Rosé Cuvée del Frati 2009, Ca’ dei Frati

Mea culpa: sono sempre troppo scettico per quanto riguarda i vini metodo classico prodotti al di fuori delle zone tradizionalmente vocate (Champagne, ça va sans dire, Franciacorta, Trento… già l’Oltrepo Pavese mi sembra una roba esotica… ). Si tratta di sensazioni indotte dalla tradizione di certi territori, ma, temo, anche dalla mera quantità di bottiglie prodotte e dal sapiente marketing.
Nel caso di questo Rosé Cuvée del Frati della azienda Ca’ dei Frati di Sirmione il mio scetticismo si moltiplica, trattandosi di bolle rosa (una tipologia che assaggio raramente, a causa di qualche delusione), per giunta prodotte da vitigni non tradizionalmente alfieri della spumantizzazione (Groppello, Marzemino, Sangiovese e Barbera): sono troppo sincero se dico che temevo l’effetto “facciamo già altri vini, buttiamo dentro delle bolle e vediamo che succede”?

cuvee_dei_fratiDenominazioneVSQPRD
Vino: Rosé Cuvée del Frati
Azienda: Ca’ dei Frati
Anno: 2009
Prezzo: 15 euro

Al solito, velocemente i dati tecnici: uve provenienti da Desenzano del Garda, vinificazione in acciaio, malolattica non svolta, 24 mesi sui lieviti.

Intanto il colore è interessante: un bel buccia di cipolla scarico ma luminoso, e la bolla è fine anche se magari non particolarmente copiosa e non molto continua.

Il naso è lieve (c’è un tostato appena avvertibile, contornato da bitter, fragola e rosa), mentre la bocca è piena senza comunque essere potente; più sapido che acido, sicuramente ben fresco e molto equilibrato, con un accenno di tannino; il dosaggio mi sembra ben bilanciato, per nulla fastidioso. Lunghezza discreta, qualche pecca nella complessità.

Quanto sopra per un vino molto facile, non nervoso e verticale ma rotondo (per quanto possa esserlo un metodo classico non stucchevole), dalla bolla non aggressiva, delicato ma gustoso, e con nessuna amarezza finale.
Lo vedo semplice anche nell’abbinamento: direi antipasti di salumi, piatti a base di pesce, preparazioni di carne non troppo strutturate.

Sboccatura indicata in retro etichetta (ma solo l’anno, non il mese: uffa) e buon rapporto qualità prezzo.

Il bello: piacevole, versatilità nell’abbinamento
Il meno bello: semplice, poco sorprendente sia al naso che in bocca

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Balter Brut: ottimo rapporto qualità prezzo

La denominazione Franciacorta goda di notorietà tanto superiore rispetto ad altre realtà spumantistiche italiane per vari motivi: i meri numeri (la quantità di bottiglie prodotte di fatto rende la DOCG lombarda “IL” metodo classico italiano), l’ottimo lavoro di comunicazione svolto dal Consorzio, la grande imprenditorialità delle aziende coinvolte e, certo, una qualità media di buon livello con punte di sicura eccellenza.

Resta il fatto che ci sono altre zone in Italia in cui si imbottiglia ottimo metodo classico, penso in particolare a Trento, che può vantare una ottima propensione territoriale per la produzione di questa tipologia e altrettanta tradizione (basti pensare alle storiche Cantine Ferrari).

Un produttore che non conoscevo e che è entrato recentemente nella mia enoteca di fiducia è Balter: 10 ettari su di una collina a 350 metri, accanto a Rovereto. L’azienda produce anche alcuni vini fermi bianchi e rossi ma è sicuramente più nota per gli spumanti, dei quali ho assaggiato il Brut “base” e la Riserva.
A seguire, le mie impressioni sul Brut, prodotto da sola uva Chardonnay raccolta manualmente e fermentata parte in acciaio e parte in piccole botti di rovere, con sboccatura dopo 36 mesi sui lieviti.

Denominazione: Trento DOC
Vino: Brut
Azienda: Balter
Anno: –
Prezzo: 15 euro

balterBello da vedere: giallo paglierino con accenni dorati, schiuma abbondante, bolla fitta, continua e molto fine.
Olfattivo lieve, non di grande complessità (agrume, fiori bianchi), ma sicuramente piacevole e fresco. Quando si scalda ho l’impressione di avvertire un leggero anice e anche una lontana eco del rovere.
In bocca la sensazione che risalta è l’equilibrio: il dosaggio si avverte ma non è fastidioso, la bolla è presente ma senza essere aggressiva. La freschezza è ottima, e il finale è di media lunghezza.

Direi che è un vino facile (“facile” nel senso buono del termine: può piacere sia all’appassionato più smaliziato che al bevitore occasionale), ma di qualità e dall’ottimo rapporto qualità/prezzo.

Indicato in retroetichetta l’anno di sboccatura (2012, in questo caso): bene, ma mi piacerebbe che fosse riportato anche il mese.

Il bello: grande equilibrio e ottimo prezzo
Il meno bello: poca complessità olfattiva

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Haderburg Brut: solide certezze

Denominazione: Alto Adige DOC
Vino: Brut
Azienda: Haderburg
Anno: –
Prezzo: 18 euro

haderburg brutA volte capita che hai voglia di bolle (vabbè, “a volte” è un eufemismo: hai sempre voglia di bolle) ma non vuoi spendere una fortuna e non vuoi fare esperimenti rischiosi.
Ecco, sono queste le situazioni tipiche in cui c’è un nome che non tradisce: Haderburg.

Azienda di Salorno che possiede circa 5,5 ettari di vigneti coltivati a Chardonnay, Pinot Nero e Sauvignon, distribuiti su 350 – 500 metri di altitudine e condotti in biodinamica, Haderburg produce una ampia gamma di vini fermi, bianchi e rossi, assemblaggi e monovitigno, ma è famosa in particolare per i suoi metodo classico: il Brut base, il Rosè, il Pas Dosé e l’Hausmannof (una riserva millesimata di chardonnay, prodotta in numero limitato di bottiglie, solo in annate particolari e con 96 mesi di affinamento sui lieviti).

Si diceva di bolle ad alto rapporto qualità-prezzo, e il Brut base è perfettamente in linea con questa richiesta.
Brevemente, i dati tecnici: prodotto con rese di circa 60 quintali per ettaro, 85% Chardonnay e 15% Pinot Nero, fermentazione e affinamento in acciaio, 30 mesi sui lieviti, malolattica non svolta.

Aspetto giallo paglierino brillante, con bolle sottili e molto numerose; olfattivo lieve, con descrittori canonici di crosta di pane, agrume e fiori bianchi, non complesso ma finemente piacevole.

In bocca entra pieno, secco e intenso, con bella freschezza ma non tagliente; il dosaggio è fortunatamente poco avvertibile: i 5,5 g/l dichiarati sono ben bilanciati.
Sul palato tornano i sapori avvertiti al naso, e in aggiunta c’è un ricordo di miele.
La bolla è vivace senza essere aggressiva, e c’è corpo; il finale non troppo lungo e leggermente amaro è l’unico punto debole della bevuta.
Ho notato che funziona bene anche ad una temperatura di qualche grado superiore a quella consigliata per i vini spumanti.

Un metodo classico di montagna e che ricorda la montagna: verticale, duro senza essere estremo come certi Pas Dosé, riesce quindi piacevolmente bevibile a tutti, appassionati e non; una bottiglia con cui andare sul sicuro, mai trovata in condizioni meno che buone, meno piaciona e più di sostanza rispetto a tanti Franciacorta base che giocano nella stessa categoria.

Degna di nota in retroetichetta la data di sboccatura: dateci una occhiata prima di procedere all’acquisto, e scegliete un prodotto piuttosto “fresco”.

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Lahaye Cuvée Prestige Blanc de Noirs

Denominazione: Champagne
Vino: Cuvée Prestige Blanc de Noirs
Azienda: Benoit Lahaye
Anno: – (cuvée)
Prezzo: 47 euro

champagne lahayeBenoit Lahaye è uno dei vigneron di culto delle (ormai neppure troppo) nuove tendenze champagnistiche che rigettano le grandi maison e vogliono la produzione bio-qualcosa.
Ho poche notizie su questa Cuvée Prestige Blanc de Noirs: proviene appunto da coltivazioni biodinamiche, credo in gran parte da Bouzy e il resto da Ambonnay; leggo in giro di una buona percentuale di vini di riserva, di malolattica parziale e di affinamento in legno.

Colore paglierino; naso intensissimo, quasi inebriante nella sua potenza, comunque complessa e suadente; è forse la parte migliore del vino: c’è il lievito (alla grande), poi l’agrume e, molto interessante, un tocco di grande freschezza (pino, anice e mela acerba); ad ogni modo il quadro cambia costantemente col passare dei minuti e aspettando il giusto arriva a far capolino anche il miele.

Bolla finissima, avvolgente e per nulla aggressiva, e poi sapidità e freschezza, con acidità notevole senza essere tagliente, e calore praticamente assente: un vino di ottimo equilibrio.
Corpo non eccessivo, non è certo un vino “ciccione”: qui la potenza del pinot nero è decisamente mitigata e si gioca sulle sottigliezze, difatti in bocca quasi si nasconde per un attimo, per poi tornare prepotente nel finale che chiude senza sensazioni amare.

Retrolfattivo molto lungo e dosaggio quasi inavvertibile; sicuramente tutte le fasi sono estremamente armoniche e danno vita a un grande vino, dove niente è fuori posto e che si berrebbe a secchi anche da solo, pur se il miglior consumo consigliabile è quello a pasto.

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La Pierre de la Justice: 1er Cru abbordabile

Denominazione: Champagne
Vino: La Pierre de la Justice
Azienda: Laherte Frères
Anno: – (cuvée)
Prezzo: 35 euro

la-pierre-de-la-justiceUno champagne 1er Cru a meno di quaranta euro non è impossibile da trovare, ma certo non capita tutti i giorni.

Questo Blanc de Blancs “La Pierre de la Justice”, prodotto a Voipreux, al centro della Cotes des Blancs dalla azienda Laherte (da tempo a conduzione biodinamica, circa 70.000 bottiglie l’anno), proviene da una parcella del 1961 con rese necessariamente basse, vinificazione esclusivamente in acciaio, assemblaggio di vini con un 30% di vini di riserva e svolgimento della malolattica.

Ne risulta un vino dal colore tra paglierino e dorato, con bolla molto fine, non particolarmente numerosa e non troppo aggressiva.
Il naso è di mela verde e agrumi, limone e lievito (pasticceria); se lasciato nel bicchiere per alcuni minuti migliora, perdendo spigolosità e arricchendosi di intensità e complessità (ad esempio arriva una punta di anice).

In bocca parte leggero, quasi sfuggente, poi il corpo prende vita fino ad una media robustezza e chiude con forza, ricco di acidità e sapidità, ma senza squilibrio in favore delle durezze (immagino che la malolattica ci abbia messo del suo); le sensazioni olfattive sono confermate, accentuando forse troppo il limone ma aggiungendo una discreta mineralità. Peccato un minimo accenno di sensazione amara alla base della lingua.
Il dosaggio dichiarato è di 6-7 g/l, in effetti davvero poco avvertibile. Finale ben lungo.

Degno di nota, sul retro etichetta è riportata la data di sboccatura: nel mio caso (3/2011) non recentissima, e forse il vino avrebbe potuto essere anche migliore. Buttateci un occhio in caso di acquisto.

Anche se normalmente si pensa più ai Blanc de Noir per il pasto, trovo che “La Pierre de la Justice”, grazie al buon compromesso fra corpo, complessità e freschezza, sia adatto non solo ad antipasti ma anche a pietanze di discreta importanza.

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Bolle per tutti: i vini spumanti

Tempo di feste uguale tempo di vini con le bollicine.

Non mi è ben chiaro per quale motivo, ma in generale in Italia questa tipologia di vino si consuma quasi solamente sotto l’albero o comunque in momenti di celebrazione, magari con vini secchi in criminale abbinamento al panettone.
Detto che per me le bolle sono uno dei piaceri della vita e che mi faccio promotore di un comitato che ne sponsorizzi il consumo se non quotidiano perlomeno settimanale, credo di fare cosa gradita (dopo aver sentito vari discorsi in la confusione regna sovrana su dosaggio, metodo di lavorazione ecc) proponendo la mia semplificazione sulla faccenda.

Intanto facciamo chiarezza sulla principale differenza: la spumantizzazione può avvenire o con Metodo Classico (anche detto della rifermentazione in bottiglia o champenoise) o con Metodo Martinotti-Charmat (solita diatriba italo-gallica: Martinotti lo ha ideato e il francese lo ha utilizzato e brevettato).
Esiste anche un metodo, poco usato, detto “Charmat lungo”, che è una sorta di ibrido dei due.

Il Metodo Martinotti-Charmat:
è particolarmente indicato per vini spumanti prodotti da uve aromatiche o semiaromatiche (brachetto, moscato, prosecco/glera, malvasia), con le quali si ottiene un prodotto semplice, da bere giovane, con colore tenue verdolino/paglierino, fruttato e di gradevole freschezza, che può essere secco, amabile o dolce.
Si parte da un vino base, fermo, a cui viene aggiunto un “liquore di tiraggio”, composto da vino, lieviti, zuccheri e sali minerali, grazie al quale in autoclave (un contenitore ermetico resistente alla pressione) avviene la presa di spuma, che dura pochi mesi, nei quali i lieviti convertono gli zuccheri in alcol e anidride carbonica; la quantità di zucchero determina la pressione finale (una atmosfera ogni quattro grammi/litro).
Seguono la filtrazione e l’imbottigliamento isobarico (cioè mantenendo la pressione originale).

Il Metodo Classico o Champenoise:
si ottiene un prodotto più maturo, complesso e strutturato rispetto al metodo Martinotti.
Le uve vengono raccolte leggermente in anticipo (in modo da ottenere maggiore acidità) e trattate con pressatura soffice e temperatura controllata; di solito la fermentazione viene innescata con l’inoculo di un “pied de cuve”, composto da lieviti, zuccheri e altre sostanze nutrienti.
Si ottengono così dei vini base da assemblare nella “cuvée”, una miscela di diverse vigne e annate, creata per garantire costante lo stile gustativo della casa di produzione. Se  la cuvée è composta da almeno l’85% dei vini della stessa annata, si può parlare di “millesimato”, altrimenti di “sans année”.
La cuvée con in aggiunta il “liquore di tiraggio” viene imbottigliata in modo da ottenere la presa di spuma, con una pressione generalmente di 6 atmosfere (24 grammi/litro di zuccheri).
Nel giro di circa sei mesi il lievito consuma tutti gli zuccheri e si degrada con processo di autolisi, che regala aromi e profumi complessi, spesso di crosta di pane; questo affinamento “sui lieviti” si prolunga da 15-18 mesi a molti anni, a seconda del produttore e del prestigio del vino che si vuole ottenere.
Terminato l’affinamento, le bottiglie vengono inclinate e ruotate periodicamente per un paio di mesi: è il “remuage”, che ha lo scopo di concentrare tutte le fecce nel collo della bottiglia. Questi scarti verranno espulsi tramite la “sboccatura”: la bottiglia viene stappata e la sovrapressione espelle le fecce.
Prima di ritappare, occorre rabboccare la bottiglia per compensare il liquido perso con la manovra di sboccatura: la manovra viene effettuata tramite il “liquore di spedizione”, una miscela di zucchero, vino e a volte distillato diversa da produttore a produttore e che determina la dolcezza finale del prodotto.

La classificazione dei vini spumanti è basata sulla quantità di zuccheri residui nel prodotto finale:

Denominazione Zuccheri residui (g/l)
Pas dosé / Brut nature / Dosaggio zero ecc. <3
Extra brut <=6
Brut <12
Extra dry 12-17
Dry 17-32
Demi sec 32-50
Doux >50

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La cena del sommelier Gennarino Carunchio

Gennarino CarunchioDa quanto tempo non provate una robusta, sana, ruspante invidia sociale? Non intendo una di quelle gelosie tipiche di questi tempi oscuri per la quale tu, disoccupato, provi odio nei confronti del tuo vicino di casa che ha ancora il salario da camionista, ma proprio quel desueto senso anni settanta di appartenenza ad un classe diversa, inferiore.
Insomma, da quanto non vi sentite Gennarino Carunchio?

A me è capitato la scorsa settimana.
Gradito ospite-Calimero ad una “cena prestigiosa” (si dice così, vero?) nella quale sono stati bevuti vini che definire colossali è un eufemismo, con la mia foga da eno-parvenu ho avventato per primo il naso nel bicchiere di un Margaux 1971 e mi è balzato alla mente De André: “La morte verrà all’improvviso, avrà le tue labbra e i tuoi occhi”, e, ho aggiunto, il tuo olfatto.
TAPPO!
Ho alzato timidamente la manina per comunicarlo agli altri commensali, che hanno concordato: è proprio tappo.

Ora, il mio elenco di smoccolamenti assortiti potete immaginarlo: quando mai ricapiterà a me, Carunchio Gennarino, di sedere nuovamente al desco dei Signori per assaporare il nettare divino? Ingenuamente pensavo però che anche i Re, nel loro piccolo, si incazzassero: è qui che sbagliavo, è qui che ho capito la differenza che corre tra me e gli Onnipotenti ed è qui che si è risvegliato il mio sopito stimolo alla invidia di classe.
Per farla breve, il proprietario della bottiglia non ha fatto un plissé e, con tutta la calma e la serenità del mondo, intercalando tra un discorso e l’altro, ha dichiarato sorridendo: “Pazienza, apriamo Château Ausone ’75”.
Stop. Nessuna litania sui santi o testata contro il muro. Questa è classe, caro Gennarino!

Facezie (insomma…) a parte, l’invito di un amico gentile (che mai potrò ringraziare abbastanza) mi ha permesso di imbucarmi all’evento; ovviamente ci tengo a raccontarvi tutto, così da farvi rodere il fegato alla grande e controbilanciare la mia invidia di cui sopra con un sapiente colpo di karma.

ChampagnePronti via: con gli antipasti abbiamo stappato due Champagne: Salon 1985 e Bollinger R.D. 1988.
Chi legge il blog conosce forse il mio amore per le bollicine, ma qui siamo fuori scala: intanto vini perfetti, senza ombra di sfregio da parte del tempo, che anzi ha contribuito ad evolvere il profilo gustativo verso vette difficilmente immaginabili.
In entrambi i casi la bolla è ancora vitale e copiosa, ma talmente sottile e delicata da risultare cremosa; Salon in particolare si presenta già dal colore, quasi ambrato, come qualcosa di “altro” rispetto ad un normale Champagne: trasfigurato in una dimensione a sé, nettamente evoluto ma sapido, complesso in maniera imbarazzante, con note che dal miele di acacia arrivano al caseario, passando per la canonica pasticceria. Monumentale.
Bollinger: appena versato parte più tranquillo, più Champagne nel colore e con un corredo aromatico meno ampio (si fa per dire) e meno intenso, ma dalla sua ha maggiore freschezza e mineralità e, nonostante una potenza superiore (immagino regalata dal Pinot nero) è forse più adatto agli antipasti. In ogni caso col passare dei minuti diventa più intrigante: si infittisce la sapidità e si rinforzano la crosta di pane e la mela ed esce un accenno di fungo.

Clos de BezeCon la prima portata è arrivato il signore e padrone incontrastato della serata: Chambertin Clos de Beze 1987 Luis Jadot.
Classico colore da Borgogna, scarico ma ancora vivissimo, è soprattutto l’olfattivo ad impressionare: c’è tutto quello che vi viene in mente e anche di più, il piccolo frutto, la terra, il bosco, il balsamico, il selvatico e persino un accenno di agrume maturo. Da manuale AIS sarebbe ampio, molto intenso ed eccellente. Da assaggiatore, chiudi gli occhi e sei in mezzo ad una collina francese. Stop.
In bocca è altrettanto perfetto: è caldo ma l’alcol non si sente per nulla, è fresco ma l’acidità non graffia, e il tannino è lieve e setoso.
Il Pinot nero nella sua massima espressione, una bottiglia aperta credo nel momento di massima grazia in cui nessun elemento spicca o ne sovrasta un altro e tutto si fonde in un insieme per descrivere il quale occorre, una volta tanto a ragione, scomodare il mitico termine “armonico”
In una parola: il Vino con la V maiuscola.
Nota a margine: il problema di una bottiglia del genere è che d’ora in poi ogni altro assaggio uscirà impietosamente demolito dal confronto: dovrò darmi al chinotto o alla aranciata.

Château AusoneDi Château Margaux e del relativo tappo abbiamo parlato, quindi passiamo a Château Ausone ’75. Vino enigmatico: arriva completamente muto, del tutto chiuso nonostante l’apertura effettuata due ore prima e la seguente scaraffatura.
Ci vorranno ancora molti minuti e tanti giri di polso per stanarlo: il colore è ancora giovanissimo e concentrato, finalmente escono gli aromi e c’è un sorprendente e nettissimo caffè, poi spezie in quantità e un tannino vivo, ben definito e piacevole.
Interessante, ma siamo ad anni luce dal Clos de Beze.

SauternesSi chiude la partita con gli erborinati, accompagnati da Château Suduiraut 1975.
I vini dolci non sono il mio terreno di gioco preferito, ma non posso fare a meno di ammirare la grandezza di questo Sauternes: alla vista colore carico, brillante e densità non eccessiva per la tipologia; al naso tutta la declinazione del muffato nobile, la frutta secca, l’albicocca disidratata, il miele, la frutta tropicale e soprattutto uno zafferano immenso, inarrestabile.
L’assaggio ripropone le stesse sensazioni dell’olfattivo, in più è lunghissimo, di una persistenza oltre ogni confine: trascorsa mezz’ora dopo aver mangiato i formaggi, avevo ancora lo zafferano in bocca…

In conclusione, che dire della serata?
Ho imparato sicuramente qualcosa, in primis che il sentimento dell’invidia mi appartiene e mi consuma nonostante io non voglia, ma a parte questo ho capito che esistono vini di una finezza che fino ad oggi avevo solo immaginato, e che purtroppo sono riservati a pochi, fortunati semi-mortali.
E mi sono accorto che, per noi Gennarini, una batteria di questo calibro è troppo, in particolare se abbinata ad una cena quasi altrettanto sontuosa: tutta questa grazia ti assale e ti sovrasta, e ti rende quasi incapace di capire e di godere appieno: non arrivo ancora a pensarla in toto come Francesca, ma quasi quasi…

 

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Lenza, un Franciacorta outsider

Amo i vini bianchi e amo le bollicine.

Lo spumante metodo classico italiano per antonomasia è ormai il Franciacorta (ok, lo so che non posso usare i termini generici “spumante” e “bollicine”, e se Maurizio Zanella, il presidente del Consorzio per la Tutela del Franciacorta, dovesse leggere queste righe mi bacchetterebbe, ma ce ne faremo una ragione), anche se si potrebbe discutere a lungo su tante aziende di questa zona, sulle cuvée base di molti marchi blasonati e su prezzi mediamente non popolari.
Seriamente: l’espressione “Franciacorta”, caso unico nel panorama italiano, identifica un vino DOCG, un territorio (in provincia di Brescia, vicino alla parte meridionale del lago di Iseo) e un metodo di produzione (il famoso metodo classico della rifermentazione in bottiglia).

Nello specifico, la degustazione di questo venerdì presso la solita Cantina du Pusu di Rapallo, presentava la gamma di un produttore di Franciacorta tanto storico quanto poco noto al grande pubblico e non pervenuto sulle varie guide: l’Azienda Agricola Lenza.
L’azienda esiste dal 1967, è stata la prima della zona a produrre le tipologie rosé ed extra brut ed ha la particolarità di coltivare su colline terrazzate a circa 350 metri di altitudine.

E’ stata l’occasione per assaggiare un nuovo prodotto, il brut Levi: uno spumante bollicina metodo classico Franciacorta (contento, Maurizio?) da chardonnay 100%, fresco e facile, che staziona comunque 24 mesi sui lieviti (quando il minimo consentito dal disciplinare è 18), e che nelle preferenze di chi è intervenuto ha battuto il brut “storico” della casa, pure lui chardonnay in purezza, ma con 48 mesi di affinamento sui lieviti.

Terzo vino presentato, l’extra brut (chardonnay 90%, pinot bianco 10%, ben 72 mesi di affinamento), forse il prodotto che ho preferito: complesso ma non difficile, secchissimo (direi quasi un pas dosé), senza eccessi amarognoli nel finale, abbastanza lungo. Come si dice in questi casi, da berne a secchi.

Quarto vino, una tipologia che personalmente non amo ma che ha una sua nicchia di consumatori ben definita: il Saten (60 mesi sui lieviti). In realtà Lenza, non ho ben capito per quale motivo, lo chiama Cremant, ma di fatto la metodologia di produzione (chardonnay 100%, sovrapressione inferiore rispetto ai soliti 6 bar, leggero dosaggio) è quella appunto del Saten. Devo ammettere che, pur non essendo il mio territorio gustativo di elezione, la morbidezza non è eccessiva, impedendo di scadere nello stucchevole. Ad occhio, direi che è stato il preferito dal pubblico femminile.

Ultimo vino, il Rosè. Si tratta di un non dosato prodotto con una sorta di metodo solera da uve 100% pinot nero (e si sente per la pienezza del gusto, terroso e lampone in testa, e per il corpo decisamente presente). Io ho trovato anche un accenno di tannino, che da quanto mi dicono dovrebbe provenire non dal contatto con le bucce ma dal legno. Sicuramente un vino molto particolare, non adatto a tutti i palati e di certo da consumare pasteggiando, magari con pietanze sostanziose. Anche il prezzo non è per tutti: siamo sui 35 euro.

In conclusione, una bella gamma di vini, con prezzo adeguato (discutibile solo il rosé), nella quale riscontro una certa sovrapposizione tra i due brut, e non è difficile immaginare che a breve il secondo possa sparire per lasciare spazio al più fresco, differenziandolo meglio dal extra brut.

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Bollinger Special Cuvée: classico senza tempo

Bollinger special cuveeGià dire che ti piace lo Champagne è da sboroni, ma aggiungere che uno di quelli che preferisci è Bollinger rasenta l’indifendibile.

La maison di Ay non è infatti uno dei piccoli récoltant-manipulant che vanno oggi per la maggiore, magari biologici o biodinamici, ma uno dei grandi marchi storici della regione: è stata fondata nel 1829, gestisce oltre 150 ettari di vigne ed è stata una delle prime a capire l’importanza del marketing (quale Champagne pensate bevano molti dei James Bond cinematografici?).

Quindi, a rischio di fare la figura del parvenu arricchito (magari…), mi sono fatto un regalo: ho investito 49 euro in una bottiglia di Bollinger Special Cuvée, uno dei vini che preferisco in assoluto.
Si tratta del prodotto base di Bollinger, come dice il nome stesso una cuvée, quindi un assemblaggio di diverse annate e diversi cru, composto da 60% Pinot nero, 25 Chardonnay, 15 Pinot Meunier.
Le uve provengono quasi totalmente dalla vendemmia dell’anno, più il 10% circa di vini di riserva, che possono essere raggiungere fino a quindici anni di invecchiamento.

I vini base da cui la maison ricava i suoi Champagne, fermentati in legno di rovere, sono ovviamente di livello notevolissimo, basti pensare che l’85% circa dei vigneti di proprietà è classificato Grand Cru o Premier Cru e la vinificazione è fatta solo con la prima spremitura delle uve (2050 Litri ogni 4000 Kg di uva; la seconda spremitura, detta “première taille” viene venduta ad altre cantine).
Inoltre Bollinger lascia maturare sui lieviti per almeno tre anni (i non millesimati, molti di più i grandi vini), contro i quindici mesi previsti dal disciplinare

Ok, bei discorsi, ma alla fine come è questa Special Cuvée?
Giallo dorato brillante, mentre si versa forma una spuma esplosiva: gonfia e persistente, così come le bolle, numerose e finissime e setose, per nulla aggressive al palato.

L’olfattivo è ricchissimo: pan di spagna, limone, ananas, arachidi, leggera speziatura e tostatura.
Ricordo che una volta, a proposito dello stesso vino, lessi il descrittore “olio di semi di girasole” e mi sembrò una minchiata colossale, ma in effetti ce n’è un ricordo.

In bocca è ben secco ma non tagliente, più fresco che sapido, pieno senza essere opulento: la potenza del pinot nero è ben controllata dal corpo e dall’assemblaggio con gli altri vitigni, così come le durezze sono stemperate dalla malolattica e dal leggero dosaggio (otto, nove grammi per litro). Tornano la panificazione e la sensazione citrina.
Finisce elegante, con un retro olfattivo abbastanza lungo.

Sicuramente da consumare a tutto pasto, ma stasera io sono pigro e degusto con prosciutto San Daniele, parmigiano e focaccia genovese: grande abbinamento, semplice e da piacere puro.
Un pochino mi vergogno, pensando che un vino del genere meriti di più, ma poi vedo il sito di Bollinger e sorrido: nei “Pairings” (abbinamenti) consigliati, si indicano tra gli altri “parmesan, prosciutto especially Pata Negra”.

Vale i soldi che costa? Sì, no, forse.
Esiste un vino che valga più di 15 euro? E’ morale spendere quarantanove sacchi per una bottiglia?
Io non so rispondere e so che sicuramente non posso permettermelo tutti i mesi, ma di certo per chi ama le bollicine è una esperienza notevole.
Ci tengo a far notare che uno dei punti di forza di maison come Bollinger è la costanza: quando tiri fuori i soldi sai cosa comperi e sei certo che non ci saranno sorprese.
C’è meno poesia rispetto al “prodotto unico”, forse, ma visto l’impegno economico direi che ne vale la pena.

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