Ristorante Violetta, Calamandrana

Non so bene quando, ma ad un certo punto il ristorante Violetta si è regalato un nuovo sito (intrernet, intendo: la locazione fisica è sempre la stessa) al posto della paginetta precedente, che sembrava un residuato di inizio anni 90.
Lasciando perdere che il vuvuvù nuovo pare pure lui teletrasportato da un passato (appena un po’ meno) remoto, dato l’evento immaginavo e un po’ temevo fosse intervenuto un nuovo corso a stravolgere uno dei ritrovi storici della zona, ma così non è.

La Violetta di Calamandrana resta il ristorante che conoscevo: piedi saldi nella tradizione culinaria Piemontese e la volontà di essere qualcosa di più di una trattoria (anche nei prezzi), certificata dall’ambiente curato e dal servizio fin troppo affettato (ho smesso di contare i “grazie signore” dopo circa 10 minuti, quando il totalizzatore già era schizzato alle stelle).

Il risultato è ambiguo: il cibo è buono, nulla da dire: plin perfetti e leggeri, stracotto che si scioglie in bocca ed è impossibile resistere, devi fare scarpetta, faraona ripiena gustosa e finanche elegante. Eccetera. La carta dei vini è come te la aspetti: centratissima sui nomi del posto, con una sfilza di barbere da far girare la testa e ricarichi onesti.

Di contro il menù è sempre lo stesso, inchiodato, e pazienza, ma soprattutto (ed è una cosa che non sopporto) non ti lasciano la carta, che non esiste, ma ti elencano le portate a voce, quindi non sai cosa spenderai e devi decidere in un amen davanti a chi recita il rosario… Fastidiosissimo.
Ancora, come dicevo prima, il servizio è sicuramente troppo ossequioso e fa pendant con la sala curata ma un po’ demodé.

Conto quasi corretto: alla fine, a spanne, si spende sui 12 euro a portata (primi e secondi): qualche inchino e tovaglietta in meno potrebbero limare gli spiccioli e perfezionare quella che è una (ottima) trattoria, oppure si abbia il coraggio di fare il passo e traghettare la cucina verso qualcosa di più impegnativo e, certo, adeguare al rialzo i prezzi. Così siamo in mezzo al guado.

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La Voglia Matta, Genova

A volte sospendi il giudizio, perché è chiaro che non sarebbe corretto: è quello che mi è successo la prima volta che ho mangiato a La Voglia Matta, a Genova Voltri.
Era lo scorso anno, a pranzo, ed è stato chiaro fin da subito che si trattava della classica giornata storta, partita male fin da subito con il calice offerto che aveva qualche difetto e poi proseguita sulla falsariga di una medietà poco rilevante.

logoCi sono tornato, e posso dire di essere contento di essermi astenuto, ché la cena non è stata affatto disprezzabile.
Andiamo per ordine: sul posto (la famigerata “location”) c’è poco da dire, è un vicolo ben poco significativo di una zona di Genova un tempo sicuramente meravigliosa ma adesso massacrata dal porto, dall’incuria, dai cavalcavia della autostrada… Per fortuna è meglio l’interno, piuttosto curato, con qualche spunto di colorata fantasia mai troppo sopra le righe. Unici difetti: le luci poco calibrate e l’acustica: quando il locale (comunque diviso in due sale non enormi) si riempie, il rumore è fastidioso.

La proposta culinaria (che presenta chiaramente qualche velleità di innovazione) si basa principalmente sul pesce e si articola in maniera interessante in una bella selezione alla carta e in diversi menu degustazione, che a me piacciono perché permettono di assaggiare più piatti seguendo un percorso coerente deciso dallo chef.
Bella la carta dei vini, che evita di affogare in un mare di referenze e di annoiare con le solite etichette ben note, esibendo un ricarico corretto.
Proprio sui vini ho un appunto: ho scelto uno Chenin Blanc della Loira che non conoscevo. Ora, lo so che lo chenin blanc è versatile e si può trovare fermo, spumantizzato, dolce eccetera, ma se in carta non c’è  nessuna indicazione al riguardo, e la persona cui lo ordino non dice nulla, e io sto scegliendo un vino a tutto pasto, mi aspetto si tratti di un vino secco. Non è stato così, e ho ricevuto un (ottimo) vino dolce… Bastava una domanda: “E’ un vino dolce, è sicuro di quello che ha scelto?”.

Decido per un menu basato sul pesce povero e inizia la cena: buoni il pane e i grissini preparati sul posto e ottimo il prosecco colfondo offerto (chi ha versato ha omesso il nome del produttore, purtroppo).
Non mi dilungo sui singoli piatti, trovo non abbia molto senso. Di certo si avverte la volontà di proporre qualcosa di diverso, di rispettare la materia prima (che mi è sembrata di livello) e di lavorare con passione; altrettanto certamente si avverte in maniera trasversale a quasi tutte le portate la mancanza di un piccolo spunto in più, sia esso un pizzico di sale, un giro di pepe, un giro d’olio, una grattata di zenzero… insomma, di un piccolo spunto a completare un piatto comunque ben fatto, tanto più se la base è appunto “povera” e, immagino per questioni di pescato, sei costretto ad usare lo sgombro in più di un piatto.
Unica preparazione completamente sbilanciata è stato lo sgombro marinato nell’aceto: l’aceto copriva in maniera assoluta il pesce, annullandone ogni aromaticità; notevoli invece il carpaccio e il tataki. Non amo particolarmente i dolci, ma ho trovato gradevolissimi sia il biancomangiare alle mandorle che il millefoglie, nessuno dei due stucchevole.

Il servizio è stato cortese e professionale, e il conto sicuramente correttissimo. Da rivedere i tempi di preparazione: sono entrato alle 20 in punto e sono uscito dopo altre due ore e mezza, decisamente troppo.
Trovo qualche analogia con uno dei miei ristoranti preferiti a Genova, Voltalacarta: stessa volontà di ricerca, stessi mezzi un po’ risicati e medesima attenzione al prezzo finale. In questo caso decisamente meglio la carta dei vini, ma un punticino in meno alle portate, proprio a causa di quella mancanza di spunto di cui ho scritto più sopra.

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Voltalacarta: Profumi (e impressioni) d’autunno

Mi piacerebbe una volta parlare con Maurizio Pinto, lo chef di Voltalacarta a Genova, parlargli davvero, non quelle solite due parole di cortesia e circostanza che si fanno dopo la cena, quando il cuoco esce in sala.
Mi piacerebbe chiedergli, sinceramente, il perché di una tale discrepanza tra una cucina ricercata, curata, anche un pochino avventurosa se misurata con i crismi di una ristorazione genovese assai asfittica, e un contorno così poco attraente, che non mi azzardo a definire sciatto ma che, insomma, sembra quasi buttato là…

Andiamo per ordine: la serata “Profumi d’autunno” mi intriga quel tanto da invogliarmi a tornare in questo ristorante del quale ho già scritto in passato le mie impressioni ambivalenti.
La cortesia è sempre la stessa, encomiabile, così come i mille e uno tipi di pane serviti e continuamente riforniti appena il cestino accenna a svuotarsi sono una magnifica (per qualità e varietà) e crudele (impossibile non divorarli compulsivamente) ossessione.
Sempre buono il ritmo di servizio, che permette di concludere il pasto in tempi non biblici, come spesso accade in tante serate a tema, e più o meno sempre lo stesso anche il conto (35 euro, vino escluso), abbordabilissimo se accostato alla qualità e la ricchezza di una cena che nel dettaglio comprendeva:

Porcini dorati su crema di funghi alla maggiorana
Soufflé al parmigiano reggiano con crema di boraggini e tartufo
Polenta morbida con crostacei e funghi porcini
Tortelli di zucca con pesto di noci e pinoli
Cuore di baccala’ al tartufo nero con salsa ai porri e pure’ tartufato
Semifreddo di castagne con salsa ai cachi

Qualche impressione: ottima la doratura dei porcini, che si sposano a perfezione con la delicatezza della crema; meravigliosi i tortelli di zucca, con una bella pasta ruvida e piacevolmente grezza: il ripieno dolce della zucca contrasta in maniera fantastica con la aromaticità della salsa di noci e pinoli.
Non mi ha esaltato la polenta morbida con crostacei e funghi: può essere solo una preferenza personale, ma la polenta è davvero troppo liquida e i crostacei mi sono sembrati un po’ troppo cotti.
Molto buono il semifreddo, peccato una eccessiva durezza in alcuni punti, immagino dovuta al raggrumarsi delle castagne raffreddate.

Cosa non funziona, quindi?
Anzitutto la carta dei vini: forse un poco migliorata dalla mia ultima visita, ma sempre stringatissima (non sarebbe un gran problema) e soprattutto mancante di qualche etichetta più sfiziosa, curiosa.  Per gli appassionati come me, è poi davvero tristemente misera la sezione delle bollicine, sia italiane che straniere.
Se si aggiunge alla ristrettezza della scelta anche il fatto che la bottiglia scelta risulta non presente, e che quella decisa in seconda battuta c’è, ma non è a temperatura, si capisce come il fronte enoico non sia proprio il terra di conquista…

Altro tasto dolente: la logistica.
Immagino i costi di un affitto in centro, e dati i prezzi umanissimi del menu chiudo quindi un occhio sul fatto che la sala non abbia finestre, ma resta il fatto che entrando nel locale si avverte odore di cucina: non è proprio possibile predisporre un ricircolo forzato di aria, con qualche sistema di filtro?
Sempre pensando alla correttezza del conto, sono disposto a glissare sulle sedute non comodissime, su una certa rumorosità della (pur non enorme) sala e su una posateria un po’ così…
Trovo invece francamente indisponente, perché la soluzione sarebbe semplice ed economica, il tavolo traballante che hanno lamentato i signori accanto a me e il fatto che pannelli e pareti chiedano a gran voce una mano di vernice.

Ecco, io non mi spiego come sia possibile tanta cura in cucina, tanta evidente dedizione nella accoglienza, e al contempo così poca attenzione a particolari che, se pur non essenziali, sono comunque parte integrante nell’esperienza del cliente.

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Il mostro di formaggio: Cheese 2013

cheese1Guardate questa foto, vi prego. Questo è uno dei mercati di Cheese, ripreso domenica mattina alle 10.40 circa; ovviamente la folla sarebbe andata ad aumentare per tutto il giorno, perlomeno fino alle 16 e 30, quando, stremato, ho desistito e mi sono incamminato verso l’auto.

Li dico subito: non sono socio Slow Food e non ho certo la saggezza per suggerire alcunché a Petrini o ai suoi luogotenenti, ma sinceramente credo che sia venuto il tempo di ripensare queste manifestazioni-monstre: è pacifico che a tutti noi piace entrare nel Paese dei Balocchi per un giorno all’anno (o ogni due anni, come in questo caso), ma ormai abbiamo oltrepassato il livello del turismo di massa, siamo agli autobus che scaricano frotte di varia umanità condita da gelato e fotocamera compatta davanti al Vaticano, o ai 23 Km di coda in automobile il fine settimana per arrivare in una spiaggia con i lettini accatastati in spalla gli uni agli altri…

Non è questione di snobismo: in mezzo a questa folla di malcapitati, a sgomitare per una briciola di formaggio della Macedonia o per un cucchiaino di yogurt africano c’ero anche io, e non certo per la prima volta… Io sono colpevole tanto quanto tutte le altre migliaia di bipedi vocianti e sudati presenti.

Il punto è che inizio a chiedermi che senso abbia tutto questo circo (a parte ovviamente il godere del Paese dei Balocchi di cui sopra), quando ti rendi conto che, pur con tutta la buona volontà, non potrai scambiare una parola con i produttori, non riuscirai a leggere una riga dei cartelli accanto agli stand, non avrai modo di camminare tranquillamente e di fermarti ad annusare senza rompere le scatole ad altre venti persone che attendono dietro le tue spalle…
Inizio a chiedermi perché ad ogni manifestazione di SF ci debbano essere gli stand della piadina romagnola, delle olive ascolane, della farinata genovese eccetera eccetera, via col giro d’Italia.
Soprattutto, ora che il cibo è tornato ad acquisire dignità e centralità e che il concetto dei presidi è ben noto, mi chiedo se il famoso slogan del “Buono, pulito e giusto” non faccia fatica ad armonizzarsi con i formaggi paracadutati qui da mezzo mondo, con le migliaia di auto parcheggiate sotto la collinetta di Bra e lungo la strada, con gli autobus che fanno saliscendi continuato, con i bar che ormai hanno capito l’antifona e hanno messo pure loro il banchetto all’aperto, proponendo birra e gelato industriali ai visitatori meno accorti, con la gente che si spintona per un piatto di qualsiasi cosa e lo mangia in piedi o seduta in terra, accanto all’onnipresente logo “Slow”.
Certo, i contrasti sono il sale della vita, ma vedere dei tizi che arrotolano spaghetti alle vongole seduti ai tavolini di un bar di Bra (Cuneo, Piemonte) durante lo weekend di Cheese, ha qualcosa di surreale….

Immagino che per SF manifestazioni come questa siano una ottima fonte di marketing e di reddito (libri venduti, laboratori, espositori paganti), così come sono certo che per la cittadina di Bra un evento simile valga più dell’oro, e che quindi sia ben difficile trovare il coraggio di metter mano al carrozzone per ridimensionarlo, però ritengo che sarebbe un bel segnale di coerenza e un salto di qualità notevole da parte della associazione.
Immagino non più un unico Cheese-monstre ogni due anni, ma tanti piccoli Cheese basati sulle realtà locali (e magari alcuni, pochi, selezionati prodotti ospiti, scelti sulla base di affinità), con eventi magari solo a prenotazione e a pagamento.
Certo, per noi appassionati finirebbe il Paese dei Balocchi in cui nello stesso giorno puoi levarti la voglia di cheddar e caciocavallo, ma forse ci aiuterebbe a crescere, ad essere più consapevoli, e scongiurerebbe la deriva da “sagra della salsiccia con orda di turisti giapponesi”.

cheese2Detto questo, Cheese è sempre una gran figata per la possibilità di assaggiare tutto quello che hai in mente e anche oltre, e l’organizzazione è impeccabile: gli spazi per i dibattiti, i parcheggi ai piedi della città con gli autobus che portano in centro, la moltitudine di isole ecologiche presidiate da ragazzi che ti aiutano a buttare il rifiuto nel contenitore giusto, i laboratori con traduzione istantanea bilingue, il centro informazioni accogliente e cortese, e tanto altro ancora…

Temo che ci rivedremo nel 2015.

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Eataly Genova: in picchiata (verso il mare?)

eataly

L’immagine che si fissa subito in mente quando si sale per la prima volta da Eataly Genova è la straordinaria veduta del porto che si gode nei pochi secondi di ascensore in vetro panoramico necessari ad arrivare all’ingresso: una ascesa sul mare e le navi, magari al tramonto, decisamente invitante e poetica.

Quanto sopra era accaduto alla mia prima visita, poco dopo l’apertura, e resta vero anche adesso. Peccato invece che le perplessità iniziali non si siano dissolte, anzi, se ne siano aggiunte di nuove.

eatalyPremesso che questo inverno ho avuto forse la migliore cena dell’anno proprio al Marin, il ristorante “serio” di Eataly (e, causa pigrizia, ho colpevolmente omesso di scriverne), e permesso che il costo di un pasto al Marin non è banale, capita che talvolta ci scappi un piatto in uno dei cosiddetti “ristorantini tematici”.

Se la prima volta che sono stato da Eataly avevo trovato il personale non all’altezza delle pretese di qualità del luogo e ne davo la colpa alla recente apertura, alla sempre troppo citata “necessità di rodaggio”, a questo punto non è più possibile nascondersi dietro ad un dito: nei famigerati “ristorantini” i ragazzi che servono e che prendono le ordinazioni non sono adeguatamente istruiti.

Già devi sorbirti di fare l’ordinazione in maniera più abominevole che alle sagre di paese: ti ammazzi per trovare un tavolo libero (che è piccolo, troppo: con due piatti, due calici, il pane, olio e pepe hai tutto in un equilibrio precario come la salute di coloro che guardano la tv pomeridiana), lo occupi mandando uno solo del gruppo a far la fila a più di una cassa (non puoi ordinare il pesce dove fanno la carne ecc.)…
Se aggiungi che la ragazza cui detti la comanda non conosce i vini che ha in carta e devi farle vedere quello che ordini puntando il dito sul menu altrimenti ti guarda attonita, se prosegui che comunque ti portano il vino sbagliato, che dimenticano di portarti il pane, che la mozzarella di bufala (indicata in carta “con olio extravergine di oliva e sale”) è appunto senza olio e sale ed è ghiacciata dentro e che quando fai presente che mancano i condimenti ti rispondono che “Facciamo così, in modo che il cliente possa scegliere”….
Se aggiungi che naturalmente pochi dei ragazzi parlano le lingue, e di conseguenza ho visto discussioni banalmente risolvibili in un battito di ciglia degenerare in infinite, esilaranti pantomime degne di un film di Totò, ecco, se assieme a tutte queste cose aggiungi i prezzi da oreficeria e il fatto che la decantata qualità ormai prevede ad esempio la vendita di articoli di pregio come la birra Peroni, ecco che all’uscita, durante la meravigliosa discesa in ascensore, in picchiata verso il blu del mare incendiato dal rosso del sole, qualche dubbio di essere preso per il culo inizia ad invaderti prepotentemente.

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Slowfish 2013: impressioni di sfuggita

Alla fine ci sono andato, a Slowfish 2013. Per una serie di casini personali pensavo di non farcela, ma visto che avevo prenotato un Master of Food (diobuono, ma un nome meno pomposo non riescono proprio a inventarselo? C’è quasi da vergognarsi a ddirlo: “Dove vai?”, “Eh, c’ho un Master of Food…”, “Mavaff…”), mi sono ritagliato una mattinata.

Nuova ubicazione (area del Porto Antico invece che la Fiera del Mare), e conseguenti ingresso libero (bene!) e mancato tetto sopra la testa in caso di maltempo (male, ma fortunatamente non ha piovuto).
Ho avuto l’impressione di un minor numero di espositori rispetto all’ultima volta, ma potrei essere stato ingannato dalla ampiezza dell’area; di sicuro la crisi si è fatta sentire: una vocina mi ha detto che il prezzo richiesto agli espositori per uno stand è diminuito, e anche la scelta di non far pagare il biglietto ai visitatori immagino sia dovuta a questo…

Ho fatto un giro veloce, quindi butto giù poche note e pure confuse.
Il famigerato Master of Food conferma le bieche impressioni di collusione Petrini-Farinetti, infatti viene tenuto in una delle aule corso di Eataly. Nulla di nuovo, per carità, è ben noto che Slow Food e Eataly collaborino su vari progetti, ma francamente mi pare che la liason stia andando troppo oltre e che gli obbiettivi prettamente commerciali di Eataly (seppure ammantati di etica) facciano fatica a quagliare dignitosamente con le linee guida di Slow Food.
Ad ogni modo, il Master of Food è organizzato con precisione teutonica: la lezione è ripresa con una telecamera in modo da mostrare i dettagli su due grandi schermi, permettendo una visuale chiara a tutti i corsisti, ogni partecipante ha la sua postazione dignitosamente spaziosa e con tutto il necessario e viene anche omaggiato (oltre che di taccuino e matita) di due bei libri sull’argomento. A fine lezione, si mangia quanto preparato e si esce felici.

Il rapido giro per l’area espositiva è un mix di sensazioni: ci sono gli stand educativi su vari argomenti, e c’è anche tanto mercato (che poi, diciamocelo, è quello che interessa la massa dei visitatori), talvolta anche poco in tema con l’argomento (un esempio? Il venditore di olive ascolane lo vedo sia a Cheese che qui… che ci azzecca?), ma alla fine è sempre bello cazzeggiare tra i cibi, assaggiando un sacco di cose buone e facendo qualche parola con i produttori.

Spendo una riga per gli amici di Maltus Faber, che non vedevo da tempo e che erano presenti, oltre che con le “solite” Blond Hop e Bianca (pulitissime e piacevolissime), con un nuovo prodotto, una Sweet Stout da neppure quattro gradi che gioca tutta sulle finezze (di tostatura, di luppolatura, di carbonatazione; anche il corpo, spesso robusto in questa tipologia, è ben bilanciato) e che mi è sembrata una ottima session beer. Sarà disponibile solo in fusto, e spero di riassaggiarla a breve con più calma, con un bicchiere di vetro al posto della orrida pinta in plastica imposta in queste manifestazioni.

Nota di demerito per l’Enoteca. A parte qualche bottiglia presente in elenco ma in realtà non pervenuta, il prezzo degli assaggi è davvero eccessivo (bicchieri da 3, 4 o 5 buoni, ciascun buono costa 1 euro, in più occorre aggiungere il solito costo del calice), in particolare tenendo conto che non c’è uno grissino disponibile, che non ho visto acqua per pulire la bocca tra un assaggio e l’altro e che non siamo in una vera enoteca (non c’è servizio al tavolo e i posti a sedere sono abbastanza pochi, perlomeno a certe ore del giorno).

Appuntamento a settembre per Cheese!

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La Trattoria della Posta a Monforte: elegante tradizione.

Sulla strada che esce da Monforte d’Alba, a poche centinaia di metri da Flavio Roddolo, c’è un ristorante che serve i visitatori della Langa da lungo tempo (il sito dice dal 1875); la Trattoria della Posta è ubicata in una villetta che sorge sul dorso di una collina, regalando quindi un invidiabile panorama ai clienti della sala da pranzo, e la famiglia Massolino ha arredato l’interno con sobria eleganza: tappeti, cassettoni e mobili in legno, un bel camino con accanto tanti libri da sfogliare… più che in un ristorante, sembra di far sosta nel salotto di una zia leggermente attempata ma facoltosa e di buon gusto.

Del resto quello che il visitatore chiede (o perlomeno, quello che io chiedo) ad un ristorante nelle Langhe è proprio questo: una cucina tradizionale, ben fatta, con materie prime di qualità, presentata con discreta eleganza, una proposta di vini adeguata al luogo, e un prezzo abbordabile.

Più o meno tutto quanto sopra è stato rispettato in questo mio primo appuntamento alla Trattoria della Posta, avvenuto un martedì a pranzo (mi aspettavo il deserto, e ho invece trovato una discreta presenza di turisti stranieri); come sempre in questi casi, mi affido al menu degustazione per due motivi: piatti “collaudati” e prezzo contenuto, e, se possibile, accompagno il tutto con un abbinamento al bicchiere. Accordato.

Poco da eccepire sul menu, con alcune punte di eccellenza (la cipolla al forno ripiena di Murazzano e salsiccia di Bra, molto saporita ma senza scivolare nel salato, e i tajarin al sugo di carne, delicatissimi); più deboli mi sono sembrati i dolci (buoni, per carità, ma un po’ “scolastici”), e, forse viziato da una moda imperante, mi sarebbe piaciuta una selezione di pane più varia.

Qualcosa da dire invece sui vini al bicchiere: un Arneis, una Barbera e un Barbaresco. Forse il problema è stato quello di aver frequentato il ristorante il martedì (immagino che il grosso del consumo, e quindi dello “stappo” avvenga dal venerdì fino alla domenica sera, quindi la mia selezione era potenzialmente aperta da qualche giorno), ma il risultato è che ho ricevuto almeno due bicchieri discutibili: al momento del servizio della Barbera ho annusato con un certo stupore il bicchiere, la proprietaria, vedendomi perplesso, si è accorta che qualcosa non andava prima che aprissi bocca e ha provveduto a stappare una nuova bottiglia (tra l’altro, menzione di merito per la meravigliosa Barbera di Rinaldi).
Il Barbaresco non era nelle stesse condizioni disastrose, ma comunque abbastanza “andato”, e avrebbe meritato pure lui la sostituzione: non l’ho chiesta, non mi piace farlo, quindi colpa mia.

Ecco, questo ultimo punto mi è sembrato particolarmente strano e fastidioso: un ristorante di ottimo livello, con un servizio attento e cortese (sono stato seguito dalla titolare e da una   giovane donna evidentemente preparata ed esperta), che si preoccupa persino di avvinare i bicchieri prima del servizio, credo abbia il dovere di annusare quello che porta in tavola e ritirare i prodotti non del tutto a posto senza che sia il cliente a doverlo chiedere.
Immagino siano molti i clienti che dalla cantina ben fornita e dai prezzi corretti, scelgono bottiglie di prestigio di costo non banale, e che nei loro confronti ci sia più attenzione, ma non mi pare comunque giusto.

In conclusione, a parte questa pecca relativa ai vini, mi sono trovato bene e ho speso il giusto in un locale che, oltre ad una buona cucina, ha dalla sua un panorama meraviglioso e una piacevole eleganza, non formale e stucchevole.

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Le loro maestà: impressioni varie

Buon ultimo tra i vari blog, propongo il mio commento su “Le loro maestà“, importante manifestazione giunta alla seconda edizione (per parlare come i tizi che redigono i comunicati stampa).

Le loro maestàIl succo della faccenda: presentare una panoramica di produttori langhetti e borgognoni, cercando di fornire una prospettiva quanto più completa possibile sulla “nobiltà” dei vitigni Pinot nero e Nebbiolo: in pratica 50 cantine, equamente divise tra Italia e Francia, hanno presentato per l’assaggio uno o due vini ciascuno, simbolo della loro produzione.

Manifestazione magniloquente (non vorrei definirla “sborona”, ma insomma…) sia dal nome “maestoso”, che per ubicazione (l’Agenzia di Pollenzo, dove risiedono anche l’università di Slow Food e la Banca del Vino), la teutonica macchina organizzativa (hostess precisissime e cortesi, guardardaroba all’ingresso, abbondanza di bottiglie d’acqua gassata e naturale e ottimi grissini nella sala di degustazione) e, ovviamente, per il prezzo allineato o forse persino superiore alle aspettative (80 euro!).

Le loro MaestàSolite sensazioni per il tipo di manifestazione che ormai, come da consuetudine, io definisco “drink-porn”: come altro puoi chiamarla, quando paghi per abbuffarti per una giornata intera di una messe infinita di vini, che ovviamente assaggerai e sputerai invece di approfondirli, gustarli, abbinarli ad una pietanza? E’ pornografia enoica: ti perdi in mille abbracci che ricambi solo per un istante, goloso di tuffarti tra altre braccia sempre nuove solo perché puoi e non perché hai qualcosa di ricambiare.
Ma tant’è, consapevole dei limiti della formula, ogni tanto mi piace indulgere in queste perversioni…

La cronaca: sveglia al mattino presto per essere a Pollenzo fin dall’apertura, in modo da dedicare la mattina alla Francia, fare una pausa per il pranzo, poi rientrare per gli italiani e riuscire ad avere un adeguato tempo di decompressione prima del ritorno a casa in auto.
Programma rispettato a dispetto delle temperature polari (-7.5 sulla Torino-Savona alle 9.30 del mattino!).

Mentirei se dicessi che conoscevo più del 10% dei francesi e più del 40% degli italiani, se non per averne letto le ragioni sociali in siti, libri, opuscoli eccetera, e altrettanto sarei presuntuoso se affermassi di essere essere stato capace di capire la filosofia e la qualità di 50 aziende nello spazio di poche ore.
Le loro Maestà 2Per questo, come sempre in queste occasioni, mi limito a qualche cenno su quello che ho trovato più gradevole o interessante in quell’istante, senza volerne fare classifiche di merito e neppure tagliare dei giudizi centesimali che sono quanto mai distanti dal mio modo di frequentare il vino.

Ecco quindi qualche impressione veloce e minimale.
Per quanto riguarda i francesi segnalerei il Clos de la Roche Grand Cru 2002 di Remy: note terziare, tannino presente ma delicatissimo, lungo e cangiante in bocca; il Nuit-Saint-Georges 1er Cru Les Damodes 2007 di Olivier: molto personale, con accenno di medicinale e bella freschezza; il Pommard 1er Cru Grand Clos des Epenots 2009 di De Courcel: si distingue per corpo, potenza e tannino mantenendo equilibrio ed eleganza; il Volnay 1er Cru Santenonts du Milieu 2005 di Comtes Lafon: forse il naso più bello, intenso, ricco della manifestazione.
Segnalazione a parte per i vini di Guillon, che si scostavano dagli altri per concentrazione superiore, sia nel colore che in bocca, il produttore sostiene a causa delle lunghe vinificazioni.

Per gli italiani: bello intenso, vivo, vibrante il Barolo Fossati 2006 di Enzo Boglietti; tannino alle stelle per il Barolo Bricco Boschis Vigna San Giuseppe 2006 di Cavallotto; piacevolissimo e corredato da una bella spezia il Barbaresco Rabajà 2009 di Giuseppe Cortese; fine, delicato e complesso, con accenni interessanti di evoluzione il Barbaresco Camp Gros Martinenga 2004 Tenute Cisa Asinari dei Marchesi di Gresy; molto personale ed elegante il Lessona Omaggio a Quintino Sella 2006 di Tenute Sella.
Un punto interrogativo grosso per il Barolo Bricco Gattera 2005 di Cordero di Montezemolo: al naso si avvertiva netta la banana!

In generale, è stato molto più semplice gestire l’assaggio dei vini francesi, che grazie alla minor potenza e soprattutto al minor tannino, hanno consentito al mio palato di restare reattivo e concentrato più a lungo.

Alcune osservazioni.
Molti i grandi nomi presenti, ma altrettanti ne mancavano, e degli intervenuti ben pochi hanno portato millesimi più affinati degli ultimi disponibili: dato il prezzo di ingresso credo che si potesse fare uno sforzo per avere maggiore profondità di annate; la cosa ha penalizzato in particolare i vini piemontesi, che in molti casi ho trovato ancora estremamente duri.
Ancora, la manifestazione era a numero chiuso: ne sono certo perché al sabato i biglietti risultavano esauriti in prevendita; nonostante questo, in alcuni momenti della giornata la calca era non insostenibile ma certamente fastidiosa; sarebbe stata augurabile una sala più spaziosa.

Infine, vorrei spendere una parola di elogio per la trattoria Savoia: al momento del pranzo abbiamo deciso di fare qualche metro e siamo entrati questo bar / tabaccheria di Pollenzo, che nel retro propone un piccolo ristorante. Cucina semplice e tradizionale, con materie prime di buon livello, porzioni devastanti per quantità e prezzi da incredulità generale. A completare lo stupore, servizio tranquillo e gentilissimo. Davvero complimenti: il locale che vorrei avere sotto casa.

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Voltalacarta: serata cappon magro

Mi pare sia la terza volta in un anno circa che ceno da Voltalacarta, sempre in occasione di serate con menu predefinito: il ristorante punta molto su queste occasioni, proposte frequentemente secondo me con ragione, visto che permettono di richiamare un buon numero di clienti offrendo al contempo un menu interessante ad un prezzo ragionevole.

Il locale gode di discreto passaparola, cerca di impegnarsi con proposte non scontate a costi umani e lo chef è molto presente in città anche come docente in corsi di cucina: tutto bene dunque?
Non proprio: ogni volta che ci sono stato, ne sono uscito con un mix di sensazioni contraddittorie che non mi permettono di essere del tutto convinto.
Cerco di spiegarmi.

Il sito internet è desolante: da che lo frequento risulta perennemente “in allestimento” e rimanda ad un blog (gratuito su Blogspot) che si limita ad elencare le varie serate. Non ci sono la carta, la lista dei vini, una parola sui titolari… Nulla di nulla.
Il locale stesso è bruttino: la posizione sarebbe favorevole, in pieno centro di Genova con anche qualche parcheggio nelle vicinanze (a pagamento, ovviamente, ché i posti pubblici in zona sono drammaticamente limitati), ma la mancanza di finestre è abbastanza claustrofobica. Pazienza, d’altronde in città lo spazio è davvero limitato e immagino che i costi per un affitto migliore nei dintorni siano proibitivi.
Visto però che “i muri” sono quello che sono, un arredamento più curato e una maggiore attenzione ai dettagli potrebbero giovare: la verniciatura bicolore in molti punti sbeccata ricorda vagamente un vecchio ospedale, sottopiatti e tazzine sono dimenticabili, il mio tavolino era lievemente traballante e, pur con pochi posti a sedere, il ristorante risulta abbastanza rumoroso.

Il servizio è molto cortese, magari non eccessivamente professionale ma direi migliorato dalla volta scorsa, quando avevo scelto una bollicina che mi era stata portata in tavola senza ghiaccio e, a causa del prolungarsi della attesa, ero stato costretto anche a chiedere un tappo stopper. Stavolta il vino è arrivato correttamente accompagnato dal ghiaccio, sebbene la glacette sia di dimensioni davvero eccessive…

La carta dei vini è forse l’aspetto più deludente: a fronte di un ricarico corretto ci sono davvero troppo poche referenze e quelle presenti neppure particolarmente originali; non sono amante degli “elenchi telefonici”, ma tre paginette in cui alcune voci sono oltretutto segnate come “in arrivo”, sono davvero scarse. Senza svenarsi per una cantina leggendaria, basterebbe una selezione un filo meno minuscola ma più personale e curata, mantenendo un prezzo corretto.

Ma basta note negative. La serata era incentrata sul Cappon Magro, copio e incollo il menu:
“Sgombro cotto a bassa temperatura con basilico e verdurine
Tortino di polpo con patate prezzemolate e patè di olive Taggiasche
Involtino di spada con pinoli e uvetta in agrodolce
Cubo di salmone confit con spinacini scottati e cipolle rosse di Tropea caramellate
Cappon Magro VOLTALACARTA
Spuma di limone allo zafferano
Caffè & Kokkole VOLTALACARTA
ACQUA MINERALE NATURALE O FRIZZANTE
PANE E FOCACCINE VARIEGATE VOLTALACARTA”

Il pane e le focaccine sono abbondanti, molto buoni, originali e di tantissime tipologie diverse, davvero un plus: occorre controllarsi per evitare di mangiarne in quantità eccessiva.

L’ordine di servizio ha visto arrivare prima il tortino di polpo (piacevole) e poi, serviti assieme, i tre assaggi di salmone, spada e sgombro.
Il piatto è gustoso e le tre preparazioni ben concepite, in particolare il salmone con con le cipolle caramellate (ma gli spinaci c’entrano poco). Il problema è che potrebbero essere tre antipasti o persino tre portate distinte, e volerli integrare in una unica portata ha poco senso e a mio parere li mortifica un poco. Qualche problemino con la temperatura di servizio dello spada, leggermente troppo freddo.

Poi arriva il pezzo forte della serata, il cappon magro. Porzione abbondante (e al termine ci sarà chiesto se desideriamo un “secondo giro”), piatto riuscito e ricco come da tradizione di salsa, uova, verdure, crostacei eccetera. Peccato che, immagino per motivi di gestione delle porzioni e di impiattamento, non si tratti della fetta di una “simil-torta” ma di una preparazione dalla forma meno strutturata (mancano ad esempio la gelatina e la galletta che sorreggono il tutto).

Spuma di limone e zafferano: boh. Nel senso che ero davvero sazio quindi potrei aver equivocato, ma ho avuto l’idea che lo zafferano fosse troppo predominante, impedendo al limone di svolgere il suo compito di “detergente” del palato a fine pasto.

Conclusioni, le stesse delle mie altre volte: il prezzo pagato è corretto e ho mangiato bene, ma c’è qualcosa di non del tutto armonico in un ristorante che avvicina cortesia, originalità delle preparazioni e accuratezza nella presentazione a sbavature poco comprensibili (il sito internet inesistente, il locale bruttino, la carta dei vini risibile, qualche assaggio meno efficace); credo basterebbe poco per spiccare in un panorama genovese di certo non entusiasmante.

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Birre USA all’Irish Pub

L’Irish di Genova Quinto è un pub storico del capoluogo ligure, uno dei primi che in tempi remoti (quando l’interesse per le birre di qualità era affare da “pionieri”), ha avuto in carta un numero considerevole di etichette di rilievo.

Da molto non frequentavo il locale, a causa di una serata abbastanza infelice: non tanto per il cibo, che all’Irish è sempre stato un po’ così (del resto trattasi appunto di “pub”, non certo di ristorante), ma soprattutto perché avevo trovato la selezione delle bottiglie abbastanza sguarnita e un paio di spine non proprio in forma, anzi…

Una serata a tema, incentrata sulle birre USA e condotta dal solito Kuaska (potenzialmente molto interessante, visto che in zona le produzioni birrarie indipendenti americane sono poco reperibili) mi ha dato modo di rimetterci piede.

Irish Birre USA

L’ambiente è sempre lo stesso, nel  bene e nel male: rustico e caldo, un bel pub, con tavolini troppo piccoli e panche per sedersi. Spine non male, una decina mi pare: ricordo un paio di tedesche, un paio di Brewdog,  una Brewfist, una Chimay. Colpevolmente, non ho consultato la carta delle bottiglie.

Tema della cena: birre e cibo USA, ecco i dettagli:
– Pancake alla birra con pancetta con “Morimoto Imperial Pils”, Rogue Ales, Newport (Oregon)
– Cheddar Soup con “Red Giant”,  Element Brewing Company, Millers Falls (Massachussets)
– Quaglia al forno con salsa agrodolce (panna, funghi e marmellata di ciliegie) con “Shakespeare Oatmeal Stout”, Rogue Ales, Newport (Oregon)
– Peanuts Butter Cake con “Bam Biere”, Jolly Pumpkin Artisan Ale, Dexter (Michigan)

Considerazioni: la qualità delle portate è sempre quella… direi che in questo senso l’Irish è un locale irrisolto, nasce come pub e immagino abbia competenze culinarie adeguate a quel ruolo; quando tenta qualcosa in più non riesce del tutto.
Nella fattispecie, i pancake erano freddi (per fortuna non la pancetta), la zuppa non male, le quaglie senza infamia e senza lode e la torta al burro di noccioline (come facilmente immaginabile) un mattone colossale.
Servizio da pub: non mi aspetto certo i fronzoli, e vanno bene tovagliette e tovaglioli di carta, ma mettere in tavola una bottiglia d’acqua e un cestino di pane nell’attesa di iniziare (soliti 30 minuti di ritardo, ormai mi sono rassegnato: vale ad ogni serata) mi sembrerebbe poca fatica, così come credo non sarebbe da rovina cambiare le posate con le portate…

Le birre:
Morimoto Imperial Pils: una “imperial pils”, e ti viene il nervoso solo a sentirla, una denominazione del genere. Persino la bottiglia in ceramica, affrescata con caratteri orientali è tanto fighetta da farti perdere la pazienza, poi però vedi gli ingredienti (100% malto pilsner, 100% luppolo Sterling, lievito cieco. Niente strambismi, finalmente!), la osservi, la assaggi e cambi idea.
Dorata, lievemente opalescente, schiuma un poco grossolana; naso ricchissimo di miele di acacia con accenni erbacei. In bocca, dati gli oltre 70 IBU, dovrebbe essere una delle bombe amare che tanto vanno di moda, invece il malto bilancia benissimo e la scia piacevolmente amara resta solo a fine sorso. Che gran connubio malto-luppolo!
Abbinamento strampalato ma funzionante: l’amaricatura robusta riesce a diluire la grassezza della pancetta calda e la dolcezza delle pancakes.

Shakespeare Oatmeal Stout. Birra contraddittoria, sia perché non mi pare troppo in linea con lo stile dichiarato (che vorrebbe una luppolatura più morbida rispetto a questi 69 IBU di Cascade e Perle), sia perché è tanto poco interessante al naso (non si sente quasi nulla, e mai si sospetterebbe l’uso del Cascade: bottiglia non recentissima?), quanto piacevole al palato: caffè, cioccolato e un tocco di affumicato e di salmastro; corpo piacevolmente leggero, si beve benissimo.

Red Giant: boh. Mi è scivolata via senza particolari impressioni. Birra per me molto anonima.

Bam Biere. Delusione della serata, data l’importanza del birrificio; forse anche stroncata da un abbinamento criminale, deciso dalla padrona del locale.
Fermentazione secondaria in botte, con lieviti selvaggi e si sente: lattico, terra, un filo di speziatura, legno. Naso dunque complesso, anche se non troppo fine (il legno la marca molto), pur parlando di birre acide. Il problema è in bocca: molto più semplice e tranquilla, limonosa e corta, troppo corta. La immagino bene per un aperitivo.

Serata interessante e prezzo corretto, considerando le birre non banali e il solito superlavoro di Kuaska.

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