosi gli spaghettoni alle sarde.

Qualche appunto negativo: servire a Genova una focaccia non perfetta è un vero delitto, e quella dell’altra sera era da galera diretta senza passare per il via, per tenere in fresco la bottiglia sarebbe meglio attenersi alle tradizionali glacette e buttare quelle buste in plastica semirigida che fanno temere il rovesciamento da un momento all’altro, il preantipasto di centrifugato di melone è abbastanza scoordinato e la piccola pasticceria post-dolce decisamente non al livello del resto della cena. Sala un po’ rumorosa.

Ma sono dettagli, in generale le portate sono felici, con cotture chirurgiche, dosi adeguate e impiattamenti perfetti; la carta dei vini è discreta e ha ricarichi umani, il personale cortese e competente, i tavolini sono ben distanziati, la cucina a vista è piacevole e il panorama sul porto è ovviamente meraviglioso.
Da ultimo, ma non per ultimo, il conto non è basso ma del tutto giustificato da quanto raccontato sopra.

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Eataly Genova: in picchiata (verso il mare?)

eataly

L’immagine che si fissa subito in mente quando si sale per la prima volta da Eataly Genova è la straordinaria veduta del porto che si gode nei pochi secondi di ascensore in vetro panoramico necessari ad arrivare all’ingresso: una ascesa sul mare e le navi, magari al tramonto, decisamente invitante e poetica.

Quanto sopra era accaduto alla mia prima visita, poco dopo l’apertura, e resta vero anche adesso. Peccato invece che le perplessità iniziali non si siano dissolte, anzi, se ne siano aggiunte di nuove.

eatalyPremesso che questo inverno ho avuto forse la migliore cena dell’anno proprio al Marin, il ristorante “serio” di Eataly (e, causa pigrizia, ho colpevolmente omesso di scriverne), e permesso che il costo di un pasto al Marin non è banale, capita che talvolta ci scappi un piatto in uno dei cosiddetti “ristorantini tematici”.

Se la prima volta che sono stato da Eataly avevo trovato il personale non all’altezza delle pretese di qualità del luogo e ne davo la colpa alla recente apertura, alla sempre troppo citata “necessità di rodaggio”, a questo punto non è più possibile nascondersi dietro ad un dito: nei famigerati “ristorantini” i ragazzi che servono e che prendono le ordinazioni non sono adeguatamente istruiti.

Già devi sorbirti di fare l’ordinazione in maniera più abominevole che alle sagre di paese: ti ammazzi per trovare un tavolo libero (che è piccolo, troppo: con due piatti, due calici, il pane, olio e pepe hai tutto in un equilibrio precario come la salute di coloro che guardano la tv pomeridiana), lo occupi mandando uno solo del gruppo a far la fila a più di una cassa (non puoi ordinare il pesce dove fanno la carne ecc.)…
Se aggiungi che la ragazza cui detti la comanda non conosce i vini che ha in carta e devi farle vedere quello che ordini puntando il dito sul menu altrimenti ti guarda attonita, se prosegui che comunque ti portano il vino sbagliato, che dimenticano di portarti il pane, che la mozzarella di bufala (indicata in carta “con olio extravergine di oliva e sale”) è appunto senza olio e sale ed è ghiacciata dentro e che quando fai presente che mancano i condimenti ti rispondono che “Facciamo così, in modo che il cliente possa scegliere”….
Se aggiungi che naturalmente pochi dei ragazzi parlano le lingue, e di conseguenza ho visto discussioni banalmente risolvibili in un battito di ciglia degenerare in infinite, esilaranti pantomime degne di un film di Totò, ecco, se assieme a tutte queste cose aggiungi i prezzi da oreficeria e il fatto che la decantata qualità ormai prevede ad esempio la vendita di articoli di pregio come la birra Peroni, ecco che all’uscita, durante la meravigliosa discesa in ascensore, in picchiata verso il blu del mare incendiato dal rosso del sole, qualche dubbio di essere preso per il culo inizia ad invaderti prepotentemente.

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Birre USA all’Irish Pub

L’Irish di Genova Quinto è un pub storico del capoluogo ligure, uno dei primi che in tempi remoti (quando l’interesse per le birre di qualità era affare da “pionieri”), ha avuto in carta un numero considerevole di etichette di rilievo.

Da molto non frequentavo il locale, a causa di una serata abbastanza infelice: non tanto per il cibo, che all’Irish è sempre stato un po’ così (del resto trattasi appunto di “pub”, non certo di ristorante), ma soprattutto perché avevo trovato la selezione delle bottiglie abbastanza sguarnita e un paio di spine non proprio in forma, anzi…

Una serata a tema, incentrata sulle birre USA e condotta dal solito Kuaska (potenzialmente molto interessante, visto che in zona le produzioni birrarie indipendenti americane sono poco reperibili) mi ha dato modo di rimetterci piede.

Irish Birre USA

L’ambiente è sempre lo stesso, nel  bene e nel male: rustico e caldo, un bel pub, con tavolini troppo piccoli e panche per sedersi. Spine non male, una decina mi pare: ricordo un paio di tedesche, un paio di Brewdog,  una Brewfist, una Chimay. Colpevolmente, non ho consultato la carta delle bottiglie.

Tema della cena: birre e cibo USA, ecco i dettagli:
– Pancake alla birra con pancetta con “Morimoto Imperial Pils”, Rogue Ales, Newport (Oregon)
– Cheddar Soup con “Red Giant”,  Element Brewing Company, Millers Falls (Massachussets)
– Quaglia al forno con salsa agrodolce (panna, funghi e marmellata di ciliegie) con “Shakespeare Oatmeal Stout”, Rogue Ales, Newport (Oregon)
– Peanuts Butter Cake con “Bam Biere”, Jolly Pumpkin Artisan Ale, Dexter (Michigan)

Considerazioni: la qualità delle portate è sempre quella… direi che in questo senso l’Irish è un locale irrisolto, nasce come pub e immagino abbia competenze culinarie adeguate a quel ruolo; quando tenta qualcosa in più non riesce del tutto.
Nella fattispecie, i pancake erano freddi (per fortuna non la pancetta), la zuppa non male, le quaglie senza infamia e senza lode e la torta al burro di noccioline (come facilmente immaginabile) un mattone colossale.
Servizio da pub: non mi aspetto certo i fronzoli, e vanno bene tovagliette e tovaglioli di carta, ma mettere in tavola una bottiglia d’acqua e un cestino di pane nell’attesa di iniziare (soliti 30 minuti di ritardo, ormai mi sono rassegnato: vale ad ogni serata) mi sembrerebbe poca fatica, così come credo non sarebbe da rovina cambiare le posate con le portate…

Le birre:
Morimoto Imperial Pils: una “imperial pils”, e ti viene il nervoso solo a sentirla, una denominazione del genere. Persino la bottiglia in ceramica, affrescata con caratteri orientali è tanto fighetta da farti perdere la pazienza, poi però vedi gli ingredienti (100% malto pilsner, 100% luppolo Sterling, lievito cieco. Niente strambismi, finalmente!), la osservi, la assaggi e cambi idea.
Dorata, lievemente opalescente, schiuma un poco grossolana; naso ricchissimo di miele di acacia con accenni erbacei. In bocca, dati gli oltre 70 IBU, dovrebbe essere una delle bombe amare che tanto vanno di moda, invece il malto bilancia benissimo e la scia piacevolmente amara resta solo a fine sorso. Che gran connubio malto-luppolo!
Abbinamento strampalato ma funzionante: l’amaricatura robusta riesce a diluire la grassezza della pancetta calda e la dolcezza delle pancakes.

Shakespeare Oatmeal Stout. Birra contraddittoria, sia perché non mi pare troppo in linea con lo stile dichiarato (che vorrebbe una luppolatura più morbida rispetto a questi 69 IBU di Cascade e Perle), sia perché è tanto poco interessante al naso (non si sente quasi nulla, e mai si sospetterebbe l’uso del Cascade: bottiglia non recentissima?), quanto piacevole al palato: caffè, cioccolato e un tocco di affumicato e di salmastro; corpo piacevolmente leggero, si beve benissimo.

Red Giant: boh. Mi è scivolata via senza particolari impressioni. Birra per me molto anonima.

Bam Biere. Delusione della serata, data l’importanza del birrificio; forse anche stroncata da un abbinamento criminale, deciso dalla padrona del locale.
Fermentazione secondaria in botte, con lieviti selvaggi e si sente: lattico, terra, un filo di speziatura, legno. Naso dunque complesso, anche se non troppo fine (il legno la marca molto), pur parlando di birre acide. Il problema è in bocca: molto più semplice e tranquilla, limonosa e corta, troppo corta. La immagino bene per un aperitivo.

Serata interessante e prezzo corretto, considerando le birre non banali e il solito superlavoro di Kuaska.

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Terroir Vino 2012

Pur patendo ancora i postumi di Pasturana ho inforcato gli occhiali da sole per occultare almeno parte dei disastri alcolici del sabato e, dirigendomi ai Magazzini del Cotone di Genova per Terroir Vino (TV, d’ora in poi), ho detto quello che si dicono quelle signore perennemente a dieta: “vabbè dai, ormai che ho spazzolato tutto il cabaret delle paste è inutile rifiutare anche la meringata. Da domani basta”.

Era la mia terza presenza a TV, finalmente con in tasca il certificato da pinguino. Ricordo che la prima volta entrai con tante belle idee sul mondo del vino, in particolare su come finalmente potevo mascherare da seduta didattica la preoccupante attitudine a dedicare una giornata all’etilismo. Ricordo anche che TV, a noi neofiti, desse l’impressione di una manifestazione più accessibile delle altre, meno rivolta agli addetti ai lavori o agli appassionati so-tutto-io. La prima volta non si scorda mai: l’esordio fu infatti molto istruttivo. Mi approcciai al tavolo di un produttore di grido della Franciacorta, chiesi di assaggiare un vino, e poi un secondo; a questo punto venni gelidamente cazziato dall’espositore per aver sbagliato l’ordine di servizio della degustazione. Ecco, quel momento di pubblico imbarazzo mi aprì definitivamente le porte della percezione su molti dei riti e delle gerarchie consolidate dell’enomondo.

La cronaca. Il posto (mi rifiuto di scrivere “location”) è meraviglioso, e la bella giornata di sole esalta ancora di più la clamorosa vista sul porto; c’è spazio a sufficienza, il condizionamento funziona e in un salone attiguo ci sono i divanetti  per poter fare “decompressione” di tanto in tanto. L’organizzazione è teutonica: all’ingresso, oltre a bicchiere e portabicchiere di ordinanza, ti danno un libricino con la mappa degli espositori e i relativi vini, passano di continuo camerieri con vassoi di torte di verdure e panini per asciugare lo stomaco e le sputacchiere non sono mai traboccanti. Su tutto aleggia la presenza del moghul Filippo Ronco, che, incravattato e agghindato in completo blu da bancario (dress code curioso per un alfiere dell’informalità e del duepuntozero), si aggira ubiquo a sovrintendere.

Pubblico misto: accanto a carneadi come me con zaino e blocchetto in mano, molti volti noti. Avvistata anche coppia marito-moglie, ciascuno prendere appunti sul proprio iPad: o tempora o mores! Per fortuna pochi gli esemplari di eno-fenomeni, ma qualche genio che cercava lui stesso di spiegare al produttore il suo (del produttore) vino l’ho trovato: temo sia impossibile selezionarli e abbatterli all’ingresso. Notevole la totale assenza di membri di spicco di AIS.

Ho avuto l’impressione ci fosse meno gente rispetto alle precedenti visite e mi pare ci fosse anche una presenza più sobria degli espositori (per capirci, meno ragazze-immagine ai tavoli). Sicuramente ho notato meno sbandamenti alcolici e meno bicchieri rotti a fine pomeriggio. Vi risparmio la litania dei meglio e dei peggio assaggi, appunto alla rinfusa solo qualche nome: la perfetta eleganza e finezza del Bricco delle Viole dei Vajra, la fresca sapidità del Colfondo di Bele Casel, la composta aromaticità del moscato giallo di Lageder, il gioioso fruttato dello Zero di Pojer&Sandri, la concentrata potenza dei Taurasi del Cancelliere, la bella storia del Ciso, sorprendentemente balsamico.

Punto interrogativo della giornata, la Degustazione dal Basso (d’ora in poi DdB) cui ho partecipato: devo ancora decidere se sia trattato di una minchiata (scusate l’eufemismo) o di un evento quasi riuscito. Vado a spiegare: le DdB sono, per come le definisce l’ideatore, “vini e territori raccontati in modo conviviale e comprensibile, da persone comuni ma competenti e soprattutto “vicine”, per nascita o scelte di vita, al luogo che scelgono di raccontare”. Bello. Ho pagato i 20 sacchi necessari (che davano diritto anche all’ingresso a TV) e ho prenotato questa: “I principali Terroir Champenois raccontati da Mike Tommasi attraverso una degustazione orizzontale di bollicine francesi di grande interesse: Vallée de la Marne, Côte des Blancs, Montagne de Reims, Côte des Bar”. Sono stati serviti cinque champagne: P.Agrapart-Minéral 2005, B.Lahaye-Rosé de Macération, O.Horiot-Sève Rosé de Saignée en Barmont 2007, B.Tarlant-Cuvée Louis, F.Boulard-Petraea XCVII-MMVII, F.Pouillon-2XOZ. Molto buono il primo, fine e minerale, così così i due rosè (il primo dei due parte male, poi, lasciandolo nel bicchiere, si riprende e guadagna un lieve tocco di arancia. Il secondo, che avrebbe un piacevole accenno di bitter, resta incagliato in qualcosa di non compiuto al naso). Terzo e quarto vino mi sono sembrati immensi. Entrambi lunghissimi e cremosi, il Tarlant, oltre a un lieve affumicato, finalmente mi permette di capire il significato delle lisergiche “note di pasticceria”, mentre il Boulard (vinificato in solera) offre grande complessità senza sacrificare la piacevolezza. Meravigliosi. Difficile da giudicare il Pouillon: ha un bel naso di chinotto ma con 32 g/l di dosaggio ricade in una tipologia forse difficile da capire a noi comuni mortali. Purtroppo durante non si è parlato delle varie zone di produzione, da quanto ho capito i vini non erano tipici rappresentanti dei rispettivi terroir, la degustazione non è stata minimamente guidata e la carta geografica fornita ai partecipanti era francamente risibile.

Aggiungerei, ma è una nota di colore, che le ragazze al servizio si sono esibite in una serie di aperture delle bottiglie col bottoche neppure a Piedigrotta la notte di Capodanno. Dopo la terza o quarta esplosione con fontana a corollario, il Ronco con decisione ha preso in mano la situazione ponendo fine all’imbarazzante episodio. C’era un relatore ma la degustazione si è retta sulle osservazioni dei partecipanti stessi. Il fatto che tutto sommato la cosa abbia in qualche modo funzionato credo sia incidentalmente dovuto alla presenza tra gli astanti di tecnici e addetti ai lavori come Mario Pojer, Luca  Ferraro, Dan Lerner (e altri che non ho riconosciuto, ma che sicuramente erano dei tecnici del settore). Francamente, per chi non fosse già esperto, la divulgazione è risultata quantomeno estemporanea e frammentaria. Non ho idea se questa sia la formula di tutte le DdB, credo e spero di no. Nel caso, forse, sarebbe meglio selezionare il pubblico, richiedendo diploma in enologia o titolo di studio equivalente.

Per chiudere, la camminata per recarsi al treno che mi riporterà a casa si snoda in parte in una zona molto popolare (eufemismo); direi che forse è una delle poche volte in cui presentarsi in pubblico con passo malfermo e bicchiere al collo non faccia sentire troppo fuoriluogo. Bello, ma da domani basta.

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IBF Genova: disastro annunciato

IBF

Durante “Pork’n’beer” lo avevo detto ai ragazzi di Brewfist che IBF Genova rischiava di essere un flop pazzesco, e purtroppo così è stato. Non ci voleva molto per prevederlo: concomitanza con il Salone nautico, la piazza di Genova, la mancanza dei birrifici genovesi (questo non si sapeva, ma si poteva immaginare), erano tutti elementi fornieri di sciagure… Si aggiunga una desolante mancanza di promozione perlomeno in provincia e il piatto (vuoto) è servito.

Mi spiace ovviamente per i birrai, desolantemente ridotti a vagare da uno stand all’altro per ingannare il tempo, ma in particolare spiace per Genova, che dopo una debacle di queste proporzioni non vedrà più un festival birrario in saecula saeculorum.

Volendo trovare qualcosa di buono: visto il deserto di presenze, per l’appassionato c’era la possibilità di monopolizzare gli espositori e parlare con tranquillità, tanto che anche un timido come me ha avuto modo di fare nuove conoscenze.

Quello che più ho gradito: Zona Cesarini in forma strepitosa, aromatica, delicata e intensa assieme, oltretutto servita da un Allo super amichevole e modestissimo, e la Two penny in versione barricata. Complimenti in questo utlimo caso al birraio per aver saputo dosare con mano lieve il passaggio in legno, caraterizzando la birra senza eccessi.

Una menzione per Kamun, appena arrivati sul mercato, di cui ho assaggiato una blanche molto beverina e del tutto in stile: ben fatto.

p.s. tanto per peggiorare le cose: l’acqua dei rubinetti del palazzetto, usata per lavare i bicchieri tra un assaggio e l’altro, lasciava un percettibilissimo sentore di pescione (d’altronde, Genova è città di mare…)

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Superbirra: che tristezza!

Secondo anno di Superbirra a Genova (niente link: non riescono neppure a fare un sito, occorre seguire su Facebook e simili) e seconda delusione, se possibile ancora più cocente di quella dello scorso anno.

In breve: poche spine (e pochissime italiane), nessun birraio presente (perlomeno in forma ufficiale), nessuna rarità (non è un dramma, ma almeno un contentino agli aficionados si potrebbe dispensarlo), prezzi da rapina (per dire: 4 degustazioni da 20cc 12 euro!!!), bicchieri in plastica.

Tralascio per amore di patria il costo delle bottiglie e del cibo: io sono andato a comperare da mangiare da Eataly che è lì a pochi passi, altri nel magazzino di Farinetti ci hanno comperato direttamente da bere…

L’unica cosa da salvare immagino siano stati i laboratori di Kuaska: ero in zona mentre se ne svolgeva uno e, come sempre, lo ho sentito sgolarsi per quasi due ore.

In definitiva: mi sfugge il senso di una manifestazione del genere e non riesco a capire come abbia fatto a finire invischiato in una porcheria simile una persona seria come Maurizio del O’Connor (pare che lui fosse coinvolto solo nella parte dei laboratori, anche se non mi è chiaro cosa significhi).
Credo che il tutto sia architettato da Timossi (uber-distributore di zona) e dal fighetto Kitchen Mon Amour.

La differenza con un evento recente (inizio Agosto, a Montegioco) come Pork’n’Beer, nettamente più “ruspante”, è abbastanza imbarazzante.
Nonostante si possa trovare qualche riserva anche all’appuntamento piemontese (i bicchieri in plastica, i prezzi), il confronto è impietoso per atmosfera e soprattutto selezione delle bevande.

Superbirra da dimenticare, anzi: da ricordare il prossimo anno in modo da evitarla accuratamente.

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