Erbaluce Fiordighiaccio 2015, Produttori Erbaluce

Questa non è una recensione, semmai un appunto veloce.

e_fior_gjiaccioHo comperato una bottiglia di Fiordighiaccio: avevo voglia di qualcosa che non mi capita mai di bere e ho chiesto un vino semplice e poco costoso; mi è stata proposta questa bottiglia della cantina sociale Produttori Erbaluce di Caluso alla folle cifra di 5 euro e mezzo, come facevo a rifiutare?

Come era?
Un vino a cui trovare difetti era sinceramente impossibile, profumatissimo, leggero ma con una presenza degna e una discreta verticalità.
Il problema (se di problema si può trattare) è che si vede lontano un miglio che si tratta di un prodotto estremamente tecnico, lo capisci dal colore esilissimo, dagli aromi quasi esagerati, dalla pulizia estrema del sorso…
Difatti a posteriori ho scoperto ad esempio che in cantina viene eseguita la criomacerazione.

Dunque? C’è qualcosa di male nel “costruire” un vino in questo modo, cioè usando la tecnologia, e ovviamente senza ricorrere ad adulterazioni non previste dalla legge?
No, io credo (anzi sono sicuro) che non ci sia nessun problema nell’utilizzare queste pratiche di cantina, in particolare se si riesce poi a realizzare un prodotto di questo buon livello a questo ottimo prezzo; il problema, semmai, è che un vino così (che ho usato come piacevolissimo accompagnamento ad un antipasto) non trasmette nessuna sensazione di particolarità, di unicità, di scoperta, e non voglio neppure stare a scomodare la secondo me abusatissima territorialità.

Ma cerchiamo di capirci, queste riflessioni sono del tutto personali, senza alcuna valenza oggettiva, e nulla tolgono al valore della bottiglia; soprattutto, forse sono emblematiche del rapporto non del tutto “sano” che abbiamo noi appassionati con il vino: ci facciamo forse tutte queste domande quando mangiamo una bistecca o un pomodoro? Non ci basta sentirli gustosi, succosi, in una parola “buoni”?
Perché ad un vino chiediamo anche qualcosa di altro? Non è che abbiamo voglia di suggestione e ogni tanto esageriamo?

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L’accoglienza eno-turistica nel Nord Piemonte

E’ banale dirlo, ma nell’immaginario onirico dell’enostrippato medio le varie denominazioni del Nord Piemonte (Carema, Ghemme, Gattinara, Boca, eccetera) vengono ben dopo i grandi miti (Barolo, Barbaresco).
E’ un peccato, visto che capita di assaggiare prodotti provenienti da quelle zone che, con le loro caratteristiche precipue, poco o nulla hanno da invidiare alla media delle bottiglie langhette, anzi, hanno dalla loro il bonus di un prezzo spesso ben più vantaggioso.

Perché si sia arrivati a questa situazione sarebbe materia di discussioni lunghe, complesse e certo oltre le mie capacità di analisi, ma di certo il Nord Piemonte ha ancora tanto da dare: la qualità è invidiabile e gli ettari vitati sono assai ridotti rispetto al passato, quindi c’è ampio margine di crescita. Naturalmente per crescere è necessario promuovere vini e territorio e, fatto salvo che un singolo caso non può fare statistica, la mia esperienza recente in questo senso è stata disastrosa.

La faccio breve: affascinato da alcune letture e troppo pochi assaggi, decido di regalarmi un weekend in zona Ghemme – Gattinara.
Telefono per tempo ad A*******, (di cui avevo bevuto uno straordinario O**********) per concordare una visita, e la conversazione è desolante:
Io: “Buongiorno, sono un appassionato, sabato sarò in zona e volevo sapere se è possibile una visita alla cantina e magari comperare qualche bottiglia”
Voce al Telefono (d’ora in poi VaT), estremamente scoglionata: “Le dico subito che durante le visite non facciamo assaggiare i cru, al limite l’assemblaggio”
Io: “Ok, non importa, possiamo concordare una visita?”
VaT: “Ma non abbiamo neppure l’assemblaggio, non vendiamo, abbiamo finito tutto”
Io: “Ok, non importa, possiamo concordare una visita?”
VaT: “Eh, ma oggi siamo in negozio(???), la cantina è chiusa”
Io: “Come le dicevo, sarò in zona sabato”
VaT: “Eh, ma è troppo tardi, siamo chiusi”
Io: “Va bene, ho capito”
CLICK

Altra telefonata, stavolta ad A**********: una gentile signorina prende la mia prenotazione e mi fa lasciare un numero di cellulare per ogni evenienza.
Sabato mattina ho appuntamento alle 10 ma nevica con una certa insistenza e spostarsi con l’auto è difficoltoso, quindi chiamo in azienda per avvertire che ritarderò di circa 20 minuti; un signore, credo il titolare, mi risponde che non è un problema e che approfitta per fare una commissione.
Arrivo davanti all’azienda: è tutto chiuso e il telefono squilla a vuoto. Attendo per circa 30 minuti sotto la neve e provo a richiamare almeno tre volte, poi alle 11,visto che la nevicata sembra peggiorare e temo di restare bloccato mi arrendo e me ne vado. Riceverò una telefonata di spiegazioni solo verso le 11.45. Pare che il titolare non abbia sentito il telefono…

Casi sfortunati? Possibile, probabile, ma due eventi negativi su due tentativi sono una statistica poco incoraggiante; tenetene conto se avete intenzione di fare enoturismo in questa zona.

[I nomi dei produttori coinvolti sono stati omessi onde evitare spiacevoli discussioni]

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Vinnatur Genova 2016

Non ho voglia di parlare di assaggi, non avevo il blocchetto degli appunti e trovo sempre più noioso l’elenco del telefono dei nomi segnati in piedi nella folla che poi lo rileggi a casa come se stessi decifrando il vangelo aramaico.
Semmai parliamo dell’evento: cosa dire ancora della manifestazione che annualmente Vinnatur porta in Liguria? Ormai da due anni, dopo alcune edizioni a Sestri Levante, Vinnatur si è trasferito a Genova, in pieno centro, in uno splendido edificio storico, ma di questo già scrivevo lo scorso anno.

vinnaturE infondo potrei solo ripetermi, perché di fatto la formula (ormai rodata e vincente) giustamente si tocca: la location si raggiunge facilmente con i mezzi pubblici, è accogliente, c’è spazio, c’è il guardaroba, c’è sempre pane e acqua ai banchetti dei produttori, c’è lo spazio della gastronomia, c’è il depliant con la mappa dei partecipanti. Eccetera.
Non posso poi non notare che il posizionamento in pieno centro città, e forse anche l’aver legato alla manifestazione altri eventi in alcuni locali genovesi, ha trascinato all’ingresso un buon numero di persone evidentemente “non del giro”, novizi del vino, facce nuove incuriosite.

Una nota di merito e una di demerito ai produttori: ho parlato con alcuni vignaioli sorprendentemente onesti, tanto da essere i primi a rimarcare qualche difetto di un loro vino; al contrario, di qualcuno ci si domanda perché partecipi ad una manifestazione se poi non ha il minimo interesse a comunicare con il pubblico…

In mezzo a tutti non puoi non notare il patron Angiolino Maule: magrissimo, l’aria tranquilla di chi si sente a casa ma l’occhio febbrile che guizza l’ennesimo cenno di saluto a una delle mille persone che vengono a rendergli omaggio mentre versa il vino. E’ lui, Angiolino, il motore e l’anima della manifestazione, di Vinnatur tutta e di buona parte del movimento dei “vini naturali” italiani, qualsiasi cosa significhi questa definizione ormai abusata.

Cose negative da segnalare?
Forse l’ingresso potrebbe essere un pochino più contenuto, ma comprende anche un buono per una porzione ai banchi della gastronomia e allora va bene così.
Forse l’orario: aprire domenica e lunedì, saltando il sabato, è una scelta che giustamente lascia una giornata (il lunedì, appunto) più dedicata agli operatori del settore e penalizza un pochino gli appassionati, che in maggioranza non prenderanno ferie e sono quindi costretti ad ammassarsi alla domenica, quando per giunta si chiude alle 18.

Ma queste sono inezie, semmai, se un vero limite della manifestazione esiste, è paradossalmente legato alla sua formula: per l’appassionato che partecipa ogni anno a questo raduno (e anche ad altri a tema simile), più o meno la gran parte dei produttori è ben nota, difficilmente capitano grandi scoperte, quindi oltre ai complimenti meritati per l’organizzazione, porgiamo a Vinnatur gli auguri di tante nuove affiliazioni, così da poterci incontrare il prossimo anno a Genova con una decina di produttori inediti in più.

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Cheese 2015: e infatti ci siamo rivisti…

“Temo che ci rivedremo nel 2015”: così concludevo il mio piccolo sfogo di due anni fa a proposito di Cheese.
E’ lampante, già lo sapevo che nonostante tutte le mie riserve sulle orde di visitatori poco accorti, sui magheggi di marketing di Slow Food, sulla assurdità delle olive ascolane e della piadina romagnola accanto ai presidi africani, a Bra ci sarei tornato nel 2015.

cheese 2015E infatti eccomi qui, a raccontare le solite cose e a commentare le medesime immagini; certo, la minestra la si può condire con qualche nuovo aneddoto come quello del gruppo di romani: uno di loro fende la calca per inforcare finalmente una briciola di Stilton, la divora, ne agguanta un altro pezzetto e lo porge ad uno dei compari, urlando: “Aoh, senti che bono”. Risposta dal fondo: “No, no, io mica me fido a magnà stà robba”. E qui sarebbe più dignitoso chiudere, ma non posso non ricordare che, stavolta, c’erano anche i furgoni dello street food.
Ci si domanda che ci azzecchino con i formaggi, e pazienza, ma un minimo di controllo su cosa debba essere uno street food ci vorrebbe, ad esempio un cartoccio con alcune (poche) polpettine di carne appena dignitose, venduto a 7 euro di sicuro non lo è.

Chiudo con la mia piccola guida per la sopravvivenza a Cheese 2017:

  • se possibile, vai al venerdì (lo so, idea originale…)
  • se, come per me, il venerdì ti è impossibile, perlomeno arriva al mattino presto. I banchi aprono alle 10, entro le 9.30 si riesce a parcheggiare quasi in città, evitando l’autobus
  • prepara prima una lista di cose che vuoi assaggiare e che ti interessa approfondire e più o meno attieniti a quella, perlomeno per le prime due ore, le uniche nelle quali la folla non è ancora a livelli da prima fila nel prato durante il concerto di Jovanotti. Il cazzeggio indiscriminato ai banchi lascialo per dopo
  • evita di metterti in coda per qualsiasi cibo dopo le 12. Mangia prima o moooolto dopo
  • ricorda che puoi entrare in macelleria, comperare un metro di salsiccia di Bra, poi andare dal panettiere all’angolo e farti un panino gourmet ad un terzo del prezzo richiesto agli stand
  • porta uno zainetto per mettere gli acquisti; riempilo a casa con una bottiglia d’acqua (ho detto bottiglia, non bottiglietta)
  • in ogni caso, alle 15 sbaracca: hai mangiato e bevuto come un orso, hai camminato e sgomitato per ore, inutile proseguire

p.s. menzione doverosa per lo stand di Ales and Co: ho bevuto diverse birre, tutte di ottimo livello, ma in particolare una Mosaic di The Kernel strepitosa per quanto era fresca e fragrante.

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Il business della poesia

Non smette di ronzarmi nelle orecchie l’ultima frase di questo bel articolo del Newyorker sul modo di comunicare il vino: “At the end of the day, we’re selling poetry”. Che è poi un modo elegante e altisonante per raccontare il fallimento della presunzione di oggettività della degustazione.

Nel post si mette in luce la mutazione della descrizione dello stesso vino (Château Haut-Brion) da parte del noto critico James Suckling: da una singola, semplice frase (quando effettuata nel 1992) a ben sette frasi, intricate di richiami al tabacco, cioccolato al latte e cedro, nel 2009.
L’esempio è esemplificativo di un trend: in realtà le note di degustazione immaginifiche sono una invenzione relativamente moderna: ai tempi di Roma e antica Grecia e fino al diciannovesimo secolo ci si limitava a vergare dei giudizi di valore sul vino, tralasciando quasi completamente la descrizione organolettica.

Il lessico della moderna critica enologica è stato recentemente influenzato in maniera determinante da Ann Noble, chimica sensoriale presso il Department of Viticulture and Enology della Università di Davis California, che nel 1984 pubblicò la “Ruota dei sapori”, una rappresentazione circolare di descrittori, organizzati in categorie, da utilizzare nel raccontare gli aromi del vino (per la cronaca, il termine “minerale” non era presente).

L’intento della Noble era proprio quello di incoraggiare l’uso di termini specifici ed analitici e di fornire un lessico comune, ma dopo decenni possiamo concordare che lo sforzo non ha sortito gli effetti sperati: le descrizioni di un vino sono quasi sempre cariche di riferimenti non tanto ai “gusti” del prodotto, quanto ad elementi che nella nostra immaginazione individuale sembrano bene adattarsi a lui. Non solo: una ricerca dimostra che i vini più costosi ottengono quasi sempre narrazioni ricche di descrittori più specifici e di termini più pomposi a parità di significato.

La Guild of Sommeliers ha pubblicato un lavoro con il quale si suggerisce di utilizzare il nome dei composti chimici responsabili dei particolari odori del vino, quindi ecco “pirazine” e “tioli” al posto di “erbaceo” e “frutto della passione”.
Tentativo interessantissimo, ma lo stesso redattore della pubblicazione è ben
consapevole che questa metodologia toglie gran parte della poesia alle descrizioni, poesia che è poi uno dei principali veicoli commerciali del vino: “At the end of the day, we’re selling poetry.”

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Scurreria Beer & Bagel

A forza di sentir parlare della new wave dei pub di qualità a Genova, non potevo esimermi dal provare forse quello più interessante: Scurreria Beer & Bagel.
Il locale prende il nome dalla via in cui è ubicato, a pochi passi dalla cattedrale di San Lorenzo, molto comodo per chi arriva con i mezzi pubblici; anche i visitatori dell’Acquario (che spesso arrivano in città per tour “mordi e fuggi”) possono raggiungerlo in pochi minuti a piedi.

L’interno è quello di un pub dall’arredamento moderno, con l’illuminazione ben curata, e fortunatamente l’effetto non è troppo modaiolo; estetica a parte, quello che ci interessa davvero è il banco con le sue spine (12 più due a pompa, dice il sito), e devo dire che la selezione è davvero ben fatta: la sera della mia visita non ho trovato le vie occupate da nomi di grido, nessuna mappazza superalcolica o pigne resinose (giusto la Spaceman, dai, ma perlomeno è un prodotto ben fatto).
Piuttosto, un sidro, qualche italiana di qualità, un lambic, e soprattutto una ottima piccola selezione di birrifici tedeschi, segno che i titolari fanno ricerca, credono nelle loro scelte e sono in grado di selezionare i prodotti più adatti al periodo: con il caldo torrido c’è poco di meglio di una lager “vera”, bevibilissima, poco alcolica, con un aroma delicato di luppolo nobile.
Complimenti anche per la perfetta temperatura di servizio, ho bevuto quattro birre e nessuna è arrivata ghiacciata come troppo spesso accade: inutile avere prodotti di buon livello e poi mortificarli proponendoli a 4 gradi come una Heineken qualsiasi.

Tutto bene dunque? Quasi.
Sarò sfigato ma ho beccato subito il tavolino traballante, che è una cosa che mi scoccia perché fai gli interni di design (e son sicuro che li paghi un botto) e poi trascuri questi dettagli che puoi mettere a posto a costo zero in un minuto… Altro problemino: ad inizio serata, con solo pochi clienti, il locale è molto rumoroso e non oso immaginare il casino che può esserci col pienone.

Dettagli a parte, il punto dolente è il cibo.
D’accordo, è un pub, non un ristorante, però c’è qualcosa da rivedere: ho mangiato un bagel con il pastrami in cui era assente qualsiasi bilanciamento tra i sapori, con la senape che annientava ogni altro gusto, e poi un “hamburger del birraio” su cui vorrei spendere due parole.
Anzitutto censuro la mania di preparare panini di altezza disumana: l’uomo non ha le fauci di un coccodrillo, e addentare una roba più alta del palmo di una mano, oltre che essere a rischio di slogamento della mascella, porta inevitabilmente alla fuoriuscita della qualunque e alla conseguente macchia di pantaloni e camicie. Ma, dimensioni a parte, la carne è piuttosto dimenticabile e il pomodoro è insapore (e siamo ad agosto!!!).
Insomma, senza voli pindarici, mantenendo una proposta culinaria da pub, credo si potrebbe fare di più, se non altro per valorizzare al meglio l’ottima proposta birraria.

I prezzi mi sembrano adeguati alla posizione del locale e il personale è stato gentile; non ho fatto domande, ma sono sicuro siano in grado di consigliare e spiegare a dovere le birre, visto che le note sul menu mi sono sembrate ben fatte.

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Riviera Critical Beer

Non fai a tempo a stupirti di qualcuno che vuol riprovare a fare un festival di birre a Genova, ed ecco che a sorpresa spunta un’altra manifestazione a tema in riviera: Riviera Critical Beer.
Non ho idea di chi siano gli organizzatori (immagino persone del giro di Critical Wine), e i proclami sul sito mi fanno un po’ sorridere, ma l’elenco dei birrifici presenti dichiara alcuni nomi davvero interessanti, quindi direi che chi è in zona un salto potrebbe farlo: venerdì 4 e sabato 5 a Leivi.

 

 

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Il vino permaloso

Mi spiace che se la sia presa anche L’Internet Gourmet Angelo Peretti, che leggo sempre con gran piacere. Si è risentito lui, così come pure Luciano Pignataro.
Rewind: Michele Serra su L’Espresso scrive il suo solito pezzo settimanale dal tono ironico/satirico e stavolta lo dedica al vino. Lo stile è quello consueto, ma certo il risultato è un po’ debole, riuscendo al più a strappare un mezzo sorriso.
Questi i fatti, e ci si potrebbe fermare qui, o al massimo sprecare tre-secondi-tre per riflettere che con un contratto da rispettare si è costretti a scrivere anche se si ha poco da dire.

Invece sia Pignataro che Peretti, ma soprattutto molti dei loro lettori, si arrabbiano; alcuni dei commenti: “razzismo di sinistra”, “sembra Scanzi” (inteso in senso negativo), “Scanzi ha troppo rispetto per il vino… Michele lui qualche padrone ce l’ha”, “Serra … stavolta ha veramente scantonato scrivendo delle cose veramente di cattivo gusto”, “E c’era bisogno buttare merda addosso a destra e a manca”, eccetera.

Pur non volendo erigere approfondite analisi sociologiche sulle traballanti fondamenta dei commenti comparsi su di un paio di blog, è curioso notare come internet sia piena di esperti e/o appassionati che reclamano a gran voce un approccio diverso al vino, meno ingessato, più comunicativo, spontaneo, diretto e semplice, salvo poi gridare alla lesa maestà quando il Serra di turno si applica al tema buttando giù (con la mano sinistra, per dire il vero) qualche riga che vorrebbe essere ironica ed invece è solo banale ed annoiato mestiere.
Non era più sensato sbadigliare e passare oltre?

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Le grandi interviste :- ) di Centobicchieri: Papille Clandestine

IColgo una occasione: ero rimasto così sorpreso dalla notizia di un nuovo festival birrario a Genova da voler capire meglio chi era così matto da volersene accollare l’organizzazione.

I coraggiosi sono i tizi di Papille Clandestine, un trio che da tempo gestisce un blog a tema enogastronomico, di tanto in tanto organizza eventi (finora di dimensioni limitate) e che da poco ha deciso di darci dentro in maniera più strutturata, iniziando dalla creazione di una associazione culturale.


D: Parlami di Papille Clandestine: nasce come blog, vi seguo da tempo, ma mi pare che un po’ alla volta vi state sempre più confrontando con l’organizzazione di eventi. E’ un lavoro a tempo pieno? Lo è in divenire?

R: Papille nasce come blog, ma noi siamo nati come persone. In quanto tali ci piace fare bisboccia con gli amici e rapidamente papille è diventato un modo per conoscerne di nuovi, di amici, e una scusa per andare a scoprire tutti insieme posti nuovi. insomma, diciamo che le “cene papille” o gli eventi papilli, tre o quattro all’anno, sono stati una conseguenza quasi naturale. non abbiamo mai pensato di metterci esclusivamente a fare eventi, restiamo blogger – anche perché tutti e tre ci occupiamo di comunicazione per mestiere – però nel tempo ci abbiamo preso gusto.
Aggiungici che appunto sia per amicizie che per collaborazioni ci siamo trovati ad intessere una solida rete di relazioni sul territorio, insomma, alla fine ci siamo detti che era l’ora di uscire allo scoperto: qualche mese fa abbiamo creato l’associazione culturale papille clandestine, che sarà il braccio operativo papillo per tutto quello che riguarda serate, eventi, corsi e incontri.

D: Anche riguardo le birre mi pare di avere rilevato una vostra recente accelerazione, o sbaglio? La vostra impronta di riferimento è tradizionale (Belgio, Germania, equilibrio ecc.) o modernista (facciamolo strano, le collaborazioni, gli amari estremi ecc.)

R: Effettivamente l’ultimo anno abbiamo fatto diverse cose birrarie, anche se di nostro-nostro c’è stato solo il corso di degustazione – comunque una bella cosina venuta su con la massima soddisfazione di tutti.
In tanti altri eventi (vedi gli incontri con i birrai nei locali genovesi) ci siamo limitati ad aiutare nell’organizzazione e nella comunicazione di iniziative altrui, a volte sì pungolando qualche locale (leggi pure: rompendogli il belino). questa è una delle cose a cui più teniamo e che ti accennavamo precedentemente: il network, il fare rete, usare Papille come una risorsa per tutti quelli che vogliono fare qualcosa di qualità in questa città. quanto all’accelerazione, più che nostra, è di tutta la città – o almeno di tre-quattro locali che ci stanno lavorando bene.
Se poi vogliamo lodarci, crediamo che il successo del nostro corso di birra – e dei primi incontri – abbia convinto alcuni publican che la via era percorribile, insomma, che abbia dato un po’ di slancio a tutti.

D: Riguardo la manifestazione: non avete paura del pubblico genovese? Cosa avete pensato per non incappare in fallimenti come quelli del IBF e di Birre al Parco?

R: Siamo convinti che i tempi siano maturi. i segnali sono molti: il consumo di birra artigianale è aumentato, così come l’attenzione.
Anche a Genova. diverse manifestazioni sono andate molto bene negli anni scorsi (Critical Beer, anche se non è il nostro modello) così come la Birralonga. soprattutto quest’ultima: mille persone che hanno pagato 20 euro in anticipo e i biglietti esauriti giorni prima. vediamo locali come Kamun, i Troeggi e Scurreria – tutti e tre che propongono solo birra di qualità – pieni tutte le sere.
Altri che comunque pur essendo legati a distribuzioni commerciali liberano una via per marchi artigianali o craft e ci raccontano che quella via va alla grande.
Il movimento si è poi assestato in tutta Italia, e ci aspettiamo che in diversi vengano a Villa Bombrini anche da fuori Genova; non dico da Milano (anche se sappiamo già che da Milano verranno), ma basso Piemonte, riviere…
Gli errori dell’IBF e di Birre al Parco li abbiamo ovviamente analizzati, e la nostra risposta è: comunicazione (ci abbiamo messo una bella fetta di budget ed è in fondo il nostro mestiere) e relazioni e alleanze sul territorio. Inoltre abbiamo puntato su qualità e prezzi corretti. due cose che a Genova hanno sempre una certa importanza.

D: L’organizzazione del festival è tutta vostra o avete collaborazioni con altri enti (es. Compagnia della Birra, Mobi, ADB, Timossi ecc.)?

R: l’iniziativa è la prima grande prova dell’associazione culturale, che è nominalmente l’organizzatore.
L’iniziativa, appunto, perché poi per l’esecuzione come ti dicevamo stiamo ricevendo collaborazione da parte di tantissimi: birrai, locali, distributori, associazioni di settore e culturali (ci sarà una mostra fotografica e probabilmente una biciclettata). Abbiamo anche altre idee e contatti su cui lavoreremo nel prossimo mese.
Noi la pensiamo come una festa per la birra e per Genova, non per Papille: MOBI e Compagnia della Birra sono amici preziosi, così come i ragazzi di Critical Wine e Pint of Science.
Al netto di diversi loro soci che ci aiutano a titolo personale li abbiamo ufficialmente invitati a venire e mettere il loro banchetto al festival per raccontare quello che fanno, e speriamo che riescano a trovare il modo di organizzarsi per farlo.
Il tempo dei veti incrociati per noi è stato sepolto con la generazione che ci ha preceduto, noi trenta-quarantenni genovesi sappiamo tutti che in questa città uniti si vince e divisi si muore. Se il festival andrà bene, e andrà bene, sarà una ricchezza per tutti.

D: Io sono da un po’ fuori dal giro: come procede la scena birraria a Genova (produttori a parte)? C’è fermento? I locali storici mi sembrano un po’ passati di moda, i nuovi li stanno rimpiazzando degnamente per scelta e competenza?

R: Male, devi tornare a farti un giretto in centro!
Sì, la scena è cambiata. Noi riteniamo che sia cambiata in meglio, perché c’è più interesse e maggior scelta. poi certo, se uno ha nostalgia dei tempi pionieristici potrebbe vedere le cose diversamente.
Qualche nome: i Troeggi in via Chiabrera, il primo locale del centro che ha puntato esclusivamente sulla birra artigianale italiana; il Kamun Lab, la prima tap-room di un birrificio artigianale, con anche un paio di vie per birrifici ospiti; Scurreria Beer and Bagel, il primo vero locale genovese interamente dedicato alla birra di qualità sulla linea dei grandi locali romani e milanesi.
Tutti e tre stanno a cento metri l’uno dall’altro, che è una cosa fondamentale, probabilmente la vera grande differenza con i locali dell’era carbonara. a contorno tanti altri lavorano sulla birra di qualità: Pausa Caffè, Kowalski, lo stesso HB, Giangaspero alla Maddalena, l’Altrove, Machegotti, Locanda… di sicuro ce ne dimentichiamo qualcuno fuori dal centro.
Il messaggio che la birra buona tira è stato recepito anche dal principale distributore regionale, Timossi, che ha in catalogo un’ottima scelta di grandi birrifici craft dall’Italia e dall’Inghilterra.
Insomma, a noi è venuta sete, a te?

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Zibaldone minimo dei lemmi enogastronomici, parte seconda: il mito della mineralità

Non credo sia un caso che il lemma “mineralità” non sia presente né sul dizionario Gabrielli, né in quello Treccani…
Certo, esiste il più concreto Minerale agg. [dal lat. mediev. mineralis; v. miniera] ed è proprio questo l’oggetto del mio contendere odierno.

Per tagliare corto: se avessi potuto intascare un euro per ogni volta in cui ho ascoltato qualche enofanatico condire le sue valutazioni con questo termine (io stesso non sono del tutto innocente), potrei finalmente mettere in cantina qualche magnium di Krug: la mineralità declinata in tutto il suo rosario di pietra focaia, gesso, idrocarburo, polvere da sparo e chi più ne ha più ne metta, è chiaramente il mantra del momento, e se poi viene associata all’altrettanto à la page “biodinamico” ecco che lo winelover può finalmente raggiungere vette orgasmiche.
Certo sarebbe curioso verificare quanti di questi appassionati si siano sottoposti a sedute intensive di olfazione di selci, fiammiferi e taniche di cherosene, in modo da poi poterne confrontare i sentori con quelli emessi da un calice di Barolo, ma sorvoliamo…

La storia della mineralità nel vino è la chiara dimostrazione di come la gran parte di critici e appassionati del settore enologico siano dei conformisti aggrappati alla moda del momento, capaci di bersi acriticamente qualsiasi panzana e poi di ripeterla a pappagallo con la massima convinzione. Ad esempio la favoletta (immaginifica, certo) che un suolo ricco di composti particolari (classicamente vulcanico, o ricco di gesso o quarzo) sia in grado di trasporre queste caratteristiche al vitigno e da questo al mosto e infine al vino.

Ma andiamo per ordine, partendo però da un punto fermo: le eventuali molecole minerali presenti nel vino sono inodori in quanto non volatili. Questo è quanto dice la scienza, e potremmo fermarci qui.
Ma, non bastasse, possiamo ricostruire l’assurdità della tesi secondo la quale una vite piantata in un terreno ricco di un particolare minerale sarebbe in grado di assorbire molecole di questo elemento, trasferirle nell’acino e quindi lasciarle intonse nel vino, dopo tutte le trasformazioni apportate dalla fermentazione.
Anche fosse vero, e trascurando quanto scritto in precedenza riguardo il fatto che si tratta di sostanze non odorose, la concentrazione di minerali nell’uva (ad esempio potassio, zinco, rame, calcio, magnesio) è così irrisoria (si parla di decine di parti per milione o anche molto meno) da essere ben lontana dalla soglia di percettibilità umana.
E’ curioso poi che i divulgatori di questa “cinghia di trasmissione” si concentrino solo sulla mineralità e non teorizzino il passaggio anche di altri sentori, pure essi presenti in sabbia, limo o argilla.

Ancora più interessante è rilevare la confusione relativa a cosa i degustatori intendano per “mineralità”, in realtà una sorta di bidone-raccoglitore di sensazioni olfattive e gustative estremamente soggettive, tutte quante non riconducibili ai più classici e concreti “floreale”, “fruttato”, “speziato”, legate comunque alla componente culturale individuale, quindi con significati diversi per persone diverse: si passa dai sentori di idrocarburo e alla salinità per arrivare fino alla pietra focaia, alla gomma bruciata e allo zolfo, mettendo assieme descrizioni che oggettivamente hanno poco in comune l’una con l’altra; infatti molti ricercatori ipotizzano che chi parla di mineralità stia in realtà sentendo qualcosa che non sa descrivere.

L’obiezione ovvia è che la nostra esperienza sembra dimostrare che certi minerali abbiano un odore: pensiamo ad esempio di annusare un sasso estratto da un ruscello di montagna; in realtà quello che percepiamo scaturisce da trasformazioni attivate dall’acqua, che causano il rilascio di composti organici presenti sulla superficie della pietra, quindi è quantomeno discutibile ricondurre queste sensazioni al “minerale” ed è certamente errato abbinarle ad un legame diretto con la composizione del terreno.
I descrittori che comunemente si associano al “minerale”, sono comunemente avvertiti, come spiega il professor Attilio Scienza, in vini capaci di notevole invecchiamento, con alta acidità e provenienti da zone fredde e molto luminose con fotoperiodo ampio e luce dalla particolare gamma energetica, tutte condizioni che stimolano la formazione di particolari tioli (composti organici).

Questo bel articolo, ricco di fonti accademiche documentate, ripercorre la storia dell’uso del termine: si scopre che fino a qualche anno fa ben poche regioni vitivinicole venivano associate alla mineralità, men che mai quelle più calde (proprio il contrario di quel che accade oggi), tanto è vero che il termine era assente sia nel libro di Peynaud “Il gusto del vino” sia nella Ruota Sensoriale di Ann Noble, rispettivamente del 1983 e 1984.
Si legge anche di un notevole cambiamento di approccio riguardo il Sauvignon bianco del distretto di Marlborough, Australia: negli studi sulle vendemmie del 2003-4 non si trovava menzione del termine “minerale” o dei suoi descrittori, le analisi del 2007 giudicavano i vini con un alto livello di percezione minerale come poco rispondenti alla tipicità e al varietale, mentre nel 2011 una elevata mineralità era associata ad una alta tipicità; in meno di un decennio la percezione comune è totalmente cambiata: non male per un argomento, come il vino, che vanta tradizioni e ritualità millenarie!
Lo stesso studio suggerisce inoltre che, in questo specifico caso australiano, il montare di percezioni minerali potrebbe essere dovuto alla massiccia adozione di chiusure a vite che avrebbero incrementato sensibilmente le note riduttive, decodificate dai degustatori come sentori appunto “affumicati” o “minerali”, e che comunque la sensazione minerale sia associata ad una maggiore acidità percepita.

Ricapitolando, è sicuramente vero che il terreno (così come il clima, il vitigno e l’opera dell’uomo) influenza gli aromi del vino, e che in certi vini troviamo ricordi di zolfo o idrocarburo, ma di certo l’uso del termine “mineralità” nell’esame olfattivo è abusato e anzi, molto spesso, del tutto errato. Soprattutto è scientificamente errata la correlazione tra i sentori minerali presenti nel bicchiere e la composizione del terreno sul quale sono state coltivate le uve, associazione che, per inciso, è un tasto molto battuto anche dai produttori, in quanto volano di esaltazione di un’altro dei dogmi attuali, quello del “terroir”, su cui ci sarebbe molto da discutere… Magari in un prossimo articolo.

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