Bianco 2004, Mario Schiopetto

Vedi cosa capita ad arrivare tardi?
Succede che se trovi una bottiglia ben affinata, in particolare un vino bianco del 2004(!) che non conosci, con un controetichetta che non aiuta e del quale ignori il potenziale evolutivo, non hai idea di come comportarti.
Alla fine mi sono fidato delle sensazioni e ho versato l’obolo: ho avuto ragione.

Facciamo chiarezza: il vino in questione è il Bianco 2004 di Mario Schiopetto, uno dei pionieri del moderno vino italiano di qualità, in particolare per il Friuli.

schiopettoDenominazione: IGT Friuli Venezia Giulia
Vino: Bianco
Azienda: Schiopetto
Anno: 2004
Prezzo: 23 euro

E’ un vino interessante: lievemente ambrato alla vista, quindi, visto che siamo in Friuli, ti immagini un macerativo. Errore. O perlomeno, le indicazioni che arrivano dall’olfatto e dal gusto raccontano una storia diversa: al naso arrivano accenni di frutta tropicale matura, di noce e una punta di vaniglia. Tutto ben vivo, lontano da certe ossidazioni stanche che ormai temo quando approccio un orange wine.

In bocca è ancora meglio: ampio, robusto, caldo, morbido ma non pesante, mantiene grande freschezza e ricchezza gustativa (ancora il tropicale maturo, accompagnato da una folata di tostatura) e una notevole lunghezza, che chiude sulla scia di un ammandorlato gradevolissimo (e se lo dico io, che normalmente non amo i finali amarognoli…).

Scandagliando internet, capisco che si tratta di un blend di Friulano e Chardonnay, e ci stà: del friulano ha la gran bevibilità e le note di chiusura, mentre dallo chardonnay eredita una certa burrosità e morbidezza; in ogni caso è un gran vino con ancora lunga vita avanti a sé, nonostante le dodici vendemmie alle spalle.
Vino più ampio che verticale e nervoso, nel mio caso ha fatto ottimo accompagnamento ad un piatto non semplice come dei ravioli ripieni di radicchio, gorgonzola e speck, tenendo testa a sapori decisi e complessi.

Il bello: deciso ma facile da bere

Il meno bello: nulla da segnalare, se non una reperibilità che immagino complicata

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Confini 2010, Lis Neris

A volte (forse sempre) si sceglie di comperare un vino anche per suggestione, e a me questa bottiglia intrigava già sullo scaffale: un nome, Confini, evocativo tanto più se accostato ad un prodotto che viene da quella terra di grandi bianchi che è il Friuli e che del limite di territorio è quasi epitome.

confiniDenominazione: Venezia Giulia Bianco IGT
Vino: Confini
Azienda: Lis Neris
Anno: 2010
Prezzo:25 euro

E allora parliamone della bottiglia, prodotta in provincia di Gorizia, nella Valle dell’Isonzo dalla azienda Lis Neris, 70 ettari declinati soprattutto in bianco ma non solo, in questo caso in particolare assemblando uve Gewürztraminer, Pinot Grigio e Riesling ottenendo un liquido giallo dorato, caldo, compatto, di decisa matericità già dalla roteazione.
Un vino “grosso” che si conferma tale anche negli aspetti olfattivi, dove è ovviamente l’aromatico a farla da padrone con i suoi aromi di rosa, litchi e altri frutti tropicali surmaturi. Certo, il fatto che il Gewürzt non sia l’unico vitigno in gioco contribuisce a scongiurare il pericolo di eccessiva sfacciataggine e di stucchevolezza.

In bocca è decisamente di corpo, caldo, secco ma di quella secchezza un po’ morbida che contraddistingue il Gewürztraminer; si avverte il Pinot Grigio, con le sue striature sapide e non si palesa il temibile effetto mappazza grazie ad una buona spalla acida, probabilmente apportata dalla quota di Riesling. Finale abbastanza lungo ma con un eccesso di amarognolo.

Vino particolare, decisamente da abbinamento: cucina fusion, con influssi orientali e speziature importanti.

Il bello: gran corpo e aromaticità ben gestita

Il meno bello: finale non del tutto a registro

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Friulano 2014, Ferlat

Considero il Friulano (l’ex Tocai, per capirci) uno dei vini più gastronomici in circolazione: semplice ma non banale, nelle sue migliori incarnazioni è un compagno discreto e sicuro di tanti piatti leggeri o di media struttura.

L’assaggio di oggi è della azienda Ferlat (5 ettari nella DOC Friuli Isonzo, conduzione in fase di conversione al biologico): 100% Friulano, raccolta manuale, breve permanenza di uno o due giorni sulle bucce e fermentazione a temperatura controllata. Viene svolta la malolattica.

Denominazione: DOC Friuli Isonzo
Vino: Friulano
Azienda: Ferlat
Anno: 2014
Prezzo: 12 euro

Il vino è paglierino carico, con una netta tendenza al dorato, e alla intensità si adegua anche il buquet, che rivela molti fiori e frutta bianca matura con un tocco di camomilla.
Il sorso parte morbido e si inspessisce in chiusura, accompagnato a ricordi di mandorla; di sicuro non sono le durezze a dominare.

Nel complesso un bicchiere garbato, dal corpo discreto e di grande bevibilità (i 13 gradi non si avvertono), che però difetta un po’ di personalità: tutto è a posto, corretto ma manca uno spunto che accenda la lampadina alla bevuta. Oltretutto anche il famigerato terroir viene lievemente mortificato: manca la grande sapidità e olfattivamente c’è forse un filo di aromaticità di troppo.

Il bello: vino molto bevibile
Il meno bello: manca personalità

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Vitovska 2011, Zidarich

Certo, l’invecchiamento, l’affinamento, le terziarizzazioni eccetera.
Ma ogni tanto ti viene voglia di dire chissenefrega e di bere, e pazienza se magari aspettando qualche decade e svariati allineamenti astrali potremmo (forse, magari) godere di qualche bottiglia arrivata al mitologicamente perfetto stadio di maturazione.

E’ quello che è successo in questi giorni, in cui ho messo mano alla Vitovska 2011 di Zidarich, comperata durante il mio piccolo tour Friulano (parte 1, 2, 3, 4), e ne ho tratto gran soddisfazione, alla faccia della perfezione dello stato evolutivo…

vitovskaDenominazione: Carso DOC
Vino: Vitovska
Azienda: Zidarich
Anno: 2011
Prezzo: 22 euro

Aspetto tipico da vino non filtrato, giallo dorato con netta tendenza ambrata e lieve opalescenza; olfattivo intenso, ricchissimo di frutta cotta, fiori di campo (camomilla), albicocca disidratata, salmastro.
Il piccolo miracolo è che la traccia identitaria di vino friulano (la sapidità minerale) riesce a declinarsi con grande eleganza accanto al ricco impianto della macerazione,  mantenendo sia freschezza che impatto.

Il sorso è brioso, invade la bocca prendendone possesso in modo deciso: è una conquista senza spargimenti di sangue e senza duri assedi: freschissimo e sapidissimo, scende intenso ma senza alcuna difficoltà.
Il corpo è presente ma agile, di bella lunghezza, con un delicato accenno di tannino finale.

Per dirlo in due righe, è devastante nella sua intensità finissima, perfettamente in equilibrio tra forza, espressività, complessità  e semplicità di bevuta: uno dei vini più interessanti e assieme piacevoli degli ultimi mesi

Come si diceva in apertura: di certo siamo di fronte ad un prodotto dall’ottimo potenziale evolutivo, capace col tempo di tramutarsi in qualcosa di più importante, ma già oggi parliamo di una bevuta facile, fresca, piacevolissima e allo stesso tempo assai soddisfacente e ricca di complessità.

Il bello: tutto: fresco, ricco, complesso e allo stesso tempo dalla bevuta disinvolta
Il meno bello: reperibilità non facilissima

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Il Collio (ma anche Isonzo e Carso). Parte quarta: Zidarich, sul tetto del Golfo di Trieste

Zidarich

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Pioggia… è ancora la pioggia che mi accompagna quando è ora di far rotta verso il Carso, a circa 300 metri di altitudine sul tetto del Golfo di Trieste. La visita da Zidarich sarà per forza di cosa veloce e incompleta, i motivi sono i soliti: la vendemmia è appena terminata con una certa fretta e c’è molto da fare in cantina. Pazienza.

Zidarich

L’arrivo è difficoltoso: l’azienda è inerpicata nella frazione di Prepotto, il navigatore la conosce ma chissà per quale pasticcio con le strade, propone un percorso piuttosto lungo e isolato e quando si arriva non ci sono cartelli o insegne ad indicare la cantina.
Strano, anche in ragione del fatto che Zidarich ha da poco aperto nella stessa struttura anche una “osimiza” (traduco malamente con osteria)…

Ad ogni modo, il maltempo può fare quel che vuole, ma la vista dall’alto sul mare è davvero unica: se ieri eravamo nell’antro di Radikon, qui ci troviamo nel nido di un gabbiano e nessun ostacolo si protende davanti alla collina che scende sul Golfo straordinariamente ampio e profondo per noi liguri, abituati a ben altre asperità.

E’ su questi declivi di roccia calcarea, permeabile e coperta da un sottile strato di terra rossa, totalmente indifesi rispetto al vento che già oggi spazza e che immagino  per molti giorni l’anno ancora più robusto e tagliente,  che crescono gli otto ettari aziendali piantati a Vitrovska, Malvasia, Sauvignon, Terrano e Merlot, da cui si ricavano circa 25.000 bottiglie l’anno.

La costruzione che ospita cantina e osimiza è sicuramente affascinante: terminata recentemente, si sviluppa su vari livelli, da quello superiore tutto vetrate fino a scendere a venti metri di profondità nella roccia scavata in nicchie, anfratti e gallerie, tenute a bada da volte in pietra.

Zidarich

Le vinificazioni sono improntate a quel rigore naturalistico che ormai bene conosciamo: massima selezione in vigna, lieviti autoctoni, macerazione anche per i bianchi (molto meno pronunciata rispetto a quanto accade con i vini di Radikon) , nessuna filtrazione, affinamento in grandi botti di rovere, minima aggiunta di solforosa.
Ne risultano vini particolari ma non estremi, molto personali ma che a mio modo di vedere non travalicano i confini della piacevolezza di bevibilità e che immagino possano essere graditi anche ai non fanatici della naturalità.
I canoni comuni sono quelli di una lieve opalescenza visiva (causata evidentemente dalla non filtrazione), di ottima freschezza e soprattutto da evidente ed estrema mineralità, declinata in sapidità e aromi di pietra focaia.
Nel dettaglio, la Malvasia 2011, olfattivamente ricca di frutta gialla matura e miele, in bocca è comunque bella affilata e non stucchevole; il Prulke 2011(uvaggio di Sauvignon, Malvasia e Vitovska) è più complesso, cangiante, vira dal floreale e aggrumato fino alla albicocca disidratata, con un sorso teso e scattante.
Il pezzo più pregiato del bianchi è  la Vitovska 2011, vitigno locale un tempo un po’ bistrattato e ora in gran spolvero; c’è tutto per definirlo un grande vino, l’olfattivo è ricchissimo e cangiante, floreale di camomilla, spezie, agrume, minerale… Bevibilità stellare e buona lunghezza.
Tutti vini bianchi (o meglio, orange) da servire a temperature da rosso giovane, in modo da placare la leggera tannicità e non mortificare il notevole spettro aromatico.
Una sorpresa bella e interessante il Terrano (dal nome del vitigno omonimo, autoctono, del quale non avevo mai assaggiato nulla): colore rubino accesissimo, fragranza di frutti di bosco, leggera speziatura e acidità spiccata. Mi sembra molto bevibile e lo immagino ottimo in accompagnamento a salumi.

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Il Collio (ma anche Isonzo e Carso). Parte terza: l’antro dell’alchimista Stanislao Radikon

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Per la terza tappa del mio personale avvicinamento alla cornucopia dei produttori Friulani occorre inerpicarsi sulle alture che, dalle spalle di Gorizia conducono al colle di San Floriano, in luoghi tristemente noti per i caduti delle battaglie della Prima Guerra Mondiale, celebrati appunto nel Sacrario Militare di Oslavia.

In un’era di navigatori e telefonia mobile sembra facile trovare un indirizzo, tanto più se si tratta di quello di un produttore così noto come Radikon; in realtà il cellulare non funziona, perché siamo a pochi passi dal confine sloveno e l’oggetto decide di scegliere l’operatore in roaming, e il GPS è in difficoltà a condurmi a Località Tre Buchi n.4.
Alla fine, e l’episodio credo la dica lunga sulla filosofia aziendale, son costretto a scendere dall’auto e vagare sotto la pioggia verso l’unica casa che probabilisticamente può essere la mia meta, peccato che non sia presente alcun cartello o insegna; mi deciderò a bussare solo dopo aver notato sul retro alcune cassette con stampata sopra la ragione sociale…

RadikonL’importante è arrivare in qualche modo, peccato che l’appuntamento concordato sia passato in secondo piano (se non proprio dimenticato) a causa della pioggia, che minaccia il merlot ancora da raccogliere: gli altri produttori hanno vendemmiato tutto da diversi giorni, ma Stanislao Radikon ha voluto rischiare e ora è impegnato in vigna.
Vengo comunque accolto dalla moglie Suzana, che mi mostra le pendenze che ospitano i dieci ettari: siamo su un territorio posizionato a poco meno di 200 metri di altitudine, ben ventilato ed esposto a notevoli escursioni termiche, di composizione argillosa, che in profondità si compatta fin quasi a diventare roccia e che, a causa dello scoscendimento, può essere lavorato per la maggior parte solo manualmente,

Radikon

Si entra in cantina, dove Saša, il figlio di Stanislao, pur se assai indaffarato si ritaglia qualche minuto per parlare con me; proprio la figura di questo giovane vignaiolo sarà uno dei momenti più interessanti della visita: Saša è laureato in viticultura ed enologia, e il suo approccio pragmatico alla vinificazione è un interessante contrasto con l’immagine dogmatica della cultura aziendale che mi ero autonomamente creato, leggendo e assaggiando i vini.
Un passo indietro: Radikon, di cui ho già scritto qualcosa in passato, è uno dei beniamini degli amanti dei cosiddetti “vini naturali”: già dalla fine degli anni ottanta ha iniziato a percorrere al contrario la vicenda della tecnologia applicata al vino, quindi via l’acciaio per tornare al legno, reintroduzione alle lunghe fermentazioni sulle bucce anche per i vini bianchi, fino ad arrivare nel 1999 alla eliminazione di qualsiasi aggiunta di solforosa. In pratica tutte le sostanze utili alla conservazione anti-ossidativa vengono estratte dalle bucce, ma la condizione affinché questo procedimento (rischioso, come mi conferma Saša, in particolare nel caso di esportazione delle bottiglie) abbia successo è la perfetta salute dell’uva quando arriva in cantina, di qui la necessità di una selezione feroce in pianta.
RadikonE il contrasto di cui dicevo prima è anche visivo: la cantina della famiglia Radikon, piuttosto buia, con la roccia a vista e colma di vecchie botti in legno, forse anche a causa della suggestione dei vini lì dentro prodotti in maniera quasi ancestrale,  in qualche modo ricorda l’antro di un alchimista.
Un alchimista al contrario, visto che il procedimento è semplice ed è basato sulla sottrazione piuttosto che sulla aggiunta di sostanze miracolose: si diraspa e si esegue la fermentazione sulle bucce in botti da 25-35 hl effettuando frequenti follature, senza aggiungere alcun lievito; quando la fermentazione alcolica è terminata si sigilla la botte, lasciando le bucce sul fondo. Segue poi l’affinamento (e sono anni: tre, quattro… dipende) e l’imbottigliamento, quindi ancora circa un anno di attesa prima di andare in commercio. Fine. Su questa base, Stanislao ha sperimentato negli anni, allungando e perfezionando la tecnica della macerazione, modificando gli affinamenti, sia in funzione del millesimo che delle proprie convinzioni.

DSC_0494Il risultato di tanto impegno lo scopro quando ci si trasferisce in sala ed è il momento di assaggiare qualcosa assieme alla signora Suzana: si inizia con i vini più semplici, ideati e prodotti da poco tempo in autonomia da Saša, si tratta dello Slatnik (Chardonnay 80% e Friulano 20%) e del Pinot Grigio. In questo caso la macerazione è limitata a una quindicina di giorni circa, l’affinamento a 18 mesi e c’è una leggera solfitazione; ne risultano vini di certo più freschi e semplici da bere, comunque ricchi di profumi e gustosi, a mio parere anche più facili da abbinare nei pasti. Certo, meno unici.

I pezzi da novanta, i vini per cui Radikon è famoso, sono però altri: lo Jakot (significativamente Tokaj scritto alla rovescia, si tratta di Friulano al 100%), la Ribolla, l’Oslavje (un blend di Sauvignon, Pinot Grigio e Chardonnay) e il Merlot.
Lo Jakot 2007 è giallo dorato, lucente nonostante la mancanza di filtrazione, intenso, con una discreta aromaticità che non oltrepassa mai il limite dello stucchevole, buon corpo e tanta freschezza. Tra i vini di questa seconda batteria, quelli con macerazione “estrema”, mi pare quello più abbordabile per il pubblico comune.
La Ribolla (ho assaggiato il 2004 e uno stupefacente 1999) è il vitigno principe, sia perché tradizionale per la zona, sia perché la buccia molto spessa ben si presta alle lunghe macerazioni.
Il 2004, di colore ambrato, è olfattivamente ricchissimo: frutta gialla, floreale e speziatura, forse anche un accenno erbaceo. Al sorso, grande acidità e sensibile tannino, ma è tutto sotto controllo. Notevole la lunghezza.
Il 1999 resta ambrato nel colore, ma ancora più vertiginoso aromaticamente, si aggiungono il miele, la camomilla e tutto quello che vi pare: basta aspettare e il bicchiere regala di tutto. Enormi sapidità e lunghezza.
Ho bevuto anche il Merlot 2002, ma a mio parere era poco giudicabile: la bottiglia era aperta da tempo e il vino davvero spento. Peccato.

P.S:: Il mese seguente alla mia visita, Stanislao e sua moglie sono stati protagonisti di una degustazione dalle mie parti. Ho avuto occasione di assaggiare lo Slatnik 2011, lo Jacot 2006, le Ribolla 2006 e 2005 e gli Oslavje 2006, 2005, 1999, 1998 e 1997.
Brevemente: confermo le impressioni dello Jacot, secchissima la Ribolla 2006, leggermente più rotonda la 2005, ma sono gli Oslavje che mi conquistano, trovo che il blend permetta complessità aromatiche superiori.
Non al massimo il 1997, che sembra un po’ a fine corsa già dal colore scarico, due le bottiglie aperte del 1999, curiosamente molto diverse l’una dall’altra, già ottimo il 2006, che immagino un campione tra qualche anno. Meno ricco il 2005, sembra un po’ chiuso. Travolgente il 1998, frutta secca, miele, fiori, spezie…

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Il Collio (ma anche Isonzo e Carso): Ronco del Gelso

Ronco del Gelso

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Quando si dice la programmazione… per vari motivi il mio viaggio nel Collio è arrivato in un momento non particolarmente indicato: pioggia e vendemmie ancora in corso (o appena ultimate) non sono certo le condizioni più adatte ad un viaggio a sfondo enoico, sia dal punto di vista prettamente turistico che da quello riguardante il rapporto con i produttori da visitare, oggettivamente indaffarati in questioni ben più importanti rispetto alle curiosità del sottoscritto…

CollioCollioDi certo immaginavo il territorio più scarno, brullo, quando invece, partendo dal pianeggiante limite meridionale segnato dall’Isonzo, si ondeggia in un susseguirsi di rilievi dolci e riccamente verdeggianti, costellato di piccoli paesini ordinati e immersi in un mare di vigne e di tranquillo silenzio.
Qualche ora di sole mi ha permesso di sfruttare la Vespa gialla messa a disposizione da Picech con cui ho attraversato a casaccio le colline (attenzione al telefono: ci si muove costantemente sul confine con la Slovenia, a volte superandolo senza accorgersene, e se il roaming dati è attivo, si rischia di drenare velocemente il credito residuo…), restando stupefatto dalla concentrazione di aziende agricole, molte famosissime, altrettante note solo per averne letto chissà dove, moltissime altre a me sconosciute.

Ronco del GelsoLa prima cantina che ho visitato è Ronco del Gelso, che, avendo le sue vigne proprio sul suolo magro e pianeggiante al confine tra Collio e Isonzo, produce vini di denominazione Isonzo.
L’azienda di Giorgio Baldin produce circa 150.000 bottiglie l’anno suddivise in una ampia gamma di tipologie che ottengono spesso ottimi riconoscimenti, e che, come si legge sul sito, sono vinificate in “modo laico, lontano da rivendicazioni ideologiche”, distaccandosi quindi dalla tradizione (o forse anche da quella che attualmente è anche una moda) dei vini macerati. L’approccio è estremamente razionale, lucido: lo si capisce dalla cantina, moderna, ordinata e pulitissima, che riflette le tecniche di vinificazione adottate (lieviti selezionati, temperature controllate, acciaio o rovere a seconda della bisogna, sala attrezzata all’appassimento con controllo di temperatura, umidità e arieggiatura forzata).
Ronco del GelsoLa cantina è davvero all’avanguardia e di fatto autosufficiente dal punto di vista energetico grazie al fotovoltaico e ad una caldaia che brucia gli scarti di potatura per poi diffondere calore ovunque necessario grazie ad un impianto ad anello.

Nei vini assaggiati ho riscontrato il tratto comune di grande pulizia unita a notevole sapidità e aromaticità; vini direi gastronomici, nel senso di prodotti facili da bere senza essere banali.
Gran vino il Pinot Grigio Sot Lis Rivis, di cui preparerò scheda a parte: per ora mi limito a dire che mi ha davvero colpito per possenza di corpo e robustezza alcolica, ma acrobaticamente in equilibrio verticale, evitando di scivolare nell’eccesso. Ben fatto!
Facile e gradevole l’uvaggio Latmis (Friulano, Riesling, Pinot bianco, Traminer), molto piacevole il Friulano Toc Bas, con piacevoli accenni di nocciola e buon corpo (ho un debole per il vitigno, magari minore, ma che pur senza grandi pretese riesce sempre a sfoderare prodotti molto versatili per l’accompagnamento a tavola).
Bene la malvasia Vigna della Permuta: aromatica come dovuto ma diritta, di bella tensione sapida; piacevolmente fresco, intenso e per nulla stucchevole il passito Aut (da uva Traminer).

Meno interessanti il Riesling (un po’ anonimo, ma devo dire che raramente lo capisco quando vinificato fuori dai suoi territori d’elezione di Germania e Alsazia) e il Sauvignon, dal varietale troppo evidente (forse perché molto giovane).

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Il Collio (ma anche Isonzo e Carso). Parte prima: l’ospitalità di Roberto Picech

picech

Picech

Basta osservare la forma della cantina, un perfetto quarto di cerchio, per capire qualcosa della personalità di Roberto Picech e di conseguenza anche dei suoi vini.
L’architetto cui si era rivolto al momento della costruzione gli aveva proposto un cubo o una grande “L” che abbracciasse l’aiuola dinanzi alla costruzione, ma a Roberto entrambe le idee sembravano scontate, così si è fatto venire in mente questa stranezza, coreografica, non pacchiana, comunque funzionale. Poi, per buon peso, Roberto ne ha anche costruito buona parte del tetto con le sue mani!
Quanto sopra me lo ha raccontato lui, con una piccola punta di orgoglio condita da vari attestati di modestia, come se tutto ciò fosse roba quotidiana.
Geniale e razionale, estro e applicazione.

Picech

Di Picech avevo già scritto dopo averlo incontrato dalle mie parti, e in quella occasione, oltre ad averne apprezzato i vini, avevo avuto modo di gradire il suo garbo e la sua comunicatività. Per questo, quando ho voluto trascorrere qualche giorno in Friuli, non ho avuto dubbi e ho deciso di far base a Cormons, prenotando una camera presso la sua struttura, una splendida casa di campagna immersa nel silenzio dei vigneti e ristrutturata in maniera encomiabile per cura dei dettagli, ampiezza degli spazi e sobria eleganza.

PicechPicechLa camera che ho scelto è situata nella torretta che sovrasta la struttura ed è in realtà un vero e proprio appartamento: si sviluppa su due piani (sotto ingresso, bagno e armadio; sopra la zona letto vera e propria),  e gode di una vista mozzafiato sulle colline grazie alle grandi vetrate disposte su tutte e quattro le pareti e ad un bel terrazzino.

A completamento dell’accoglienza, non posso non citare la Vespa gialla, messa a disposizione degli ospiti per

Vespa

esplorare il territorio in pieno contatto con la natura, e soprattutto la sontuosa colazione, ricchissima di prodotti di grande qualità: oltre ai consueti cereali, frutta e yogurt, vengono offerti il prosciutto di D’Osvaldo, vari formaggi artigianali, marmellate fatte in casa e uno dei migliori strudel mai assaggiati.

La visita della cantina, gli assaggi e una lunga chiacchierata con Roberto, sono stati l’occasione per una piccola confessione, il suo non amore per la ribolla, che difatti usa solo in blend, e per ribadire la sua filosofia di vinificazione: vini di carattere prodotti con naturalità (no ai lieviti selezionati e al controllo delle temperature, minimo uso di solforosa), 

picechsenza estremismi (leggi: senza ricorrere alle lunghe macerazioni, usate con frequenza in zona), sempre piacevolissimi, ricchi di mineralità e sapidità, adatti al lungo invecchiamento ma godibili fin da subito.

picechNessuna nota di degustazione particolare, non ho scoperto nulla che non conoscessi già, ma ho ritrovato sempre notevole lo Jelka, e personalmente continuo ad avere un debole per l’Athena, però prodotto solo in magum e in numero limitato di bottiglie…

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Malvasia Skerk: il Carso in bottiglia

Malvasia Skerk

[Disclaimer: bottiglia gentilmente omaggiata da Avionblu nell’ambito della iniziativa “15 recensioni in cerca di autore”. Il prezzo dovrebbe aggirarsi attorno ai 20 Euro]

Malvasia SkerkChi legge malvasia non si aspetti un vino dolce, o comunque docile e arrotondato, che qui siamo nel cuore del duro Carso e Skerk è una azienda priva dei bollini bio-tutto tanto di moda ma sicuramente legata ad una produzione veramente tradizionale: circa 20.000 bottiglie l’anno, in vigna vengono usati solo zolfo e rame. in cantina si svolgono lunghe macerazioni in tini aperti, nessun controllo della temperatura, nessuna chiarifica e filtrazione, si usano solo lieviti autoctoni e si limita al massimo la solforosa.

Ne deriva un vino giallo paglierino carico, con una lieve velatura dovuta alla mancanza di chiarifica, all’olfatto abbastanza intenso e di buona complessità: sicuramente minerale (salmastro); si percepisce un tocco di floreale e distintamente la nespola; attendendo e scaldandolo arriva il balsamico e si rivela la aromaticità varietale della malvasia, che sfuma in frutta candita.

In bocca è secchissimo; buona la freschezza, ma a risaltare è la enorme sapidità, evidente richiamo al territorio.
C’è anche un leggero tannino, evidentemente donato dalla lunga macerazione sulle bucce.
L’unico limite che ho riscontrato è una certa carenza di corpo, che, se da un lato rende la bevuta facile nonostante i 13,5 gradi, ne mortifica un poco le grandi potenzialità.

Solitamente sono restio ad usare l’aggettivo “territoriale”, che sembra essere diventato uno degli eno-mantra del periodo, ma se esiste un vino-specchio del suo terroir, di una terra dura, povera e sferzata dal vento, lo è questa Malvasia, che si rivela vino molto interessante, in grado certamente di farsi bere con piacere dai consumatori occasionali, ma soprattutto di raccontare storie e immagini ai bevitori più attenti.

L’abbinamento consigliato sul sito è pesce e carni bianche; secondo me, il grado alcolico e la lieve carica tannica fanno pensare anche a zuppe di pesce o formaggi di media stagionatura.
Direi di servirla appena fresca, per non mortificare lo spettro olfattivo e non indurire il tannino.

 

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